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(avverte l'A.) compare ora per la prima volta; ché alcuni capitoli li ero venuti via via pubblicando o in atti accademici (della Società Reale di Napoli e dell'Istituto Lombardo) o in qualche rivista (la Nuova Antologia e la Zeitschrift für romanische Philologie). Ma pur codesti ho rinnovellati o rifatti; e non solo nella forma, ma spesso nella sostanza »>.

F. D'OVIDIO, Sul sonetto di rimprovero del Cavalcanti a Dante. Nella Nuova Antologia, S. IV, vol. LXIII, pp. 593-604. Prendendo occasione dal recente articolo dell'Appel sull'interpretazione del sonetto I'vegno 'l giorno a te infinite volte (cfr. Bull. N. S., vol. III, fasc. 3°-4°), l'A. confessa d'aver da un pezzo rinunziato al suo antico sospetto che l'ottavo verso suoni « tu avevi raccolte insieme tutte le tue rime » e quindi importi un tassativo accenno alla Vita Nuova, o quasi la ricevuta di Guido da potersi allegare agli altri documenti che la provano composta poco dopo il 1290; crede che suoni «< io avevo bene accolte tutte le tue rime », epperò accenni solo implicitamente alla Vita Nuova, ed a quella intesa cordiale da cui essa era stata suscitata certamente qualche anno prima di questo sonetto e del traviamento che esso flagella. Persiste nella sua opinione che il broncio di Guido nascesse dalla intimità di Dante con Forese e con la sua comitiva. Argomenta che erompesse prima della tenzone ormai famosa, anzichè per effetto di essa. Crede che alla posizione di Guido rispetto a Dante ben convenisse il diritto e il dovere di ammonirlo. Gli pare evidente che l'ammonizione sia amichevole, tale da poter essere sopportata da Dante che era sdegnoso, non superbo; anzi da uomini volgari, inetti a comprendere l'eroica viltà da cui i magnanimi spesso son presi, poteva persino esser tacciato di troppa mitezza. Reputa giusto osservare, com' altri fa, che il sonetto si chiude con la ferma speranza d'un prossimo ravvedimento; ma assevera non potersi disconoscere che un rimprovero è, e la viltà si riferisce o ricollega a qualcosa di ben peggio che un semplice abbattimento doloroso dell' anima travagliata da amore. E l'insieme del discorso è in sostanza questo: « Io non vengo più da te di persona, ma col pensiero ci vengo, e di continuo, e m'accoro per te, che vivi immemore dei gentili pensieri, delle alte idealità a cui eri dedito, e non dài più saggio delle tue insigni facoltà. Prima eri assai schivo nella scelta delle amicizie, evitavi sempre la gente grossolana; volevi tanto bene a me, che facevo festa a tutte le tue composizioni, e ora non oso nemmanco dirne più il bene che ne dicevo, nè venire a casa tua, tanto sono sgomento del tuo presente modo di vivere. Rumina bene questo che ti scrivo, sgombra da te la volgarità da cui ti sei lasciato invadere, e torna quel di prima, il mio Dante d'una volta »>!

Anche il prof. F. TORRACA combatte l'interpretazione dell'Appel con buoni argomenti nella Rassegna critica della lett. ital. (Napoli, a. I, 1896, pp. 33-39). A proposito delle frasi pensar troppo vilmente, assai tue virtù ti son tolte, l'anima invilita nota opportunamente che « nel frasario amoroso di Dante, di Guido, di tutta la scuola, esse non avevano valore etico, bensì valore psicologico; denotavano non già condotta immorale e riprove vole, bensì condizioni dolorose dell' anima travagliata da Amore ». E ricordando i versi

Si mi fa travagliar l'acerba vita,

La quale è si invilita,

Ch'ogn' om par che mi dica: Io t'abbandono

della canzone Li occhi dolenti per pietà del core, scritta da Dante « non ancora passato un anno dalla morte della sua gentilissima, quando traviamenti o smarrimenti suoi non erano nemmen prevedibili », e considerando che egli « si rappresenta desideroso di non parlare di Beatrice se non solo a cuori gentili di donne, e sdegnato contro chiunque ragionando di lei non piangesse, e schivo delle genti per vergogna del suo stato », giudica che a Guido il sonetto « fosse ispirato, se non proprio dalla canzone dantesca, dalla situazione, della quale esso è documento >>.

