Slike stranica
PDF
ePub

sed potius iniuria dicenda ». È un concetto prettamente scolastico: Sum. theol., II, 2, qu. LXV, art. << nullus autem iuste punit aliquem nisi sit eius iuridictionis subiectus » e ancora Sum. theol., II, 2, qu. LXVII, art. 2 (« utrum quis possit iuste indicare eum, qui non est sibi subiectus >>).... <manifestum est quod nullus potest judicare aliquem, nisi sit aliquo modo subditus eius vel per commissionem vel per potestatem ordinariam ».

VIII.

[ocr errors]

1

III, 7 (ed. Moore, p. 378) nemo potest dare quod suum non est.... » III, III, 14 (ed. Moore, p. 374): « nihil est quod dare possit quod non habet ». Il Chiappelli cfr. con 54 Dig., L, 17: « Nemo plus iuris ad alium transferre potest, quam ipse haberet. E ancóra 169 Dig., 4, 17: « Non alienat, qui dumtaxat amittit possessionem ».

Ma questi raffronti non hanno a che vedere col passo di Dante, il quale riferisce un de' più noti principî della Scolastica. Cfr. ad es. Sum. theol., III, qu. LXVII, art. 5« nullus enim dat quod non habet

IX.

2

3

III, 5 (ed. Moore, p. 367) « Nuncius autem non potest (agere) in quantum nuncius; sed in solo arbitrio eius, qui mittit illum.... », III, 10 (ed. Moore, p. 371). « Nemini licet ea facere per officium sibi deputatum, quae sunt contra illud officium ». Il Chiappelli riporta questi concetti rispettivamente al 1, 1 Dig., I 21; al 8, 17 Dig., II, 15 e al 170 Dig., L, 17. Il concetto però è assai comune nella Scolastica e ricorre molte volte, specie in materia sacramentale. Cfr. ad es. Sum. theol., II, qu. LXIV,

[blocks in formation]

CAPITOLO OTTAVO. Le altre opere.

1. Mancanza di passi giuridici nella Vita Nova, nella Questio de aqua et terra, nel De vulgari Eloquentia. 2. I concetti giuridici delle Epistole.

[ocr errors]

3. Conclusione.

1. Il De Monarchia ed il Convivio, come anche la Divina Commedia, potevano per il loro argomento ingannare la buona fede degli studiosi sulla natura dei passi contenuti in queste opere. L'inganno però non è piú possibile nelle rimanenti, ove l'argomento affatto estraneo al diritto e piú ancóra la mancanza quasi assoluta di concetti giuridici, ci condurebbe senz' altro a concludere che Dante ignorò completamente il Digesto. Infatti nella Vita Nova non abbiamo alcuna allusione giuridica e le poche citazioni che vi si incontrano, per essere in gran parte indirette, dimostrano in Dante una cultura assai limitata. Accenni al diritto mancano pure nella Questio de aqua et terra per la natura stessa dell'argomento che vi è trattato. Nel De vulgari eloquentia (I, 16 ed. Moore, p. 381) è detto: in quantum ut homines cives agimus, habemus legem, secundum quam dicitur civis bonus et malus ». Ma questo concetto, che parve al Williams the only direct allusion to Law, deriva unicamente da uno dei più noti principi della Scolastica. Infatti esso si trova svolto nella Sum. theol. di san Tommaso, I, II, qu. XIII, (De effectibus legis), art. 1 (utrum effectus legis sit facere homines bonos) e concretato nel principio: << Sicut principis est bene imperare, sic subditorum propria virtus, quae eos bonos facit, est bene oboedire, ad quod lex inducit: unde proprius legis effectus est, homines vel secundum quid vel simpliciter bonos efficere ». Anche nel De Officis, opera che Dante mostra di conoscere non meno bene, è scritto: iustitia ex quo viri boni nominnatur.

