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Sommario: G. MAZZONI: H. Oelsner, The Influence of Dante on Modern Thought. - A. S. BARBI: G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze. - Annunzi bibliografici (Pubblicazioni varie di G. Biagi e G. L. Passerini, E. Orioli, I. Del Lungo, M. Durand Fardel, F. Cipolla). Atti e Comunicazioni della Società.

H. OELSNER, The Influence of Dante on Modern Thought. Londra, T. Fisher Unwin, 1895; 16°, pp. 120.

Chi di questo lavoro si mettesse a notare le ommissioni o, diciam pure, ignoranze, e mostrare il disordine, potrebbe e dovrebbe andar per le lunghe troppo più che il libretto non meriti. Leggendolo vien spesso a mente - Chi troppo abbraccia, nulla stringe! -; e il sig. Oelsner, proseguendo negli studii danteschi, come auguriamo ch'ei faccia, avrà poi ragioni frequenti di dolersi egli medesimo dell' aver si presto pubblicato pagine che assai meglio avrebbe tenute in serbo, contento d'aver conseguito per esse un premio accademico, e meglio avrebbe via via accresciute e corrette con maggior maturità di critica e più ricca copia di notizie. Se delle opere straniere su Dante, o derivate da Dante, è molto disegualmente erudito, la letteratura dantesca italiana, che resta pur oggi la principale, gli rimase quasi ignota: cita, o par che conosca, i Prolegomeni dello Scartazzini, gli Studii e polemiche dantesche del Guerrini e Ricci, il discorso del Carducci, lo scritto del Selvatico Delle arti belle ecc., pochi altri lavori nostri; ma non conosce, o non se ne vale a dovere, per tacer del resto, il Manuale del Ferrazzi, la Bibliografia del De Batines, La fortuna di Dante nel sec. XVI del Barbi, La psicologia nella D. C. di E. Mestica, onde avrebbe in più pagine avuto destro o necessità di valersi. Nè degli stranjeri, sia pure men grave mancanza, attesta compiuta cognizione: manca, tra' Francesi, nientemeno, il Villemain che pe' suoi tempi, cioè per la coltura che in Francia si aveva allora delle cose italiane, tanto giovò alla fama e all'amore del Poeta. Del resto, quando anche il sig. Oelsner si fosse dato cura di meglio addottrinarsi su' libri che lo avrebbero aiutato a svolgere il difficile argomento, ben s'intende che nè tutto gli sa

4- Bull. Soc. Dantesca.

rebbe stato possibile conoscere nè tutto riferire e neppure accennare; ma si vorrebbe almeno ch' egli, su quel che sapeva, avesse esercitata la virtù del pensiero, così da ordinarlo, lumeggiarlo, esprimerlo in modo eloquente, poi che il suo, anzi che uno studio d'indagini critiche, era un saggio inteso a divulgare. Invece, egli ha quasi materialmente allogati l'un dopo l'altro i fatti che gli erano noti, soltanto in una serie, per dir così, approssimativa, di tempi e di genti, senza chiedersi prima donde moveva e a che mirava, senza chiarir bene a se stesso quali erano i limiti del suo studio.

L'efficacia di Dante sul pensiero moderno? Eh, si fa presto a porsi innanzi questa domanda; rispondervi è forse impossibile. Un'efficacia, certo, vi fu, perchè tutti i grandi ne hanno, e Dante fu ed è ammirato quasi universalmente, e letto da molti in ogni parte del mondo civile, dal secolo XIV a' di nostri. Ma altro diremo l'efficacia diretta, di cui si possono rintracciare e mostrare i segni, altro quella indiretta, sia pure anche maggiore, e nondimeno misteriosa e fuor d'ogni ostensibile documento. Le anime che la poesia delle cantiche sacre riconfortò di gioia estetica e di nobile idealità, le menti che Dante nudri della mente sua a più gagliardi ed alti pensieri, non registrarono sè medesime se non quasi per caso; e come sarebbe indegno di parlar d'arte e di critica colui che negasse senz'altro ogni efficacia di Dante sulla civiltà italiana, e per lei sulla europea, così sarebbe leggiero chi di essa efficacia pretendesse ponderare e misurare tutto.

