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Passando ora al secondo punto, e precisamente al metodo della trattazione, non è difficile rilevare che il De Monarchia è strettamente condotto sul sistema dimostrativo, caratteristico della Scolastica medioevale. Cosí, nel procedere alla dimostrazione della sua verità, egli distingue tutta la materia in tre questioni formulate in forma dubitativa e stabilite in modo da comprendere ciascuna un elemento integrante della tesi principale. Infatti i tre libri della sua opera corrispondono precisamente allo svolgimento delle tre seguenti questioni: 1) an ad bene esse mundi necessaria sit (Monarchia); 2) an romanus populus de iure monarchiae officium sibi adsciverit; 3) an auctoritas monarchiae dependeat immediate a Deo, ciascuna delle quali si riferisce evidentemente al concetto ch' egli dà della monarchia, come quell' unico principato super omnes in tempore, vel in iis et super iis quae tempore mensurantur. Ancora, esposta nel modo che abbiamo detto ogni singola questione, egli procede a dimostrarla con una serie, logicamente coordinata di argomentazioni, e termina esponendo in forma positiva, come conclusione del suo ragionamento, quello che erasi proposto in forma

1 II, II (ed. Moore, p. 361).

2 Cfr. quanto già dicemmo al Cap. III n. 2.

3 Questo è il metodo, per es., della Summa theologica e del Liber Sententiarum di PIER LOMBARDO. Cfr. SCHOLZ, op. cit., p. 120.

▲ De Mon., I, 2 (ed. Moore, p. 341).

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dubitativa, come oggetto di ricerca. Questo procedimento è facilmente riconoscibile nel libro I, ove tratta, appunto la questione della necessità dell' Impero. Quivi egli espone anzitutto nei suoi termini precisi la questione : Prima itaque questio sit: utrum ad bene esse mundi monarchia temporalis necessaria sit. Poi in relazione a quanto dice subito dopo che, nulla vi rationis vel auctoritatis obstante, potissimis et potentissimis argumentis ostendi potest, partendo da diversi punti di vista, in una serie di argomentazioni, nettamente distinte l'une dalle altre, giustifica e rafforza la sua tesi e infine rationibus omnibus supra positis* ripete, come provata in forma positiva: necesse est, ad optime se habere humanum genus, esse in mundo Monarcham, et per consequens, Monarchiam ad bene esse mundi.

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Lo stesso procedimento riscontrasi nei libri seguenti.

Del resto altre particolarità non meno cospicue ci rivelano nell'opera dantesca la scolasticità con cui è condotta. Cosí l'uso frequente delle analogie, specialmente tratte dalla natura, per caratterizzare rapporti essenzialmente morali. Cosí lo schematizzare del ragionamento, che si osserva nel capo XI del libro I; i copiosi riferimenti ai principî della logica aristotelica ed infine la fraseologia caratteristica delle opere scolastiche."

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Ma più evidente si rivela il carattere prettamente filosofico del De Monarchia, quando si ponga mente al terzo elemento, che ci pare fondamentale, precisamente alle, cosí dette,

1 Cfr. SCHOLZ, op. cit., loc. cit. Cosi anche in Egidio Romano.

2 De Mon., I, 5 (ed. Moore, p. 343).
3 De Mon., I, 5 (ed. Moore, p. 343).
4 De Mon., I, 16 (ed. Moore, p. 350).
De Mon., I, 15 (ed. Moore, p. 350).

6 Cfr. ad es. De Mon., I, 9 (ed. Moore, p. 345).
7 Ed. Moore, p. 346.

8 Notevole specialmente il già citato: veritas, quae non est principium, ex veritate alicuius principii fit manifesta. (De Mon., I, 2 [ed. Moore, 341]).