2

[blocks in formation]
[blocks in formation]

Ep. V (ed. Moore, p. 406) « Qui bibitis fluenta eius eiusque maria navigatis; qui calcatis arenas littorum et Alpium summitates quae sunt suae; qui publicis quibuscumque gaudetis et res privatas vinculo suae legis, non aliter possidetis ». Dante in questo passo dice proprietà dell' Imperatore i fiumi, i mari, i litora maris, le sommità delle Alpi e aggiunge che le libertà pubbliche (le franchezze, di certo) son sua concessione, come pure il godimento di quelle private. Malgrado la forma enfatica con cui tutto questo è espresso, si intravede facilmente che Dante, all' infuori di ogni concetto di diritto romano, delinea unicamente la posizione dell' Imperatore come capo della gerarchia feudale.

[blocks in formation]

omnium detrimento interire non potest, vel etiam infirmari ». L'accenno che nel passo si ha alla humana ratio manifestamente dimostra che Dante non vuol qui esprimere un concetto giuridico ma un principio filosofico. Questo infatti sta a dimostrare il periodo che segue: « nam.... » nel quale di esso si dà prova razionale, e non giuridica, come sarebbe logico, se il suo contenuto fosse tale.

IV.

Ep. X (ed. Moore, p. 414): « nec mirum quum non ipsi legibus, sed ipsis leges potius dirigantur ». È concetto derivato da quello aristotelico della legge e che Dante riproduce in De Mon., I, 14 (ed. Moore, p. 349: lex regula directiva vitae, di cui già facemmo cenno.

-

1

3. Volendo ora riassumere a grandi linee il risultamento di questa nostra indagine e determinare quale posizione ebbe Dante dinanzi al pensiero giuridico romano, che tanta cessario riferirci ad una distinzione già da noi importanza ebbe nel tempo suo; ci sembra neposta nelle prime pagine di questo lavoro, tra la conoscenza diretta delle fonti di diritto positivo e la speculazione filosofica del diritto stesso.

Riguardo alla prima, colle prove numerose e attendibili che abbiamo raccolte, ci sembra logico affermare che Dante non ha conoscenza profonda e diretta delle fonti giustinianee, ma soltanto semplici ed inorganiche cognizioni di diritto, apprese senza volerlo nella lettura di opere filosofiche e nell' esperienza quotidiana della vita.

Ampie ed organiche sono invece le sue nozioni filosofiche del diritto, come espressione razionale della volontà, e specialmente come elemento morale della società stessa.

Educato al lungo studio delle dottrine aristoteliche, Dante genialmente riproduce, e modifica in parte, il pensiero filosofico-giuridico del grande Maestro e nelle sue opere si afferma con una visione essenzialmente razionale dei rapporti giuridici. Per questo egli rimane ed è sopra tutto un filosofo e nella storia del diritto un ardito speculatore dei fini ultimi delle manifestazioni sociali.

Istituto giuridico della R. Università di Torino, maggio 1912.

MARIO CHIAUDANO.

1 Cfr. quanto scrivemmo al cap. VI, n. 2, VI.

CHIOSE DANTESCHE

[blocks in formation]

Che il professore M. Barbi abbia sudato parecchie camicie per cavare un costrutto da codesto sonetto e stabilire se possa esser di Dante o no, appare evidente a chi scorra solo le quarantadue pagine fitte (non meno!) da lui mésse insieme per questo fine. Le accoglie il vol. XVII, fasc. 4° del Bullettino della Società dantesca, che è come dire lo stillato, il sublimato della Dantografia italiana. Ma che non pertanto egli sia riuscito a qualche cosa, bisogna per forza negarlo. In quanto all' autenticità o meno del componimento, in verità il Barbi non afferma di sì e non dice di no; cosí che, dopo tanto squadernare di codici, e tante tavole e raffronti ed elenchi, tra il sì ed il no, siamo, quanto a questo, proprio allo stesso punto di prima. E ciò pure confessa in fine il Barbi stesso. 1

