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Nei cieli, là dove tutto si mostra a Dante con forma sensibile, egli, prima di salire all'Empireo, ha contemplato la bellezza del retto ordinamento politico, il premio riserbato ai buoni Monarchi e la volontà ferma di Dio, che dispone già il soccorso per la ricostituzione del buon governo.

In Mercurio ha già ascoltato dalla bocca di Giustiniano gli eventi dell' Impero, da Costantino fino a lui; le lodi del « sacrosanto segno > di esso, il biasimo dei Guelfi e dei Ghibellini, gli uni che lo combattono, gli altri che mal se lo appropriano; e poi le sorti varie del Lazio fino all'origine di Roma; le vicende della Monarchia coi suoi sette Re, gloriosa per vittorie; i fasti della Repubblica, i trionfi di Scipione e di Pompeo, le imprese di Cesare e quelle di Ottaviano, con cui definitivamente si costituisce l'Impero; e cosí tutto il Mondo è posto in pace (Par., VI, 1-81). Ha ascoltato come sotto il terzo Cesare la divina giustizia concesse << la gloria di far vendetta alla sua ira » (Par., VI, 90); come « poscia con Tito a far vendetta corse Della vendetta del peccato antico» (Par., VI, 92-93); come Carlo Magno raccolse sotto alle sue ali la Chiesa, quando il dente longobardo» la « morse » (Par., VI, 94-96).

Egli comprende esser tutto questo avvenuto per disposizione di Dio; il quale vigila sempre sulle sorti dell'umana società. Richiamata cosí la storia dell' Impero, il Poeta trasvola da Mercurio in Venere, da Venere al Sole, dal Sole in Marte, e poi in Giove, dove

il concetto politico-religioso dantesco, il quale grandeggia in ogni pagina del Poema e si esplica con ragionamento fine e filosofico nel trattato De Monarchia, in lunghi tratti del Convivio e in alcuni luoghi delle Epistole, è presentato con singolare limpidezza e vivacità di colori, e con tutte le attrattive della grande arte dantesca.

II.

Dante, in Giove, al pensiero che dovrà parlare dei grandi Monarchi, ha l'animo già, oltre l'usato, commosso, e ai versi 82-85 del Canto XVIII del Paradiso comincia con l'invocare la « diva Pegasea », la Musa del canto eroico, col quale si eternano città e regni. In questo pianeta le anime dei Monarchi, disposte in trentacinque lettere, formano il primo versetto del Libro della Sapienza: « Diligite iustitiam, qui iudicatis terram » (Par., VIII, 91-92). Cosí il Poeta viene a stabilire come fondamento del buon governo la giustizia; il che é pur confermato dal trovare i migliori Monarchi nel pianeta Giove, ispiratore di giustizia (Par., XIII, 115-117). Questo principio delle sacre carte, confermato frequentemente nella Divina Commedia e nelle Opere minori, è comune a Platone, a Cicerone, a Virgilio, come si può vedere anche nelle visioni unite alle loro opere politiche. 1 Della importanza di esso non è duopo discutere, ché se grande orrore avessero i governi di commettere ingiustizie, e questo sentimento si trasmettesse

1 Cfr. V. INGUAGIATO. Origine della visione dantesca.

ai rettori di tutti gl' istituti civili e religiosi, l'educazione dei popoli rifiorirebbe, e la prosperità delle nazioni non potrebbe venir meno mai assolutamente.

Poscia le anime dei buoni Monarchi si vengono ordinando nell' M della voce Terram, splendenti come oro.

Qui il pensiero è chiarissimo: là M, che compie la voce latina terram, sta lí come iniziale della parola della lingua nuova italiana Monarchia, sicché gli spiriti di quei Monarchi che si riducono tutti su quella lettera, vengono a significare la volontà di Dio, che tutta la Terra sia ordinata a Monarchia: è quello un simbolo, un'immagine sensibile del pensiero divino.

Che questa M abbia un intendimento speciale, degno di nota, è detto ne' versi:

E vidi scendere altre luci dove era il colmo dell' M, e li quetarsi

cantando credo il ben che a sé le muove. (Par.. XVIII, 97-99).