9 È copiosissima, come, ad es. habitus (1, 11); perfectivum (I, 9); natura passivorum et activorum (I, 11); liberum arbitrium (I, 12); substantiae intellectuales (I. 12); agens (1, 13); ens (I, 15); primus motor, qui est Deus (II, 2); organus (II, 2); volitum (II, 2); operabilia (II, 6); medium necessarium ad finem (II, 7); formalia (II, 10); contradictorium (II, 12); impedimentum finis (III, 2) ecc.

auctoritates. Queste non vanno confuse colle fonti dell' opuscolo dantesco, ma ben diversamente debbono identificarsi, in un senso molto piú ristretto, con quei principî addotti dall'autore come mezzi di prova nelle proprie dimostrazioni. Le auctoritates hanno nel sistema scientifico del Medioevo, costrutto su basi essenzialmente deduttive, una importanza grandissima, perché dalla loro scelta, dalla loro veridicità, dipende in gran parte il valore delle conclusioni, Non è quindi da stupire se, anche nel campo politico, esse rappresentino, nello svolgersi del ragionamento, diretto e regolato dai principî di logica, (principî, del resto, necessariamente a tutti comuni) la parte sostanziale, quella che soltanto cadeva in discussione.

Significativo è, a questo proposito, quanto scrive Egidio Romano, nelle ultime pagine del suo trattato: De renuntiatione Papae (cap. 25).1

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facile constatare come il De Monarchia, non soltanto per il concetto che Dante ne aveva e per il metodo scolastico ond'è condotto, ma ancóra per l'uso che vien fatto della ragione,, sopra ogni altro mezzo di prova, è un'opera essenzialmente filosofica. Della prevalenza che la ragione ha nel De Monarchia non è difficile rendersi persuasi. Egli stesso afferma nel cap. V del primo libro che è possibile dimostrare la natura della monarchia unicamente con la vigoría del ragionamento; nulla vi rationis vel auctoritatis obstante, potissimis et potentissimis argumentis ostendi potest. Nel principio del libro secondo egli dichiara che la verità della questione può apparire (patere potest) specialmente dalla indagine razionale — lumine rationis humanae. Ma se anche non avessimo

nell'opuscolo dantesco tali esplicite dichiarazioni, in favore della prevalenza che in esso ha la ragione, in confronto alle altre autorità, che o mancano completamente o vi sono riferite con minore frequenza; basterebbe osservare come procede il lavoro dantesco, e in qual modo egli tratti le varie questioni, che, per artifizio di logica, ha voluto proporsi, per determinare la natura della monarchia. Il primo libro non è altro che una serie di ragionamenti, diretti a dimostrare: 1) che il fine della civiltà umana est actuare semper totam potentiam intellectus

Egli distingue gli studiosi di materie politiche in due categorie: i filosofi e i teologi. I primi egli scrive non danno alcun valore alle autorità, si basano esclusivamente sulla ragione, anzi ritengono come un impedimento per la conoscenza scientifica il prestarvi ciecamente fede. Invece i teologi ed i giuristi danno una grande importanza alle autorità, gli uni alla Bibbia, che, secondo Ago. stino, sorpassa tutte le forze dell'intelletto; gli | possibilis;* 2) che per questo è necessaria la paaltri alle leges ed ai responsa dei doctores iuris. Di qui due metodi nettamente distinti: il filosofico, che si fonda sulla ragione e combatte le autorità o le accoglie solamente in quanto si accordano colla ragione; il giuridico e il teologico, i quali senz'altro accettano quanto si contiene nei libri di diritto o nella Bibbia, senza preoccuparsi di analizzare razionalmente il valore intrinseco delle proposizioni contenute in queste due opere. Egidio si mostra apertissimo fautore del metodo filosofico e critica vivacemente tanto i giuristi, quanto i teologi: nei suoi trattati si fonda in primo luogo sulla ragione e, soltanto in via accessoria, sulle testimonianze della Bibbia, dei santi Padri, di Aristotile e della storia (res gestae). 2

In relazione a tale distinzione fatta da Egidio, e che dimostra assai bene quale fosse in proposito il pensiero dei contemporanei, è

1 Cfr. pure SCHOLZ, p. 120. 2 Cfr. SCHOLZ, p. 121 e sgg.

ce universale; 3) che per la pace è necessaria la monarchia: ad optimam mundi dispositionem requiritur esse Monarchiam sive Imperium.* Orbene: se si indaga come Dante pervenga a queste conclusioni, facilmente si constaterà che tutto il suo ragionamento si impernia sopra delle proposizioni filosofiche elementari, che riferiscono alcuni di quegli assiomi che la filosofia aristotelica poneva alla base di ogni ricerca scientifica; manifesta per se o nota de se, come egli stesso li giustifica nel riferirli. Cosí

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1 Ed. Moore, p. 343.

