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fatti egli lo traduce: .... per la quale [donna] « per la quale [donna] tu palpiti ogni volta che t'avvenga di parlare alla sua presenza ». Sarei proprio curioso di sapere come il Barbi abbia fatto a sapere che < palpi» valga « palpiti ». Certo deve esserselo immaginato, perché né l'esempio da lui stesso citato, né gli altri due addotti dal De Benedetti in una recensione di questo scritto del Barbi di cui ci occupiamo riescono a provarlo. Palpi < » è lo stesso che « balbi », e < balbi » vale quanto balbetti ».

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Esempî della labiale p mutantesi, in sede accentata o no, nell' altra labiale 6 non mancano in verità né nell' italiano antico, né nel moderno. Per quest'ultimo bastano o potrebbero gli esempî di pispigliare e bisbigliare, panco e banco; palco e balco; ma assai piú numerosi sono naturalmente nell' italiano antico per cui si hanno le forme, apparentemente doppie, di << cubitare » prov. cobeitar e << cupitare » lat. cupio; « zombare » e « zompare » << rimproccio » e << rimbroccio >> lat. reprobare; « riprezzo > e < ribrezzo » « brevilegio e brivilegio »; (per influsso di brevis breve, scrittura?) « Iacopo >> << Iacobo « Pancrazio >> << Brancazio»»; «àbbero » e «àppero > sicil. << àppiru [= ebbero]; « doppio » « doblo » lat. duplex; e ciò senza aver a rimontare al latino arcaico e popolare e alle forme < pappus >> « babbo ». < Poplicola » a « Publicola », a ⚫ poplicus >> « canto a << publicus >> e ad altri infiniti. Che piú? Nello stesso nostro sonetto non abbiamo la voce « scalpi », e lo stesso Barbi, nella nota relativa a questa voce, pag. 251, n. 5, non cita lui stesso un tratto di Fra Taddeo Dini in cui ricorrono le parole << scalbatore > e « scalbare » che ci richiamano l'uno ma

accanto

«

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«

ac

questo il Barbi non vede! a un antico « scalbare » e a' moderni << scalpitare » e << scalpicciare » e scalpitio» e « scalpiccio > e l'altro a una forma << scalpitatore » della qual forma non ci saranno esempî alla mano forse per averla in fine uccisa la sopravvissuta sua rivale << scalpitante »? In quanto poi all'esistenza di un verbo « balbare >> per balbettare » chi non pensa qui alla < femina balba > o blesa di Dante? Parad. XIX, 7chi è bleso naturalmente balbetta, - la Dio mercè si può viver tranquilli! Ce ne è esempî

In Giorn. st., v. LIX, 419-420.

1

financo nel Dizionario della Crusca 5a. Lí, sotto BALBARE: « E per balbettare. » E se ne cita questo esempio dalle Laudi spirituali di Bianco da Siena 36, 158 (Viani). << Non so quel che mi balbo ». Ma vediamo ora se gli esempî addetti e dal Barbi stesso e dal De Benedetti confermano o no il significato che io sostengo abbia quella voce. Il primo: Bonac. Pitti, Cronica, Bologna 1905, pag. 48 (là dove Buonaccorso è a gran pericolo d'esser riconosciuto come nemico e preso): « Il Difensore.... di nuovo m'esaminò. Io gli dissi quello medesimo, e senza palpare ». Secondo: Ballata I Reali di Napoli nella Rotta di Montecatini, G. Carducci, Rime di Cino d. Pistoia e d'altri. Firenze, Barbèra, pagg. 603-604, v. 12-14: Se fosse vivo, tu 'l diresti scorto (Come tu di' del prence infortunato) Ma palpi sí ch'io l'ho per isbrigato », Terzo Matteo Villani, Cronica III, 6: << senza rendere al Santo Padre il debito onore, quasi palpando, per lo trattato tenuto col Vicecancelliere dello mperatore ecc. ». Ora specialmente dal secondo. esempio appare quanto mai evidente il significato di palpare balbettare », giacché « ma palpi», si controppone a << diresti SCOLTO », che val quanto CHIARO », « aperto »; cosí che non si potrebbe immaginare un' antitesi piú patente. Ed è del pari evidente che anche negli altri casi si tratta sempre di persone che stanno a parlare, come si può immaginare (senza sforzo) che faccia il nostro Iacopo nel nostro sonetto, tutte le volte che si trova dinanzi all' amata non riamante; ed invece, in nessun caso mi pare che si potrebbe arrivare a pensare ad un tremito vero e proprio, ad un tremito di cui mancherebbero financo

