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fianco del castello di poppa due piccoli scudi con una stella.

Intorno ai pochi sigilli della terza categoria ho da osservare soltanto che il n. 381 (tav. XVI, 22) ci dà notizia di una corporazione mista di artefici della pietra e del legno; mi pare infatti che la leggenda suoni: sigillum maistrorum lapidis et lignaminis de sigillo, in piena corrispondenza coi due emblemi scolpiti nel campo, il piccone per la pietra, e l'ascia per il legno, mentre la piccolezza del luogo. (Sigillo è comune di poco più di 2000 abitanti, in provincia di Perugia) ci spiega perchè si trovino riuniti in una sola corporazione gli appartenenti a due arti diverse ma affini perchè facenti parte dello stesso gruppo delle arti edificatorie.

Nella quarta categoria vanno ricordati innanzi tutto tre sigilli di gentiluomini veneziani che ebbero uffici pubblici, perchè tutti e tre portano il leone di S. Marco, e cioè il n. 388 (tav. XVII, 10) di Nicolò Barbarigo conte di Traù, il n. 445 (tav. XIX, 29) di Pietro da Mosto, scudo inquartato d'oro e di azzurro, e il n. 455 (tav. XX, 17) di Ruggero Ruzier, famiglia estinta che portava fasciato d'oro e di rosso il palo d'azzurro sul tutto. La rosa malatestiana quadriloba con spine, in tutto simile a quella lavorata su alcuni piccioli usciti dalla zecca di Fano, scolpita nel campo del n. 399 (tav. XVIII, 11 e 12) mi rende certo che esso appartenne a Pietro Gentile Alevuzio, distinto giureconsulto fanese morto nel 1509 e sepolto nella chiesa suburbana di S. Biagio in Marano, dove esiste tuttora il titolo sepolcrale; esso fu uno dei correttori degli statuti della città di Fano stampati nel 1508 da Girolamo Soncino. Il nome del sigillo n. 415 (tav. XVIII, 25) mi pare possa leggersi bertuccii meglio di h. tuccii, mentre il Monticlo del n. 443 fa pensare a Monteclo o Monticulum ora Treia in prov. di Macerata, e il Paterno del n. 449 a Paterno di Ancona.

Nell'ultima categoria finalmente troviamo il curioso e veramente originale sigillo di un Clemente professore di chirurgia (n. 476, tav. XXI, 3) il quale volle argutamente e realisticamente sintetizzare la sua professione in un libro aperto sul quale è scritto ivditivm difficile. Il n. 475 appartiene ad un Accorrimbono, e finalmente il n. 518 (tav. XVII, 14) che più esattamente andava nella categoria precedente perchè porta lo stemma del titolare, ricorda Camillo Gior

dani di Piermatteo da Pesaro (1517-1585), conte Palatino, cavaliere aurato, egregio giureconsulto che fu uditore di rota a Siena e a Bologna, luogotenente generale di giustizia nella Marca e consigliere di Stato di Guidubaldo II duca di Urbino.

Se i limiti di una recensione mi tolgono di rilevare con maggiore larghezza l'importanza eccezionale del contenuto di questo volume, non possono e non debbono restringere la lode dovuta all'opera veramente benemerita compiuta dai chiarissimi possessori delle due raccolte col portare a conoscenza altrui i fesori da loro posseduti : perchè quelle date dai sigilli sono notizie che interessano vivamente gli studiosi locali che da essi ricevono insegnamenti ricercati invano altrove, e possono alla loro volta portare alla identificazione di tali monumenti, notizie, riferimenti e analogie che difficilmente possono assommarsi nelle cognizioni per quanto vaste, del solo possessore. G. CASTELLANI.

AUGUSTO TELLUCINI, La raccolta numismatica di Carlo Emanuele III re di Sardegna e il tesoro di papa Sisto V in Castel Sant'Angelo in Roma. Milano, Cogliati, 1910.