2 Ed. Moore, p. 351.

3 De Mon., I, IV (ed. Moore, p. 343).

A De Mon., I, 11 (ed. Moore, p. 345).

5 Tale indirizzo scientifico è palesemente manifesto in quanto afferma al principio: necesse est in quolibet inquisitione habere notitiam de principio, in quod analytice recurratur pro certitudine omnium propositionum quae inferius adsumuntur. Cfr. anche il KELSEN, op. cit., p. 136.

& De Mon., I, 8, 14 (ed. Moore, pp. 344 e 348).

Giornale dantesco, anno XX, quad. III.

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la dimostrazione del primo punto è fondata sul notissimo Deus et natura nihil otiosum facit. Al secondo egli procede, riferendosi al rapporto tra il tutto e la parte, nel senso che quemadmodum est in parte sic est in toto." La terza proposizione è corroborata da una serie di argomenti (argumenta), in cui ricorrono, come premesse, le più note proposizioni assiomatiche della dottrina aristotelica. Cosí: sicut se habet pars ad totum sic ordo partialis ad totalem; illud bene se habet et optime, quod se habet secundum intentionem primi agentis; imperfectum sine proprio perfectivo... est impossibile, quum Deus et Natura in necessariis non deficiat; primum principium nostrae libertatis est libertas arbitrii; unaquaeque res eo facilius et perfectius ad habitum et ad operationem disponitur, quo minus in ea est de contrarietate ad talem dispositionem; omne superfluum Deo et naturae displicit; omne quod Deo et naturae displicit est malum; ens natura precedit unum. 10 Né perde valore la nostra osservazione pel fatto che Aristotile viene piú volte citato nel corso del primo libro, e la sua dottrina è sovente parte integrante del ragionamento. Qui, come nel resto dell'opuscolo, Aristotile non è citato per l'autorità del suo nome, ma soltanto per la bontà intrinseca dei suoi principî, il che assai bene Dante stesso ci lascia intendere nell'inizio del cap. V, ove citando un passo dei Politici, afferma: quod quidem non solum gloriosum nomen auctoris facit esse credendum, sed ratio inductiva. 11

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Ma dove l'elemento razionale manifestamente si dimostra nel concetto di Dante il mezzo di prova piú efficace è nel secondo libro. Qui, accanto all' argomentazione filosofica, ha una parte molto importante il fatto storico, nella forma di testimonianza autorevole (aucto

ritas) di antichi scrittori. Ora è oltremodo significativo come Dante giustifichi l'uso delle fonti storiche e come di fatto se ne serva nel procedere alla sua dimostrazione. Egli afferma anzitutto che ricercare: utrum romanus populus de iure sibi adsciverit Imperii dignitatem,' essendo il diritto null'altro che l'espressione della volontà di Dio, equivale semplicemente ad indagare se ciò avvenne secondo il volere divino: utrum factum sit, secundum quod Deus vult.' Ma questo quesito, perché trascende i limiti della ragione umana, non si può dimostrare con la sola forza del ragionamento, e quindi averne certezza assoluta; bisogna accontentarsi secundum quod materia patitur di una conoscenza imperfetta, tratta dalle fonti storiche: sufficienter argumenta sub invento principio procedent, si ex manifestis signis atque sapientium auctoritatibus ius illius populi gloriosi quaeratur. Ora è palese in questa dichiarazione che Dante riconosce nella ragione l'elemento di prova piú efficace per giungere alla verità: altrimenti non si intenderebbe perché egli senta il bisogno di giustificare, cosí stranamente, l'impiego di un mezzo probatorio di tanta importanza; e ancóra, riferendosi alle fonti storiche, nel corso del libro, insista sulla veridicità degli autori che va citando con frasi studiatamente laudatorie; e, infine, dimostrata la sua tesi, dichiari, evidentemente rilevando la superiorità della prova razionale: patet propositum per rationes, quae plurimum rationalibus principiis innituntur.§