Ciò non pretese il sig. Oelsner. Trattando dell'efficacia di Dante, pose, è vero, sul frontespizio le incaute parole « sul pensiero moderno », ma poi si restrinse ad alcune delle testimonianze che gli si offrivano in Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, sulla diffusione e imitazione dell'arte dantesca, e sugli effetti che ebbe. Anche l'arte è pensiero, e l'arte di Dante è tutta pensiero; nondimeno il sig. Oelsner, rammentando ciò che ha scritto, converrà che pel culto della Commedia e della Vita Nuova l'Italia e l'Europa ebbero nuovi esperimenti d'arte, piuttosto che nuovi metodi o nuovi campi alla filosofia. L'efficacia di Dante sul pensiero moderno è, insomma, quando il pensiero s'intenda fuor delle sue esplicazioni estetiche, tutt'altro che dimostrata!

L'importanza del poema sull'arte italiana, e qua e là sparsamente anche sull' europea, è invece manifesta. Ma può dirsi che non riusci quale avrebbe dovuto, perchè Dante fu più ammirato che studiato e inteso; ne'secoli primi se ne trassero, come accade, insulse imitazioni, anzi che vital nutrimento; poi ne'seguenti gli si sostituirono il Petrarca, che, ben valendosene nelle rime, n'era stato poco accorto imitatore, anche lui, ne' Trionfi, e il Tasso che l'aveva letto e riletto ma non valeva ad assimilarselo. E quando, dopo troppo d'incuria e d'ingiuria, l'Italia tornò al padre suo intellettuale, che le aveva data un'arte e una lingua propria e comune, neppur allora vide bene che cosa Dante era o poteva essere per lei. I ro

mantici si contentarono di accennare alla materia medievale di si illustre predecessore, e alla noncuranza sua delle regole pseudo-aristoteliche, gli rimproverarono Flegias, Caronte, le Erinni!, e non sentirono che da lui avrebbero avuto le forze per una vittoriosa, non già rivoluzione, si restaurazione dell'arte nostra. Soltanto il Mazzini, così alto anche nella critica, vantò il nome e gli esempii del primo italiano: «< I veri Romantici non sono nè boreali, nè scozzesi; sono italiani, come Dante, quando fondava una letteratura, a cui non mancava di Romantico che il nome. » Da Dante sperava l'arte nuova nella forma, che gli sembrava perfetta, del dramma: « Il tentativo sociale falli, prematuro. Rimase presentimento sublime da avverarsi per altre vie. E quel presentimento, come quasi tutti i grandi presentimenti dell'epoca ch'oggi è sul sorgere, fu raccolto da un uomo la cui anima sconosciuta tuttora, fu santuario dell' avvenire. Con Dante incomincia la serie dei pochi Genii profeti dell'epoca nostra; e dal Dante trarremo un giorno la poetica e le ispirazioni del Dramma sociale religioso che l'epoca inoltrando otterrà. » Quanto è oggi nell'arte nostra di dantesco? Dio volesse che, fuor dall'egoismo delle morbose dilettanze de' nervi titillati, si tornasse a quella gioiosa sanità dell'esercizio cerebrale in pro degli altri!

Quanto agli stranieri, se perfino in Polonia Dante ebbe cultori e imitatori (il sig. Oelsner avrebbe dovuto, tra gli altri, almen rammentare Sigismondo Krasinski per la sua Non-Divina Commedia, del 1833, che i competenti affermano animata d'intendimenti e piena di versi danteschi) (1), e se perfino il Goethe, come fu dimostrato dal Kerbaker (e questo anche sfug gi al sig. Oelsner), se ne inspirò per la chiusa del Faust, non può dirsi che l'arte di nessun popolo ne abbia subita forte e durevole l'efficacia. Meraviglia sarebbe il contrario, poi che l'arte è sempre l'espressione della coscienza, e quella di Dante fu in sommo grado coscienza d'italiano e di cristiano del secolo XIV: die' qualche impulso, non è dubbio; determinare correnti continue fuori della terra nostra non poteva. Nè poteva il critico