Questa ballata nella raccolta del Carducci ha questa nota a pag. 609: «Se avessi prove di amanuense trascurato, leggerei palpiti e non palpi si; ma la lettera è chiara ». Evidentemente il Carducci, non rendendosi conto di quel « palpi », pensò ad un errore di lezione, inducendosi a credere che quella voce valesse quanto « palpiti ». O che non sia questa la fonte della medesima erronea spiegazione che ce ne dà il Barbi?

2 Di << scorto » per « chiaro », cito, per ogni buon fine, qualche esempio: PULCI, Morg. III, 22: << E tramortito in terra si posava : Perché ciascuno allor giudica scorto, Che 'l conte Orlando dovessi essser morto »; Ibid., XI, 125: .... e pur si vide scorto Quanto Dio amassi la sua stirpe buona »>.

le ragioni; mentre, trattandosi di accennar sempre colla parola a cosa dolorosa che turba l'animo a parlarne, ognun si persuade che si debba esitare, balbettare nel discorso, o poco o molto che sia.

VI.

lí nel canto e nella nota» in cui « nota »
vale quanto « ballo », indicando la parola il
ritmo musicale regolatore della danza. 1

VII.

1

E qui ho finito davvero, ma non posso intanto non far dentro di me una assai malinconica riflessione. Il tèma, come s'è visto, vi si presta, e la riflessione naturalmente è questa:

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Che cosa
mi domando io
sarebbe
avvenuto, che cosa si direbbe fra i cosí detti
studiosi, dantisti o no, se ciò che a proposito
del sonetto Iacopo, i'fui ha scritto e stam-

E qui avrei finito, se non mi restasse da aggiunger qualche cosa su < calore » del verso: «Donde non nacquer canti né calore », che il Barbi traduce: « di che non nacquero manifestazioni di letizia ». Cosí egli ha creduto di esser riuscito a dissimulare a sé stesso e agli altri la difficoltà che quella frase « non nacque calore gli presentava! Ma la goffag-pato il Barbi, in un Bullettino dedicato esclugine dell'espressione che apparentemente la frase presentava - << non nasce CALORE per dire.... non sorge letizia »; « calore» uguale

>>

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<< letizia » !!! non è valsa a metterlo sull'avviso, a fargli capire insomma che « calore > sta qui per << caròle» ossia « balli », « tripudio », per via di una di quelle metatesi che si sentono tuttavia sulla bocca del popolo toscano, anche fuori di rima, e che ben si poteva fare in rima da un poeta del trecento. Non dice il popolo ancóra < drento » per < dentro »>, < spengere » per « spegnere », << straporto » per « trasporto », « cofacce » per <focacce » « partefici » per « partecipi >> << strupo» per « stupro » e cento altre? Or così intesa quella parola non solo si toglie via una espressione mostruosa, che non è ragionevole ammettere a priori che possa mai essere esistita, ma si integra, si cava fuori la frase « non far canto né carola » per dire : << non far punto allegrezza », ch'era frase allora d'uso comune e che è nata genuinamente dall' altra, tutta toscana, « cantar carole >> cioè << far festa », nella qual ultima forma primigenia le due idee del canto e del ballo son fuse in un atto solo, così com'era nel fatto. Da questa unità inscindibile di concetto ne consegue che le sole due volte che Dante usa la voce << carole »>, < canti »>, accoppia sempre alle « carole » i e prima in Par., XXIV, 16-23: « Cosi quelle carole, differente Mente danzando.... E tre fiate intorno a Beatrice Si volse un canto ecc. », poi nello stesso Par., XXV, 98-99: « Sperent in te di sopra noi s'udí; A che risposer tutte le carole », cioè le schiere di anime danzanti; e poi, come in sintesi, Ibid, v. 109: « Misersi