Or su questo punto una parola sola. Io non vo' parlare della forma del sonetto, che non farebbe torto a Dante, e tanto piú a un Dante un po' in veste da camera, in questa specie di lettera di ragguaglio ad un amico; e non ne parlo, perché non vo' addurre in

[blocks in formation]

campo quest' argomento tanto... elastico della forma; ma pure dico, che se il Barbi non facesse professione di una piú che Prudentiana cautela, avrebbe forse potuto indursi a credere che il sonetto sia proprio di lui, messer Dante. E ciò non solo per le antiche e concordi testimonianze che lo dicon suo, ma anche un pochino per la collocazione del nome Amore giusto al v. 3° che nelle sue rime è, per quel nome in ispecie, una delle sue collocazioni preferite. Ma lasciamo stare; non è cosa che abbia detto altri che io; lasciamo stare dunque... Ma codesto sonetto il Barbi almeno lo avesse capito! Dice cosí :

1

Iacopo, i' fui, ne le nevicate Alpi, con que' gentili ond' è nata quella ch'Amor ne la memoria ti suggella

e perché 2 tu, parlando, anzi lei palpi.

Non credi tu, perch' io aspre vie scalpi, ch'io mi ricordi di tua vita fella sol per costei, che la Diana stella criò e donde tu mai non ti parti?

Per te beato far mossi parole a' suo' propinqui del lontano esilio, che cercar pensa per l'altrui valore.

Donde non nacquer canti ne calore, ma in tra loro facien lungo concilio: non so 'l deliberar, ma so 'l dolore: Dico che tutti si dolien per lei, dicendo: « Dove perderem costei? ».

1 Cfr. Armonie segrete nell'arte dantesca in Zeitschrift f. rom. Philologie, B. XXXIV, f. 2, pag. 182.

? Il Barbi si lascia sfuggire questo « perché », che mi par evidente debba leggersi « per che », cioè << per cui », ossia « per la quale [donna] ». Inezie !

II.

Ora qui quel che è necessario capire per rendersi conto delle parole di Dante, è, come è ovvio, quale sia la sostanziale condizione di fatto da cui il sonetto stesso è originato. Dopo ciò soltanto si può intenderlo proprio davvero, si può intendere, cioè, l'ufficio amichevole che Dante ha reso all'amico che ne lo aveva caldamente pregato, si può intendere di che cosa egli ha parlato a' parenti, principalmente al padre e alla madre della donna amata dal suo Iacopo, qual' era la disposizione d'animo di costei rispetto a Iacopo, ecc. ecc. Ma per riuscire in questo, occorreva prima di tutto spiegarsi la frase in cui Dante fa sapere all'amico che la donna in parola, « per l'altrui valore, pensa cercare un lontano esilio ». Il Barbi spiega tutto codesto nella sua parafrasi così: « Per farti felice entrai in discorso co' suoi congiunti del lontano esilio, che ella pensa di procurarsi per le virtú e i pregi che vede in altrui, CIOÈ IN TE». E in nota alla parola « esilio » ag. giunge la chiosa che qui trascrivo: « Esicio è usato qui per l'allontanarsi, volontariamente, dalla propria famiglia e dal proprio paese per ANDARE A MARITO ». Proprio così!1

[ocr errors]

Dunque nell' « altrui» il Barbi vede, non. altri che lo stesso Iacopo, e nel lontano esilio », per conseguenza, la casa di costui, una volta divenuto sposo felice di colei per cui « palpa ». Il vero è appunto precisamente il contrario. Di codesto Iacopo, la donna non vuol saperne affatto, proprio affatto. E Iacopo, come si rileva dal sonetto, pur troppo lo sa, e ne era disperato già prima che in casa di lei si recasse l'amico Alighieri, per tentar di piegar colei ad altri migliori propositi. Questi gli dice infatti: Non credi tu.... ch'io mi ricordi di tua VITA FELLA? Vita dunque proprio da fidanzato prossimo alle nozze codesta di Iacopo! L'Aliglieri, come si rileva da ogni sillaba del sonetto medesimo, pur troppo lo sa anche lui, e bene di sua scienza. Finalmente i parenti di lei, come si rileva dagli ultimi versi sempre del sonetto medesimo, pur troppo lo sanno anch'essi, e non ne sono men dolenti de' due primi. Spo