(1) Ho detto sopra di non voler fare aggiunte a ciò che accenna il sig. Oelsner; ma non so resistere alla tentazione di citare almeno alcuni de' versi che diede a Dante Giovanni Arany, il maggiore de' poeti ungheresi dopo il Petöfi: li trovo tradotti nella Rivista Contemporanea, Firenze, 1° gennaio 1888: « Genio stupendo! Simile al cielo immenso che, sotto gli occhi miei, si rispecchia come il cielo maestoso, vasto come il cielo, e, al pari del cielo, incomprensibile, l'uomo, il poeta (oh come questa parola a rappresentarlo appare meschina!) si lascia trepidando cader dalla fronte la vile corona, e, come se oltrepassasse la soglia d'un tempio, si prostra adorando, sentendo in sè Dio...... Sarebbe egli questo genio una porzione di Dio? E pure Dio è uno e indivisibile. O sarebbe stato concesso ad occhio mortale di penetrare il mondo divino, quando l'uomo è ancora in pieno possesso de' sensi suoi? Mille anni si spegneranno, altri mille rinasceranno prima che un'altra visione umana sulla terra venga ad insegnare all'uomo incredulo ad adorare Dio nell'ombra del suo mistero ».

inventare, e per ciò gli fu forza ingrossare più volte con affermazioni sue quello che i fatti osservati non bastavano ad affermare. Efficacia diretta sull'arte Dante ne ebbe assai in Italia, sebbene non tutta quella ch'era bene che avesse; ed anche ne ebbe, a sprazzi, fuori. Efficacia diretta sul pensiero moderno, per precursore mirabile ch' ei sia stato per qualche parte, ne ebbe ben poca. Della indiretta sarebbe curioso e importante raccogliere notizie da carteggi, autobiografie, postille, appunti, e via dicendo; ma a questo il sig. Oelsner non ha posto mente.

Sopra ho detto che non mette conto notare le ommissioni del libretto; notare almeno alcune delle asserzioni erronee è qui un dovere. Il Manzoni, educato nella scettica società parigina, come potè scrivere gli Inni sacri? « Fu soltanto l'influenza della moglie?» E fattosi queste domande, il sig. Oelsney risponde (pag. 56) che è impossibile non far risalire l'alto concetto che il Manzoni ebbe de' doveri del letterato all'adorazione sua per Dante. Adagio un po': il Manzoni ammirò, certo, Dante, lo cantò in versi giovanili, accennò a lui nelle prose critiche con onore, ne studiò la teorica per la questione della lingua; ma non si può dire che lo adorasse, anzi abbiamo certezza che non gli andava molto a sangue; nè lo gustò tutto, nè giudicò originalmente, nè per la questione della lingua intese pienamente. I versi famosi su' doveri del letterato non derivano dalla ammirazione sua per Dante; derivano, se mai, dal Parini del quale il Carme in morte dell' Imbonati, scolaro del Parini, è una nobile lode. Chi nel 1828, nella forza dell'età e dell'ingegno, potè attribuire a Vincenzo Monti il cuor di Dante, costui non aveva allora una giusta stima, non che adorazione, pel fiero poeta della rettitudine; e il Cantù, quando altri indizii mancassero, basterebbe ad attestarci che non la ebbe neppure più tardi.