The classical Studies of Dante (The Edinburgh Review or Critical Journal, N. 372, april 1895, Longmans, Green & Co., London, pp. 284-314). PaGET TOYNBEE, Dante's References to Pythagoras, to Orosius; Some unacknowledged obligations of Dante to Albertus Magnus; Dante's obligations to Alfraganus in the Vita Nuova and Convivio (Romania, N. 95, Juillet, 1895). — Se malagevole impresa e pericolosa è quella di indagare le così dette « fonti > a cui attinse un autore nelle sue opere, difficilissima e piena di rischi è certo per Dante, la cui mente divina s'assimilò quanto apprese dagli scritti altrui: tanto più che non siamo spesso in grado di conoscere il vero stato dei testi che egli potè adoperare. Un ingegno eletto può in molti casi incontrarsi con altro eletto ingegno: l'accidentalità della somiglianza d'un pensiero, del ravvicinamento d'una o più frasi dovrà essa sempre far argomentare dell'identità della fonte? A questo pericolo, in cui s'incorre quasi inavvertitamente - tanto più che e le fonti e le così dette references noi italiani siamo soliti confondere insieme allorchè si studia quanto uno scrittore deve ai precedenti scrittori - a questo pericolo sembra siasi sottratto felicemente l'anonimo Autore (che crediamo essere il dott. E. Moore) della sobria e ad un tempo diligente monografia che leggesi nel N. 372 della Edinburgh Review: il quale alle osservazioni già raccolte da altri (come Pietro Mazzuchelli, Carlo Witte, Schück, Gioachimo Szombathely) aggiungendo le sue proprie, e quelle correggendo e modificando quando occorreva, queste istituendo sull'esame rigoroso degli scritti di Dante confrontati con le opere degli scrittori che è probabile egli conoscesse, è pervenuto a conclusioni e notizie statistiche, le quali è difficile qualsiasi anche più scettica critica possa molto infirmare o rigettare. È impossibile qui riassumere un tale studio, che risulta, com'è naturale, d'un numero copioso di avvicinamenti, di confronti tra luoghi danteschi e passi di scrittori o di opere dal poeta ritratti o riprodotti o in qualche modo usufruiti: l'attento lettore non potrà non convenire che quasi sempre le considerazioni sono esatte, i paralleli probabili. Conclusioni originali affatto non ve ne possono essere; ma quanto prima si affermava un po' vagamente, e talora incertamente, qui è dimostrato e provato con rigore ed esattezza. Così, che è oziosa la questione se Dante conoscesse il greco, quando dei principali autori greci ch'egli menziona nelle sue opere risulta che o si servì di versioni (conobbe per es. le due traslazioni di Aristotele, la vecchia, di Michele Scotto (?), condotta sul testo arabo, la nuova di San Tommaso, fatta sull'originale greco) o si giovò di citazioni e di esempi che trovò sia in alcuni scrittori, vuoi classici, vuoi medioevali, sia nei florilegî e nei lessici enciclopedici del suo tempo: direttamente non conobbe nè Platone, nè Aristotele, e nemmeno Pitagora (per cui si valse delle citazioni di Aristotele, Cicerone, Sant'Agostino, Alberto Magno, ecc.). Omero non lo conobbe che per fama. Degli scrittori latini

non è esteso il numero: Terenzio di nome (in Inf. XVIII, 127 fraintende il passo dell'Eunuchus III, 1); Cicerone in alcune opere, specialmente delle filosofiche; Virgilio nelle Ecloghe, nell'Eneide (fraintendendone però alcuni luoghi, come En. I, 664-5, cfr. Conv. II, 6; En. III, 56-7, cfr. Purg. XXII, 40, ecc.), non nelle Georgiche; Orazio satiro (specialmente per le Epistole e l'Arte poetica); Ovidio, Giovenale, Stazio, Lucano, ecc., per ognuno de' quali scrittori l'A. determina con molta probabilità l'estensione e il modo della conoscenza che n'ebbe il poeta, rimanendo pur tuttavia insoluti alcuni quesiti, per es. donde mai egli traesse (Purg. I, 31 sgg.) la finzione di Catone vecchio venerando, quando consta ch'esso morì non cinquantenne; e come potesse (Inf. XXXIV, 65 sgg.) porre tra le fauci di Lucifero un Marco Bruto, uomo nobilissimo per virtù e morali e civili.