Or perché mai queste anime di buoni Monarchi si queterebbero nel colmo dell' M, formando intorno ad esso una corona, e innalzando le loro lodi al Sommo Bene? Perché cotanto festeggiata sarebbe da loro questa M? Ed ecco nella calda fantasia del Poeta trasformarsi la M coronata in un' Aquila, insegna dell'Impero, della Monarchia universale.

Basterebbe tale trasformazione a far comprendere il valore di quella M: è il passaggio dal segno vocale, che rappresenta l' ordinamento politico, all' insegna, simbolo di esso.

Dante, l'animo preso della sacra imagine, prega Iddio che voglia far sentire il suo sdegno a chi è cagione della corrotta giustizia sulla Terra, e gli spiriti perché vogliano intercedere in pro degli uomini guasti dallo sviamento generale (Par., XVIII, 124-126).

Indi là, nel sesto cielo, par ch' egli accenni alla piena uniformità di pensieri e sentimenti, che devono avere tutti coloro che presiedono al reggimento de' popoli.

Ivi l'imagine simbolica delicatissima è il portato d'un pensiero filosofico. Dic'egli :

Io vidi ed anco udii parlar lo rostro

e sonar nella voce ed Io e Mio, quand'era nel concetto Noi e Nostro. Par., XIX, 10-12).

Tutti gli spiriti, componenti l'Aquila, si uniscono in una voce, che vien fuori dal rostro, e parla al singolare, mentre quelle, ond'essa è formata, son molte, a dimostrare intensamente l'unità del pensiero; perché l'Aquila è insegna e simbolo della Monarchia universale, a capo della quale sta l'Imperatore, sicché i Monarchi non dànno nell' intendimento divino, se non tutti uniti sotto l'Imperatore, quasi propaggini di lui.

Quindi la voce suona Io e Mio, quando nel concetto è Noi e Nostro.

È il pensiero medesimo significato da Dante, a proposito dell'unità trina di Dio, ne' versi : E credo in tre persone eterne, e queste credo un'essenza, sí una e sí trina, che soffera congiunto sunt et est.

Par., XXXIV, 39-41).

Questo pensiero dell'Aquila una, formata da molteplici spiriti, vuol Dante far notare al lettore, quindi lo ripete più volte (Par., XIX, 19-21; 22-24; 94-96): e ciò forse a ricordo del concetto della Monarchia federale, della quale e' tratta distesamente nel De Monarchia.

III.

Quella voce nota, súbito dopo, le qualità onde i buoni Monarchi sono esaltati in Giove, cioè giustizia e pietà. Queste son le doti richieste nei rettori degli Stati da Omero, da Platone, da Cicerone; queste le doti, per le quali Virgilio loda moltissimo Enea. Cosí Dante nel suo disegno politico forma un tutto indivisibile dell'ordinamento politico e religioso, siccome Platone e Cicerone, siccome Omero e Virgilio. Indi l'Aquila si leva rotando e cantando, finché le anime, ond'essa è composta, si quetano in lei, ch'è l'oggetto del pensiero di Dante :

Poi si quetaro que' lucenti incendi
dello Spirito santo ancor nel segno
che fe'i Romani al mondo Reverendi.
(Par., XIX, 100-102).

Tenendo per fermo il Poeta che nella Monarchia universale sta la salvezza del genere umano, l'Aquila è per lui il segno del mondo e dei Monarchi, duci del mondo.

Torna poi l'Aquila all' Idea, che piú a lei si confà, e nel toccar del giudizio universale nota le opere malvage di molti Principi, allora viventi; che saran tutte segnate nel libro di Dio; e alle quali seguirà la giusta punizione. Conseguenza naturalissima, dopo questa rassegna, è che il mondo soffre sotto la tirannide, e che una riforma politica è necessaria. Dopo di che l'Aquila addíta fra gli spiriti che la compongono, quelli dei piú eccellenti Monarchi i quali formano il suo occhio.

.... de' fuochi, ond'io figura fommi, quelli, onde l'occhio in testa mi scintilla, di tutti i loro gradi son li sommi.