Ma neppure il Parini, di cui il sig. Oelsner dice che « il bello stile e l'austerità del pensiero si modellarono su quelli di Dante » (pag. 81) fu un caldo dantofilo. Io stesso ebbi già altrove occasione di accennare che l'anima del prete lombardo forse più d'ogni altra, in tutta la storia della nostra letteratura, somiglia a quella del laico fiorentino, quanto un'anima nell'Italia del secolo XVIII poteva somigliare all' anima unica di Dante; nondimeno mi sarebbe difficile riconoscere nello stile del Parini gli esemplari dell'Alighieri; e che egli non ne avesse notizia sicura mi appare chiaro quando ne' Principii delle Belle Lettere, dopo gli epiteti soliti d'ammirazione, leggo che l'esilio << siccome contribui alla perfezione del Poema, cosi [è da credere] contribuisse notabilmente a divulgarlo in varie bande per propria bocca dell'Autore », e che il Petrarca nello stile e nella lingua « adoperò con assai maggiore avvedimento che Dante non aveva fatto prima di lui » perchè Dante « condotto dal suo entusiasmo ad esprimere in qualunque modo le alte fantasie della sua mente aveva con troppa libertà, a dir vero, usurpato e dall' Ebraico, e dal Greco, e dal Francese, e dal Lombardo parole e modi del dire, che per la loro natura mal convenivano, e difficil mente potevano far lega co'vocaboli e colle forme del suo Volgare. » Quanto

all'austerità, che è dell' indole, non si potrebbe, neppur volendo, farla derivare da Dante.

Per Victor Hugo non s'intende come il sig. Oelsner, che cita le prefazioni a Les Orientales e a Les Rayons et les Ombres, e La Vision de Dante, e pochi altri versi, dimentichi il volume sullo Shakespeare dove più distesamente, e con intendimento critico, a modo suo, quel gran lirico parlò dell' Alighieri liricamente. Che lo ammirasse, non è dubbio; che lo conoscesse ben poco, neppur questo è dubbio. Se il dubbio a qualcuno restasse, lo consiglio che legga negli Idylles della Légende des siècles quello che s'intitola da Dante e in cui parla Dante, tra il resto, a questo modo:

Les femmes après tout sont peut-être des rêves;
Quelle âme ont-elles? Nul ne peut savoir quel dieu
Ou quel démon sourit dans la nuit d'un œil bleu;
Nul ne sait, dans la vie immense enchevêtrée,

Si l'antre où rêve Pan, l'herbe où se couche Astrée,
Si la roche au profil pensif, si le zéphyr,

Si toute une forêt acharnée à trahir,

A force d'horreur, d'ombre, et d'aube, et de jeunesse,
Ne pent transfigurer en femme une faunesse etc.

Quei che fe' parlare così il cantor di Beatrice, non risenti nel suo pensiero, nell'arte sua, nulla del pensiero e dell'arte di lui. Nè, per questo, il Parini, il Manzoni, l' Hugo, saranno agli occhi nostri men grandi: spettava al critico sceverarli dall'elenco, o, annoverandoli, sforzarsi a chiarire come, contro le apparenze, vi rientravano a buon dritto.

Che il Pulci e l' Ariosto « introdussero nella letteratura un gusto più frivolo, che andò sempre peggiorando, e, salendo al colmo nell'Arcadia e nella scuola del Marini, rese impossibile lo studio generale di un'opera cosi fervida » come la Commedia (pag. 11), sembrerà, a chi conosce un po'la storia delle lettere nostre, un' affermazione, anzi due o tre, di molto rischio. Non ci fermiamo su altre prove di tale audacia, nè sulle sviste minori, come l'Innamorata Visione del Boccaccio: più opportuno, dopo le censure, è aggiungere che a ogni modo il libretto porge raffronti e cenni d'una qualche utilità, mentre è prova di coltura larga in chi li raccolse; e che non vi mancano osservazioni buone sul carattere morale ed estetico di Dante. Eccone una (pag. 17). « In verità, noi domandiamo quante persone di qualsivoglia secolo sarebbero capaci di un sentimento cosi squisitamente raffinato quale lo troviamo là dove il poeta, nel vedere le povere anime degli invidiosi coperte di cilicio, con le palpebre cucite insieme da un fil di ferro, esclama: A me pareva andando fare oltraggio, Vedendo altrui, non essendo veduto.

Purg. XIII, 73-74.

Se da si fatta tenerezza noi ci volgiamo a quel curioso:
<< Ma distendi oramai in qua la mano,
Aprimi gli occhi! » Ed io non glieli apersi;
E cortesia fu in lui esser villano

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