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5. Ai tempi nostri, in cui la numismatica si afferma nel campo scientifico, sia come ausiliatrice delle discipline archeologiche e storiche in genere, sia come disciplina autonoma, riesce certamente di non scarso interesse conoscere non soltanto il materiale monetario che le vecchie raccolte conservavano, ma anche la storia del formarsi delle stesse raccolte. Dobbiamo perciò compiacerci anche di questa monografia, la quale viene ad illuminarci sulle origini, sul progressivo sviluppo, e sul dissolversi di una preziosa raccolta quale fu quella di Carlo Emanuele III.

Il Tellucini, dopo aver premesso quali fossero stati gli intendimenti del principe sabaudo nel formare la raccolta, intendimenti esclusivamente pratici e suggeritigli dalla necessità di dare al magistrato della camera dei conti buon materiale di confronto per risolvere agevolmente le controversie che di frequente insorgevano intorno alla qualità ed al valore delle antiche monete, mette in evidenza il cav. Carlo Filippo Morozzo riformatore del magistrato della riforma della uni

versità degli studi di Torino, e il conte G. Battista Balbis. Simone di Rivera ambasciatore del re di Sardegna a Roma, ai quali riconosce il merito principale della raccolta. Il Rivera in seguito ad incarico ricevuto dal governo, colta l'occasione che il Vaticano per far fronte al disavanzo dell'erario scosso dalla tremenda carestia del 1764 aveva deliberato di attingere la somma di cinquecento mila scudi al tesoro che Sisto V aveva radunato in Castel S. Angelo, ottenne che le monete mancanti alla collezione del suo re, e precisamente quelle spettanti al periodo dal 1504 al 1638, fossero a lui consegnate per completarne la serie. Le monete d'oro inviate a Torino in seguito alla prima ricognizione e separazione del tesoro di Sisto V, sebbene assai poche. (per un valore corrispondente a 63 scudi e 93 baiocchi e mezzo) furono d'importanza notevole. Queste monete rappresentano il primo nucleo e forse il principale che giunse ad accrescere la raccolta di Carlo Emanuele.

Il Tellucini ha pure accennato ad altri aumenti apportati successivamente alla raccolta, nè ha lasciato d'identificare e vagliare criticamente le monete che la costituirono. La raccolta, continuata da Vittorio Amedeo III, non sarebbe andata dispersa, secondo il Tellucini, per colpa del governo provvisorio del Piemonte nel 1799, risultando che le monete d'oro e d'argento sarebbero state consegnate a Carlo Emanuele IV avanti di lasciare la reggia per l'esilio, e che quelle di biglione e di rame sarebbero state depositate presso l'università di Torino e quindi passate ai regi archivi, dove trovavansi ancora nel 1830.

RIZZOLI.

GINO LUZZATTO, Storia del commercio. Vol. I. Dall'antichità al Rinascimento. Firenze, G. Barbèra, 1914.

6. Abbandonando il vieto criterio di considerare la storia del commercio come un semplice complemento della storia politica, come un capitolo della storia della civiltà, e correggendo con acuta critica le classificazioni dei periodi commerciali proposte dal Roscher, dal Rodbertus, dal Sombart e dal Bücher, l'A. divide giudiziosamente la sua trattazione in due grandi periodi: quello delle economie isolate

(dagli inizi della civiltà al XVI sec. d. C.) e quello del mercato internazionale aperto (età contemporanea).

Convinto della necessità di metter sempre la storia del commercio in istretta relazione con altre manifestazioni più caratteristiche della vita economica perchè « solo quando di un popolo si conoscano le condizioni demografiche, le forme della convivenza sociale e lo sviluppo dei bisogni, la distribuzione e l'organizzazione della proprietà fondiaria, le forme prevalenti della produzione, solo allora, anche senza i dati statistici, si potrà intendere il grado di sviluppo e d'importanza che han potuto assumere gli scambi in quella società, le trasformazioni ch'essi hanno subìto, le forme in cui sono stati organizzati» l'A. tratteggia nel cap. I l'economia dei popoli preistorici, ch'ebbe per prototipo delle forme degli scambi quella primordiale e, quasi diremmo, istintiva, la forma dello scambio in natura, il baratto.