sivamente all' incremento degli studî dante-
schi, e che è diretto da un altro ben noto
professore universitario, lo avesse scritto e
stampato, non già Michele Barbi, professore
di non so quale Università del Regno, ma
un professorucolo poverello di Ginnasio in-
feriore, un povero untorello della critica, che
non facesse parte di nessuna cricca o consor-
teria letteraria? Oh allora, quali alti cachinni
non si leverebbero! E che beffe finemente
atroci dall'alto delle cosí difficili colonne del
Bullettino della Società Dantesca, e degli altri
periodici cosí detti di critica letteraria! Ma
invece, trattandosi di Michele Barbi, cioè del
migliore de' discepoli di Pio Rajna, maestro
mai fallibile del metodo infallibile, si conti-
nuerà a dire che il Barbi è un Dantista illu.
stre, e, con la stessa solita buona fede si ri-

1 Di esempî in prosa non vo' citar che questi due del BOCCACCIO, Introd. al Decam: « E levate le tavole (con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani, e parte di loro ottimamente e suonare e cantare) comandò la reina che gli istrumenti venissero; e per comandamento di lei Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare. Per che la reina coll' altre donne, insieme co' due giovani, presa una carola [= preso il passo per la danza], con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono, » ecc. e in Giorn. VIII, n. 7 : « Videro lo scolare far per la neve una carola trita al suon d'un batter di denti ». E súbito dopo: << Che dirai, speranza mia dolce? Parti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe e di cornamuse » ? Ma ce n'è esempî a iosa in tutti i trecentisti, tanto la frase era comune.

H

peterà ciò che è stato detto: cioè che questo nuovo suo saggio è un eccellente, anzi prezioso contributo alla non tanto lontana edizione critica definitiva del Canzoniere di Dante, che egli, il Barbi stesso, tanto laboriosamente ci prepara; edizione critica che quando verrà fuori, per essere cosa sua, non potrà non essere meno < mirabile » dell'altra famosa della Vita Nuova di cui ci ha già gratificato e che, senza avere di suo una sola lezione originale, ma anzi moltissimi e risibilissimi spropositi, supera naturalmente tutte le precedenti ed è concordemente additata come modello del genere! Cosi è fatta ormai la critica italiana,

per ragioni che i non profani conoscono bene, ma che per ragioni di prudenza e di arrivismo essi si guardano bene di dire, e che gli altri o sanno o sospettano o indovinano. Ah se dottrina, dignità di vita e di studî e coraggio fossero stati sempre intesi cosí nel bel paese

che Appennin parte, il mar circonda e l'Alpe! Caserta, 14 Luglio 1912.

ENRICO SICARDI.

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RECENSIONI

HENRI HAUVETTE Dante. Introduction à l'étude de la Divine Comédie. Paris, Hachette, 1911 (16o, pp. XII-396).

L'Hauvette è assai noto in Italia pei suoi lavori sulla letteratura italiana; per tacer di tanti studii sparsi qua e là sulle riviste, tutti sanno che egli è autore d'una monografia compiuta e bella sull' Alamanni, e d'un felice riassunto della storia letteraria italiana. Egli accoppia alle doti di ricercatore originale quelle di felice divulgatore degli studi sulla letteratura, che egli coltiva con dottrina ed amore grandissimo, con di più quella eleganza di forma, che è propria dei critici francesi.

Tutte queste doti, diciamolo súbito, si rivelano in questo volume, col quale egli ha voluto dare un sussidio a chi imprenda in Francia a studiare il divin poema. Cosi anche la Francia possiede il suo libro su Dante, dotto, serio e coscienzioso, nel quale sono riassunti i piú sicuri risultati della critica dantesca odierna. L'Hauvette, modestamente, nella prefazione, avverte che egli non ha voluto far altro, che «< mettre entre les mains du lecteur un guide à la fois clair et bien informé, pour s'orienter au milieu de ce dédale, e pour se familiariser avec tous les savants détours du grandiose monument ».

Ma il suo proposito è stato, non solo raggiunto, ma sorpassato: perché il suo libro può servir di guida, non solamente a quelli che imprendono a studiar la Commedia, ma anche agli studiosi di Dante.