Ma se pure mancassero nel libro secondo tali espliciti accenni alla prevalenza dell' elemento razionale; alla medesima conclusione si dovrebbe giungere, osservando come la prova storica viene addotta dall'autore a conferma della sua tesi. Vediamo brevemente. Le argomentazioni che Dante adduce in prova della sua verità sono in tutto sei. Orbene: la prima può

De Mon., I, 3 (ed. Moore, p. 342).
2 De Mon., I, 4 (ed. Moore, p. 343).
De Mon., I, 6 (ed. Moore, p. 344).
De Mon., I, 8 (ed. Moore, p. 344).
5 De Mon., I, 10 (ed. Moore, p. 345).
De Mon., I, 12 (ed. Moore, p. 347).
De Mon., I, 13 (ed Moore p. 348).
8 De Mon., I, 14 (ed. Moore, p. 348).
9 De Mon., I, 14 (ed. Moore, p. 348).

10 De Mon., I, 15 (ed. Moore, p. 349).

11 De Mon., I, 5 (ed. Moore, p. 343). Cfr. pure

MOORE, Studies in Dante, First series pag. 92 e sgg.

De Mon., II, 2 (ed. Moore, p. 351).

2 De Mon., II, 2 (ed. Moore, p. 352).
3 De Mon., II, 2 (ed. Moore, p. 352).

4 Cosi citando Virgilio lo dice divinus poeta noster (De Mon., II, 3) e Tito Livio scriba egregius. E piú innanzi parlando dei miracoli fatti da Dio per l'impero romano: illustrium auctorum testimoniis comprobatur (De Mon., II, 4). Del resto egli non cita per la parte storica che passi di Virgilio, Tito Livio, Cicerone, Orazio.

5 De Mon., II, 11 (ed. Moore, p. 361).

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ridursi al sillogismo seguente: 1) Nobilissimo populo convenit omnibus aliis praeferri; 2) Romanus populus fuit nobilissimus: ergo convenit omnibus aliis praeferri. La seconda procede nello stesso modo, cosí: 1) Illud, quod ad sui perfectionem miraculorum suffragio iuvatur, est a Deo volitum, et per consequens de iure est; 2) Romanum Imperium ad sui perfectionem miraculorum suffragio est adiutus: ergo a Deo volitum et per consequens de iure fuit et est. La terza si riduce schematicamente alla forma seguente: 1) Quicumque bonum reipublicae intendit finem iuris intendit; 2) Romanum imperium subiiciendo sibi orbem bonum publicum intendit: ergo finem iuris intendit. La quarta procede con un semplice sillogismo in questo modo: 1) Illud quod natura ordinavit de iure servatur; 2) Romanus populus a natura ordinatus fuit ad imperandum: ergo romanus populus subiciendo sibi orbem de iure ad imperium venit.* Le ultime muovono dal presupposto che il giudizio occulto di Dio si rende manifesto in due maniere: 1) ex contentione plurium ad aliquod signum praevalere conantium; 2) ex collisione virium, sicut fit per duellum pugilum e sono cosí formulate, una 1) Ille populus qui cunctis athletizantibus pro Imperio mundi praevaluit de divino iudicio praevaluit; 2) Romanus populus, cunctis athletizantibus pro Imperio mundi praevaluit: ergo de divino iudicio praevaluit l'altra 1) Quod per duellum adquiritur de iure adquiritur 2) Romanus populus per duellum adquisivit imperium: ergo de iure adquisivit."