Diligentissimo al solito lo studio, anzi gli studi del Toynbee nella Romania, che completano il precedente sugli studi classici di Dante. Anche in questa parte è impossibile un riassunto, trattandosi di confronti istituiti con profondo acume e con una quasi matematica evidenza: forse per alcuno di essi può rimaner qualche dubbio, se la notizia il poeta la traesse dall'autore ricordato, ovvero non piuttosto da alcuno dei lessici in uso nel suo tempo, e da lui giovane, nel principio de' suoi studi certamente usati. Ad ogni modo giova qui almeno indicare in parte quali siano questi confronti:

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1° Per Pitagora: Conv. II, 14 Aristot., Metaphys. I; summa, II, c. 3; Conv. II, 15 Aristot., De meteor. I; summa, II, c. 5 (cfr. Alb. M., De meteor. I, tract. II, c. 2); Conv. II, 16 S. Agost., De civ. Dei, VIII, 2 e XVIII, 25 (ma anche Cicer., Tuscul. Disput. V, 3); Conv. III, 5= Arist., De coelo, II, summa, IV, c. 1; Conv. III, 11= Cicer., Tuscul. Disput. V, 3 (ma anche S. Agost., De civ. Dei, VIII, 2); De Monarchia, I, 15 luoghi diversi della Metaphys. di Aristotele.

De meteor. I, tract. IV, c. 9; Inf. (ma anche Epistola Alexandri ad tract. II, c. 2, 3, 5 (ma anche Arist., De iuventute et senectute,

2° Per Alberto Magno: Conv. II, 14 XIV, 31-6= De meteor. I, tract. IV, c. 8 Aristotilem); Conv. II, 15 De meteor. I, De meteor. I, summa, II, cc. 5-6); Conv. IV, 23 = tract. I, c. 2; Conv. II, 3= De celo et mundo, lib. II, tract. III, c. 11; Epist. VII, 3= De nat. locorum, distinc. III, c. 7.

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3o Per Alfragano (Elementa astronomica): inconfutabili sono ormai i ravvicinamenti di Vita Nuova, § 2, id., § 30 (secondo l'usanza d'Arabia); Conv. II, 4, 6, 7, 14, 15; III, 5, 6, 8.

Più incerti forse sono parecchi dei paralleli stabiliti con Orosio, del quale tuttavia è indubitabile Dante si servì largamente. E. ROSTAGNO.

RAFFAELE PETROSEMOLO, La saldezza delle ombre nella Divina Commedia. Palermo, Lo Castro, 1896; 8°, pp. 17 (Estr. dalla Rassegna Siciliana). — Quanti studiano le contradizioni, apparenti o vere che sieno agli occhi loro, di Dante nella costruzione de' suoi regni oltramondani, vorrei avessero presenti le osservazioni che il Goethe faceva, conversando con l' Eckermann, a proposito di altri consimili casi al Rubens, allo Shakespeare, di cui parlava, ben avrebbe potuto aggiungere Dante. Secondo lui, che fu anche critico così acuto, la contradizione è spesso necessaria ai grandi per meglio riuscire agli effetti d'arte che si proposero. L'artista (diceva il Goethe) deve ne' particolari seguir la natura con fedeltà scrupolosa; nè, per esempio, muterà nello scheletro d'un animale alcun che,