Certo, il suo libro non ha le vaste proporzioni di altri simili, che si hanno specialmente in Germania e in Italia; ma esso, pur raggiungendo la compiutezza in piccola mole, si avvantaggia sugli altri per la sveltezza, la chiarezza e la perspicuità dell' esposizione.

Per questa ragione sorge il rammarico che l'opera sia soltanto una introduzione allo studio della Divina Commedia, non già una monografia su Dante, come fa supporre il titolo, súbito corretto dal sottotitolo ; perché ora l'esame delle opere dantesche è soltanto

diretto a lumeggiar l'opera maggiore; quindi, non n' esce compiuta la sovrana figura di questo genio della letteratura italiana. Ma noi dobbiamo esaminar ciò che ci si dà, non ciò che vorremmo.

Adunque, l'Hauvette, in un Avant-propos espone i criteri, da cui si è fatto guidare nel suo studio e nella esposizione.

Divide il volume in tre parti: I. Le milieu historique; II. L'homme; III. La Divine Comédie, delle quali, naturalmente, la più ampia è la terza, perché le due prime sono in servigio di essa.

Nella prima parte, senza dilungarsi in larghi quadri dell' ambiente, in cui visse Dante, l' Hauvette opportunamente si restringe a rappresentare i fatti storici con l'occhio, con cui potette contemplarli Dante; onde non si ha la rassegna dei tempi, quali li ha ricostruiti la critica storica; ma quali se li figuravano Dante e i suoi contemporranei. Si penetra cosí súbito nel mezzo delle idee del Poeta e nel primo cap. si studia Roma, il papato e l'impero nel pensiero e nelle opere di Dante; nel cap. II, le origini di Fisenze, e lo sviluppo delle discordie civili nel sec. XIII; nel cap. III, il movimento religioso, filosofico e letterario in Italia nel sec. XIII.

Nella seconda parte, alla biografia è intrecciata l'analisi rapida delle altre opere dantesche, fuori della Divina Commedia; e vi si tratta naturalmente della cronologia di tutte le opere, a cominciar dalla Vita Nuova e finire alla Divina Commedia; e brevemente anche dell' autenticità di alcune di esse. La materia, come si vede, è scabrosa; ma l' Hauvette sa serbare la misura, attenendosi a quanto si è detto di più sicuro, se si può parlar di sicurezza in materia di questioni dantesche.

La materia, naturalmente, diventa più scabrosa nella terza parte, che tratta della Divina Commedia, in quattro capitoli: I. Caratteri generali del Poema; II. Il piano della « Divina Commedia » ; III. L'allegoria; IV. Gli elementi costitutivi della poesia dantesca. Ma anche qui l'Hauvette sa tenersi lontano dalle idee

meno accettate; e si fonda su ciò, che può dirsi accolto dal più dei critici danteschi. Se non che, negli studi intrapresi per questo volume, essendo anch'egli un dotto, l'Hauvette non ha potuto frenare l'influsso della sua opinione, nell' accogliere questa o quella risoluzione dei tanti problemi, che si presentano nella cronologia delle opere dantesche e nell' interpretazione di esse, specialmente della Vita Nuova e della Divina Commedia. Ora, se io volessi qui additare tutti i punti, nei quali mi trovo d'accordo con l' Hauvette, e quelli, nei quali non posso accordarmi con lui, essendo anch'io, disgraziatamente, uno dei mille studiosi di Dante, ne uscirebbe una recensione lunga lunga, ma poco proficua; perché non è detto che si risolva una quistione dantesca, sostituendo un'opinione ad un'altra.

Lasciando, quindi, da parte tutto ciò che è materia di discussione, io mi limiterò a fare brevi osservazioni, che dirò oggettive, su cose cioè che non cadono in dubbio, cercando cosí di mostrare all' illustre amico con quale amore ho letto e gustato il suo bel volume. Chiedo a lui perdono se mi permetto di far il pedante; ed egli mi scuserà, pensando che io lo fo col desiderio vivo di veder perfetta un'opera, che io terrò sul tavolino, per consultarla, ogni volta che prenderò ad esaminare una questione dantesca.