1 Cfr. pag. 252.

2 E dire che il Barbi si dà pena di spiegarci meglio che cosa significhi fello con due esempî, uno di MONTE e l'altro di CECCO ANGIULIERI !

sare Iacopo? Mai! Solo il Barbi, dopo aver letto chi può dire quante volte questi versi medesimi, è l'unico a non darsene punto per inteso, e può anzi aver capito giusto il contrario! Ma allora che cosa sarebbe andato a fare

Dante colà?! Che significherebbe egli al suo amico in tutto il suo sonetto-missiva ? C'è qualcuno che potrebbe riescire a capirne mai qualcosa? Io lo chiedo a chi ha un barlume solo di intelligenza. Via, c'è anche un premio per chi l'indovina!

III.

Or quando una donna, non piú ragazza, si rifiuta di sposare qualcuno, come qui la giovine amata da Iacopo, vuol dire che essa o ama un altro o vuol votarsi a Dio e farsi monaca. Qui non si può trattar del primo caso primo perché Dante non era uno scimunito - Dante o altri chicchessia sí da mettere in rilievo l'« altrui valore », cioè i meriti di codesto presunto fidanzato prescelto, giusto sotto gli occhi di Iacopo, giusto in tanto che gli comunicava che quella donna non voleva punto saperne di lui! Poi, perché Dante parla di << esilio », espressione non propria per indicare il soggiorno in casa di uno sposo, tanto piú poi se codesto sposo è desiderato ed amato a preferenza di un altro. Terzo perché qui si tratta di cosa che nasce esclusivamente, per intero, solo dalla volontà della donna, come dichiaran le parole: « cercar pensa ». È lei che « pensa cercare » : nulla c' è dunque ancóra nel fatto, di concreto, salvo la volontà di rifiutar un matrimonio qualsiasi, salvo il desiderio vivo di riuscire a trovare codesto

sospirato « esilio lontano dalla casa paterna. Perchè, si badi, è Dante, dolente della cosa, che lo chiama « esilio » ; non già lei, la donna. Non rimane dunque in campo che l'altra ipotesi. Non per nulla Dante dice quante cose Dante dice in questi pochi versi: e non è cosa questa che sa far a preferenza lui ? non per nulla dunque Dante dice che costei « la criò la Diana stella »: la qual cosa poi, se io non sbaglio, non può significar altro che essa nacque sotto l'influsso della stella Diana, che, se non erro, è giusto il simbolo della castità.

IV.

Ancóra. Quell' « altrui valore è un aperto accenno a Dio, a cui con << altrui », come a