per arbitrio suo proprio, distruggendo così quel che ne è il carattere originale e guastando la natura. Ma nell' alta pratica dell'arte è talvolta costretto a finzioni, perchè egli ha con la natura un doppio nesso; signore e schiavo di lei nel tempo medesimo: schiavo, perchè deve agire con mezzi esterni se vuole essere capito; signore, perchè ha a sua disposizione i mezzi terreni e se ne vale per un'idealità superiore. Giungeva pertanto il Goethe fino a giustificare il Rubens d'aver fatte le ombre d'un quadro divergenti in senso opposto! Non è questo, certo, il caso di Dante, che fu tanto preciso osservatore ed interprete de' fenomeni naturali, anche là dove egli avrebbe potuto immaginarli e rappresentarli contrariamente all'esperienza umana. Ma chi giurerebbe che, in quella sua creazione di tutto un mondo, non abbia potuto, qui o là, lasciarsi trascinare dalle necessità o almeno dalle convenienze dell'arte a qualche incoerenza? Lo scopo suo non mi sembra sia quello di darci un pieno ritratto de' tre regni, ma l'illusione di di averli innanzi ritrattati: come lo scenografo che vuole illudere gli spettatori. ma non sì che essi pretendano misurare e dimostrare matematicamente le distanze e la statica degli edifici sceneggiati. Se non che, bisogna anche in ciò procedere molto cauti; e alla incoerenza o contradizione di qualche particolare credere soltanto quando non appaghino le spiegazioni proposte. Eccone una, molto ingegnosa, del signor Petrosemolo, sulla questione che si torna ora a discutere (cfr. Bull., N. S., vol. III, pp. 11-13) della saldezza delle ombre: sono o no palpabili? quando palpabili, e quando no? Anche il signor Petrosemolo dimostra che il luogo (Inf. VI, 35) dove Dante sembra a prima vista che parli della vanità delle ombre, non vuol dire che egli camminasse sprofondandovi i piedi per entro, ma procedendo, anzi, su loro, e calpestandole come fossero corpi. Nell'Inferno dunque le ombre, e con Dante e tra loro, son cosa salda: nel Purgatorio, prosegue il signor Petrosemolo, esse, vane fuor che nell'aspetto, hanno una tal quale realtà superficiale: nel Paradiso variano a volontà l'aspetto. Quanto più il peso del peccato preme su loro, più dunque son crassamente materiali, e subiscono per ciò la legge dell'attrazione verso il centro; quanto più son sciolte dal peccato, più si alzano libere e spirituali. E, posta questa regola, l'analisi de' casi diversi è fatta con sottigliezza notevole davvero; valga questo esempio su' baci che si danno i lussuriosi nel Purgatorio (XXVI, 37): « L'ombre non s'abbracciano, ma si baciano, rapidamente allontanandosi.... non si tratta di vero bacio, ma di semplice atto; poichè nel contatto è tutta la dolcezza del bacio, e quei lussuriosi la cercano, ma non la trovano, perchè non è più tangibile la loro materia; e il desiderio insoddisfatto è loro pena, come appunto ai golosi. » Sta bene. Eppure, dopo letto e riletto, tu resti col dubbio: pensò Dante a sì fatte gradazioni? I luoghi del poema che vi si riferiscono non dovrebbero essere assai più chiari ed espliciti? e là dove Dante si è curato di darci tutta quanta per disteso la teoria delle ombre, non avrebbe egli dovuto spiegare anche ciò? Le osservazioni del Goethe quindi possono esser citate a proposito anche per la questione della saldezza delle ombre. G. MAZZONI.

CARLO DRIGANI, Responsabile

583-1896. Firenze, Tip. di S. Landi

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Sommario: Atti e comunicazioni della Società (Adunanze del Comitato centrale. Adunanza del Comitato milanese. Relazione economica del Tesoriere. Relazione dei Revisori del Rendiconto. Nuovi Soci). - Annunzi bibliografici (Giornale dantesco, III, 11-12 e IV, 1-2, Rapporto della Società Dantesca di Cambridge (Mass.), e pubblicazioni varie di R. Murari, L. Cesarini Sforza, A. Francescatti, G. Poletto, A. Ghignoni, F. Pasqualigo, G. Lisio, G. Cugnoni, G. Zannoni, G. De-Botazzi, ecc.).

ATTI E COMUNICAZIONI DELLA SOCIETÀ

Adunanze del Comitato Centrale

Il di 17 maggio a ore 14 s' adunò in Palazzo Vecchio, sotto la presidenza del senatore Torrigiani, il Comitato Centrale della Società con l'intervento dei delegati dei Comitati provinciali. Erano presenti i soci Barbi, Biagi, Del Lungo, Fornaciari, Franchetti, Morpurgo, Paoli, Rajna e Tortoli. Il Comitato milanese era rappresentato dal suo segretario prof. Scherillo, il Comitato di Pesaro dal prof. Barbi, il Comitato romano dal suo presidente prof. Chiarini. Scusarono l'assenza i soci Alfani, Casini, Conti, D'Ancona, Dazzi, Mestica, Tommasini e Torraca.

Il Presidente annunzia la pubblicazione del primo volume dell'edizione critica delle opere di Dante, contenente il De vulgari Eloquentia a cura del prof. Rajna; del quale sarà mandato un esemplare ad ogni socio col proprio nome impresso nella guardia.

RAJNA, fra il plauso dei colleghi, presenta la prima copia al marchese Torrigiani come sindaco di Firenze e presidente onorario della Società. TORRIGIANI ringrazia il prof. Rajna dell'opera sua spesa a vantaggio. della Società e degli studi danteschi, e del cortese pensiero di recare a lui il primo esemplare del volume, con cui viene splendidamente inaugurata la serie dei testi critici promessi dalla Società.

Annunzia che pur l'altre opere minori possono dirsi assicurate, essendo stata ciascuna affidata alle cure di competenti persone, proposte dalla Commissione per l'edizione critica delle Opere di Dante: la Vita Nuova e le Rime al prof. M. Barbi, il Convivio al prof. E. G. Parodi, il trat

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