pp. 63. Parlando del san Francesco di Dante, si dice: « .... c'est un haut dignitaire de la cour céleste, dont le siège, inférieur seulement à celui de saint Jean-Baptiste, fait face à ceux de Marie, d'Éve, de Rachel et de Sarah (3, XXXII, 28 et suiv.) ». Qui l'espressione non è chiara, perché parrebbe che le quattro donne su nominate stessero sullo stesso grado; mentre l'Hauvette stesso (p. 276) distingue benissimo la loro posizione.

pp. 66-69. Qui si parla della dottrina aristotelica dell'anima, capitalissima, e delle sue varie interpretazioni, conchiudendo che Dante seguí la interpretazione tomistica. Ma non credo si possa ammettere nel Convivio la conoscenza della Summa theologiae (69), invece che della Summa philosophica.

pp. 69-70. Quanto all' influenza dei mistici nella Divina Commedia, non sarei cosí reciso come l' Hauvette: recenti studi hanno dimostrato l'influenza di san Bernardo; e per s. Agostino non è detta ancóra l'ultima parola.

pp. 74-75. Qui si parla della tolleranza di Dante in fatto di scienza, in che consiste la sua originalità e la novità della sua posizione di fronte ai problemi teologici e filosofici; e si aggiunge: « .... cette largeur de vue, cette insatiable curiosité d'esprit, cet amour de la science, où notre âme trouve la satisfaction suprême de ses aspirations et la plus haute forme du bonheur (Conv. I, 1), sont des traits qui détachent fortement Dante de sa génération.... ». Lasciando da parte ogni discussione sull'argomento, non mi pare che tutto ciò si possa derivare dal proemio

del Convivio citato; perché io credo di aver dimostrato che quello deriva interamente da san Tom

maso.

p. 77. Occorre qui una svista: B. Latini non tradusse la Rettorica ad Erennio, ma il De Inventione di Cicerone.

pp. 98-99. Esponendo la materia della Vita Nuova, dice che Dante compose per la prima donna della schermo « quelques poésies qui n'ont pas trouvé place dans la Vita Nuova, puisqu'elles n'etaient pas destinées à Béatrice (c. V) ».

Ora, Dante scrive: « Feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le tralascio tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei ». E infatti trascrive i due sonn. O voi, che per la via (VII) e Cavalcando l'altr'ier (IX).

Anche non pare esatto chiudere con la morte di Beatrice, 8 giugno 1290, gli avvenimenti che formano la trama della Vita Nuova.

p. 105. Pare che l'Hauvette creda il nome Beatrice un senhal di Bice: ciò che non può sostenersi, perché il vero senhal della donna di Dante è Amore. 2

p. 140. Parlando dello schiaffo di Anagni, l'Hauvette dice che Dante: « aurait vu sans déplaisir un empereur, fût-il germanique, mais légitime héritier des Césars, infliger une leçon exemplaire à Boniface VIII ». Questo concetto, non sarà mai troppo avvertirlo, è un errore, che influisce naturalmente nella spiegazione della famosa scena del Paradiso terrestre ; perché anche da parte dell'imperatore quella sarebbe stata una violenza (De Monarchia, III, 10).

pp. 166-169. In quanto al titolo del Convivio, l'origine n'è diversa; ma non è il caso ora di entrare in questa discussione; come pure non credo si sia definitivamente dimostrato che il Convivio non avrebbe avuto un corso di dottrine organizzato, se fosse stato compiuto.

pp. 173 e sgg. Qui prende a trattare del problema, arduo quanto e forse più di tutti gli altri, della cronologia del Poema.

L'H. segue fedelmente la opinione del Parodi ; ed io non posso non allietarmene, perché, tranne una lieve divergenza, contemporaneamente al Parodi m'industriai con le mie poche forze a sostener la stessa cronologia: ma non so tacere il mio rammarico che l' H. nell' interpretare i simboli della visione apocalittica del Paradiso terrestre si sia attenuto, per la fuia, alla vecchia interpretazione della potestà papale, e per il DXV, alla spiegazione che io credo la più assurda. Ma non è il caso ora di ritornare su questa

1 Cfr. E. PROTO, Il proemio del « Convivio », in Giornale storico, LV, 57 sgg.

2 Cfr. ora la Vita Nuova di Dante per cura di M. Scherillo. Milano, Hoepli, 1911. (Discussione I, Il nome di Beatrice).

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