1

soggetto ben vivo e presente all'intelligenza di ognuno oltre che facilmente rilevabile dal contesto e perciò facile a intendersi, senza che s'avesse a nominare esplicitamente: (e ciò per un riguardo alla Divinità) spesso alludono e Dante e altri trecentisti. Non dico poi quante volte Dante stesso adoperi la parola << valore » per indicare Dio stesso o l' influenza di Dio sul cuore umano! Non presumo d' insegnar queste cosucce al Barbi, ma le dico solo per me e per gli apprendisti della critica dantesca. Per es. in Purg., XII, 4: «O Padre nostro... Laudato sia il tuo nome e il tuo Valore »; Ibid., XV, 70-72: « Tanto si dà quanto trova d'ardore; Si che quantunque carità si stende, Cresce sopr' essa l' Eterno Valore » ; Par., IX, 103-105: << Non peró quí si pente, ma si ride. Non della colpa ch' a mente non torna, Ma del Valore ch' ordinò e provvide ». Ma è inutile moltiplicar gli esempî, che può trovar chi vuole. L'una e l'altra parola « altrui » e < valore >> ci richiamano entrambe l'idea di Dio, e quindi nessun dubbio che « per altrui valore » valga quanto per influsso o ispirazione di Dio ». Ma quindi, se non proprio per questo, cioè per tentar d'impedir, d'accordo co' parenti di lei, che costei non se ne andasse lontano, per chiudersi in un chiostro famoso per santità, in Provenza o altrove, se non proprio per impedir questo, per che altra ragione Dante si sarebbe recato là per le nevicate alpi e avrebbe parlato e sarebbe venuto a trattative co' parenti di lei? Con lei, no. Ritengo che essa non l'avrà neppur voluto ascoltare. Ed infine, che si tratti proprio del pensiero di chiudersi in un chiostro da parte della donna, ce lo conferma la disperazione, oltre che di Iacopo, anche di quella buona gente de' parenti

1 Ne cito due esempî soli uno di Dante e l'altro del Petrarca, ché molti altri si possono facilmente ripescare co' dizionari dell' ALUNNO Osservationi al Petrarca e dello SHELDON, Concordanza delle Opere di Dante alla mano. DANTE, Inf., V, 80-81: «O anime affannate, Venite a noi parlar, s' Altri non niega! » ; PETR. Canz. Che debbo io far, v. 62: « . . . . tal che, s' Altri mi serra Lungo tempo il camin da seguitarla, Quel che Amor meco parla Sol mi ritien ch' io non recida il nodo ». Lo stesso uso fanno anche gli antichi di Lui Dio per cui si può vedere il mio Contributo all' edizione critica del « Canzoniere » del Petrarca in Giorn. stor., v. II, 135.

di lei, che volentieri avrebbero voluto dare ad Iacopo quella ostinata picchiapetto, la quale invece non vuol sentire che le influenze celesti che presenziarono alla sua nascita, e non vuole ascoltare altra voce che non sia quella segreta del cuore, che le parla di Dio. E costoro non possono che ripeter tristamente l'un l'altro: « Dove perderem costei?» Cioè, mi par chiaro : in qual triste luogo andrà a chiudersi ormai costei? E là, dove che sia, non potremo considerarla che come perduta per sempre al nostro affetto, una volta che si sarà partita da' nostri occhi?! Aveva voglia Dante di aspettare una loro deliberazione o conclusione da riferire a Iacopo! Che potevan dirgli? Si sa, le donne alle volte hanno le loro fantasie, i loro gusti, i loro sentimenti più o meno lodevoli; e quando han detto proprio di no, non è sempre facile indurle poi a dir di sí.

L'è dura a chi gli tocca, ma è cosí. Non ci resta che sparger qualche lagrima per la sorte, piú fella » che mai, di quel povero Iacopo, che pure s'era tanto raccomandato a Dante, e chissà quanto aveva confidato nelle buone persuasioni del facondo amico perchè la donna, chissà quanto bella e gentile, desistesse da' suoi proponimenti che la inducevano a rinunziare alle varietà del mondo. Ahimè!... Il sonetto di Dante dovette togliergli ogni illusione.

Or tutto ciò appare dal sonetto di Dante in modo cosi chiaro, cosí patente, con tanta evidenza di parola, che occorre proprio un lungo tirocinio di cecità intellettuale, - la qual pare pregio precipuo di certa scuola che pure s'arroga il vanto de' metodi di critica piú raffinati per non vedere, per non capire, non intendere ciò che intenderebbe ogni altro, ciò che di conseguenza non c'è neppur merito ad intendere. Progressi della novissima ermeneutica de' testi, del metodo e della filologia novissima, privilegio esclusivo di certi critici di mia conoscenza.

[merged small][merged small][ocr errors][merged small]
« PrethodnaNastavi »