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Ora è facile constatare che, in tutti questi sillogismi, il primo termine, quello che gli scolastici chiamano propositio adsumpta e che noi abbiamo contrassegnato col numero 1), è costantemente una proposizione generica, espressa nella forma di un giudizio sopra una determi

De Mon., II, 3 (ed. Moore, pag. 352).

2 De Mon., II, 4 (ed. Moore, pag. 353). A questa accede la seguente: 1) Quicumque finem iuris intendit cum iure graditur; 2) Romanus populus subiciendo sibi orbem finem iuris intendit: ergo Romanus populus subiciendo sibi orbem cum iure hoc fecit. (De Mon., II, 6, ed. Moore, pag. 356).

3 Cfr. De Mon., II, 5 (ed. Moore, pag. 354 e sgg.). ▲ De Mon., II, 7 (ed. Moore. pag. 357).

5 De Mon., II, 8 (ed. Moore, pag. 358).

6 De Mon., II, 9 (ed. Moore, pag. 359).

De Mon., II, 10 e sgg. (ed. Moore, pag. 360

e sgg.).

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nata serie di fatti, il secondo, che nella logica aristotelica vien detto propositio subadsumpta, e che noi abbiamo contraddistinto col numero 2), è in tutti un fatto storico, riferentesi a quella serie di fatti; dei quali si dà nel primo termine un giudizio generico; mentre poi la conclusione impostata su i due termini precedenti, rimane determinata in prevalenza dalla propositio adsumpta, e quindi dall'elemento razionale e filosofico. Né basta. Tutta la materia del libro secondo, in relazione a quanto procede, si riduce a dimostrare, mediante argomenti razionali, la verità dei primi termini, e, con esempi e testimonianze storiche, l'attendibilità dei secondi. Cosí nella prima argomentazione, ragionando del primo e del secondo termine, Dante stesso afferma : adsumpta ratione probatur; .... subadsumpta vero testimonia veterum persuadent. Cosi nella seconda la proposizione distinta col numero 1) è dimostrata colle parole di san Tommaso, l'altra egli scrive strium auctorum testimoniis comprobatur.

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Né contrasta con la prevalenza dell' elemento razionale sopra ogni altro mezzo di prova, il fatto che Dante nelle ultime pagine, rafforza la sua tesi, riferendosi alla nascita e alla morte di Cristo.

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Se è vero che questo argomento è essenzialmente dedotto dalla tradizione e dal dogma: ex principiis fidei christianae, non bisogna però dimenticare che, nel pensiero scolastico, la dogmatica cristiana era parte integrante del sistema filosofico.

E passiamo al terzo libro. Esso può dividersi in tre parti; una prima, che ne COstituisce il proemio; una seconda ove sono esposti e confutati i diversi argomenti favorevoli alla dipendenza dell'Impero dalla Chiesa; una terza, in cui Dante espone con opportuni ragionamenti la propria teorica sulle relazioni tra Chiesa e Impero. L'ordinamento della materia è come già osservammo quello caratteristico delle opere filosofiche scolastiche. Anche qui l'elemento filosofico che rappresenta, nel suo concetto, la forza della ra

Lo schema del sillogismo usato da Dante è infatti il seguente: Ogni A è B; C è A quindi C è B. De Mon., II, 3 (ed. Moore, pag. 352).

3 De Mon., II, loc. cit.

De Mon., II, 4 (ed. Moore, pag. 353). De Mon., II, 11 (ed. Moore, pag. 361).