Ad un periodo di civiltà assai più progredito, nel cui studio le ingegnose deduzioni d'indole sociologica cedono il campo alle documentate induzioni storiche, ci conduce il cap. II, che espone l'evoluzione del commercio presso gli antichi imperi nelle valli del Nilo e dell'Eufrate, dandoci notizia delle primitive forme di economia monetaria nello splendido periodo babilonese e dei primi istituti di credito apparsi in Caldea.

Le città commerciali del Mediterraneo (che fino alla prima metà del secondo millennio a. C. non ebbe se non un'importanza assai scarsa nella vita economica dei popoli orientali) danno materia al cap. III: primi per tempo e per importanza nei riguardi del commercio marittimo e della colonizzazione ci si presentano i Fenici, che della loro feconda attività lasciarono durevole traccia anche nelle molte e fiorenti città fondate sulle coste e nelle isole del bacino mediterraneo: ma al principio del VII secolo questi audaci e fortunati esploratori e mercanti, le cui colonie l'A. felicemente paragona alle colonie venete e genovesi del medioevo, si lasciano togliere il primato commerciale dalla Grecia, dove per importazione a quanto pare dalla Libia già s'era introdotto l'uso della moneta vera e propria, rapidamente diffusasi poi in tutto il mondo ellenico. dopo il secolo VII. L'uso del denaro, di questo intermediario universale dei cambi, porta una radicale rivoluzione nel commercio, e determina il sorgere di nuovi istituti, come quelli del prestito a cambio marittimo, del credito fondiario e mo

biliare, delle banche, che, favoriti dalle felici attitudini d'ingegno della popolazione e dalle fortunate condizioni geografiche, avvieranno facilmente l'Ellade all'egemonia nel commercio e, quindi, nelle altre forme più nobili del progresso. Lo studio del mondo ellenistico e romano, per quel che concerne non solo la storia del commercio, ma eziandio quella politica e sociale a larghi tratti magistralmente riassunta, è materia del cap. IV, uno dei più interessanti e più densi di tutto il libro, quale appunto lo meritava l'altó soggetto: l'analisi dei fattori economici e politici per cui Roma potè in breve assurgere alla dignità di centro del commercio mondiale è fatta dall'A. col più rigoroso metodo critico e con grande ricchezza di erudizione.

Con eguale acume, per quanto con manifesta tendenza alle generalizzazioni, è descritto e spiegato nel cap. V il fenomeno di regresso, che nell'ultimo periodo dell'impero ed in quello delle invasioni barbariche si verificò così nel sistema economico generale, come nella vita industriale e commerciale dei paesi d'Occidente, i quali negli scambi internazionali tornarono ad essere completamente passivi, come lo erano stati prima delle guerre puniche.

Più fiorito e geniale argomento offre al cap. VI la rigogliosa, per quanto eccessivamente burocratizzata, attività industriale e commerciale dell' impero d'Oriente e di Bisanzio in ispecie, che dal dilagare della potenza araba ricevè più vantaggio che danno, finchè la violenta forza d'espansione della nuova razza conquistatrice non assicurò un'importanza mondiale al suo commercio e una diffusione universale alla sua moneta.

Ottimi capitoli anche di storia giuridica, oltre che semplicemente commerciale, sono il VII e l'VIII, in cui si svolgono ampiamente le origini, le caratteristiche, i sistemi dell'economia feudale e comunale, così nel suo insieme come nei riguardi delle singole regioni, ed anzi delle singole città italiane, le cui vicende con sobria ed accurata analisi l'A. esamina e riassume egregiamente, dandoci un quadro vivace e veritiero delle condizioni particolari de' commerci e delle industrie delle varie parti della penisola, de' principali istituti giuridici che sorsero o si perfezionarono nel periodo delle democrazie comunali e da queste passarono nel diritto mercantile moderno, delle prime forme di distinzione fra capitale e lavoro, che preludono all'avvento della grande industria capitalistica de' tempi nostri.

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