gione costituisce la parte più importante; e anche qui - come nei due libri precedenti Dante si riferisce ad un principio superiore e pone come verità irrefragabile quod illud quod naturae intentioni repugnat, Deus nolit, dimostrandolo per contradictorium, col semplice ragionamento. Venendo a dire, súbito dopo, della grande varietà di opinioni erronee, che si avevano al tempo suo sopra i rapporti fra Impero e Papato, egli ne trova la causa nel malo impiego della ragione: hominibus namque rationis intuitum voluntate praevolantibus, hoc semper contingit: ut male affecti, lumine rationis postposito, affectu quasi caeci trahantur et pertinaciter suam denegent caecitatem. Distingue poi nel numero di coloro che errano sui poteri reciproci dell' Impero e della Chiesa tre categorie: gli zelanti, i cupidi, i decretalisti. Dei due ultimi quorum obstinata cupiditas lumen rationis extinxit 3 non ritiene il caso di fare parola; soltanto passa ad esaminare le ragioni dei primi, distinguendole in tre gruppi: 1) quelle che trovano il loro fondamento nelle sacre Scritture; 2) quelle che si fondano sulla storia; 3) quelle che si basano esclusivamente sulla ragione. La confutazione di questi argomenti procede con un metodo strettamente. filosofico: egli nota, seguendo Aristotile, che confutare un principio equivale dimostrarne l' erroneità:

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1 De Mon., III, 2 (ed. Moore, pag. 363).
2 De Mon., III, 3 (ed. Moore, pag. 364).
3 De Mon., III, 3 (ed. Moore, pag. 364).

4 Questa divisione non è fatta esplicitamente da Dante ma si rileva abbastanza bene dal De Mon., III, 10 (ed. Moore, pag. 370) ove è detto positis et solutis igitur argumentis quae radices in divinis eloquiis habere videbantur, restant nunc illa ponenda et solvenda quae in gestis romanis et ratione humana radicantur.

5 De Mon. III, 2 (ed. Moore, pag. 364).

6 Cosi mi pare dover interpretare questo sistema di confutazione. L'accenno infatti che colpisce il falso in sé stesso simpliciter falsum e ancora mostra l'avversario omnino mentiens (De Mon. III, 4, [ed. Moore, p. 366]) non meno che l'applicazione che ne fa, di

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(solutio per distinctionem). In particolare poi, contro le argomentazioni dedotte dalle sacre Scritture, che si fondano essenzialmente su erronee interpretazioni del loro significato, egli intende dimostrare che fu dato ad esse un senso mistico del tutto sbagliato, o questo si ricercò, ove non poteva ritrovarsi : aut querendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quam accipi debeat. Con tali criteri Dante confuta le teoriche dei suoi avversari, particolarmente l'argomento tratto dai rapporti tra il sole e la luna, mostrandolo erroneo per interemptionem, per distinctionem e nella forma; il secondo della precedenza di Levi su Giuda, nella forma soltanto; il terzo a creatione et depositione Saulis per Samuelem, per interemptionem e cosí di séguito tutti gli altri o in un modo o nell' altro. Ora è facile notare come questo metodo di confutazione non si appoggi su dei concetti generali, e neppure lasci trasparire l'idea dell'autore di contrapporre alle opinioni ch' egli combatte altre piú attendibili. Dante confuta le argomentazioni avversarie ad una ad una, collo spirito di un matematico che dimostra l'erroneità di un teorema : par quasi che più di combattere, di annientare i propri contradditori, cerchi di convincerli della falsità dei propri argomenti. Si ha cosí una confutazione minuziosa, incalzante, che demolisce l'avversario, partendo da quelli stessi principî su cui egli si appoggia; una confutazione la quale non ha nulla a che vedere con le analoghe della polemistica politica del suo tempo, ove, con inconcepibile petulanza ad argomento si contrappone argomento, a prova, prova; e l'efficacia delle conclusioni si disperde e si attenua in un sistema artifizioso di citazioni e di dottrine. Dante disprezza i suoi avversari: gli argomenti ch' essi adducono sulle testimonianza della Bibbia, della storia, di Aristotile non hanno alcun valore: essi sono fondati su elementi probatorii senza alcuna efficacia e quindi non meritano neppure di essere

mostrano chiaramente ch'esso ha per iscopo dimostrare l'assurdità dei principî in questione.

1 Questo s'intende assai bene non tanto dal suo scopo di mostrare il falso secundum quid (De Mon. III, 4) quanto dall'applicazione che ne fa specialmente contro l'argomento a potestale clavium Vetio concessa (De Mon. III, 8).

2 De Mon. III, 4 (ed. Moore, p. 366).

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