(Par., XX, 31-36).

Essi sono: David, il cantore dello Spirito santo, che traslatò l'arca a Gerusalemme; Traiano, imperatore; Ezechia, re di Giuda ; Costantino, imperatore; Guglielmo il Buono, re delle Due Sicilie; Rifeo, troiano, il giusto difensore della sua terra, lodato da Virgilio.

L'Aquila, come vedesi, parla d'un sol occhio, e poiché dice che gli spiriti, che lo formano << di tutti i loro gradi son li sommi », è verosimile ch'essa intenda dell'occhio destro, poiché, per Dante, la parte piú nobile è sempre la destra, conforme, del resto, al sentimento

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Di fatto l'Aquila, detto che David forma la pupilla:

Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor dello Spirito santo,
che l'arca traslatò di villa in villa,
(Par., X, 37-39).

soggiunge:

Colui che più al becco mi si accosta, la vedovella consolò del figlio. (Traiano). (Par., XX, 44-45).

Traiano occupa dunque la parte più bassa dell'arco acclivo piú prossimo al becco, come su, nella figura.

Continua l'Aquila :

E quel che segue in la circonferenza, di che ragiono, per l'arco superno

morte indugiò per vera penitenza. (Ezechia).

(Par., XX, 49-51).

Ezechia sta a destra di Traiano, sulla curva saliente del ciglio (vedi la figura). E poi :

L'altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion, che fe' mal frutto, per cedere al pastor si fece greco. (Costantino). (Par., XX, 55-57).

Segue dunque Costantino nella circonferenza in modo che occupi il punto supremo, poiché, dopo lui, continua l'arco declivo.

E quel che vedi nell' arco declivo Guglielmo fu, cui quella terra plora che piange Carlo e Federico vivo. (Guglielmo il Buono). (Par., XX, 61-63). Egli è posto, come vedesi, a destra di Co

stantino.

L'Aquila :

Chi crederebbe, giú nel mondo errante che Rifeo troiano in questo tondo fosse la quinta delle luci sante?

(Par., XX, 67-69).

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Rifeo sta nella parte più bassa dell' arco declivo.

Osserviamo un po': Costantino, imperatore romano, protettore della Fede, tiene il punto piú elevato del ciglio; a pie' di lui, ma nello splendore della pupilla, è David, re ebreo. A destra di Costantino è Guglielmo, re cristiano;

a sinistra Ezechia, re ebreo. Cosí, essendo l'occhio il destro, si avrebbe pure un'analogia con la disposizione degli spiriti della candida rosa, dove Maria siede nel cerchio superiore; a destra di Maria sono i beati cristiani, a sinistra i beati ebrei.

L'arco del ciglio poi è terminato da Rifeo, gentile, salvatosi per ispontanea grazia di Dio (a destra di Guglielmo) e da Traiano, gentile, salvatosi per le preghiere di san Gregorio (a sinistra di Ezechia).

Qui giova notar di volo la simmetria del pensiero dantesco, anche in questi spiriti, formanti l'occhio.

Sono sei Monarchi, tutti insigni per pietà e per giustizia; alcuni di essi tuttavia possono prendersi come tipo dei Monarchi pietosi, altri come tipo dei Monarchi giusti; ed ivi, nell'occhio, tre: Costantino, David, Ezechia, son dei primi; tre: Guglielmo, Rifeo, Traiano, dei secondi. Inoltre, dei sei Monarchi, due sono gentili Rifeo e Troiano; due, ebrei : David ed Ezechia; due, cristiani: Costantino e Guglielmo. Cosí il tre, numero perfetto, dominerebbe anche in questo sesto cielo, nella triplice imagine della Monarchia: 1a la M coronata; 2a l'Aquila, formata dai Monarchi giusti e pii; 3a l'occhio dell'Aquila medesima, formato dai più notevoli Monarchi.

L'uccel di Dio, notati codesti Monarchi, mostra il suo gradimento:

Qual lodoletta che in aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta dell' ultima dolcezza che la sazia.

(Par., XX, 73-75).

Esso, in fine, dà a Dante la ragione, per la quale poteron salvarsi Traiano e Rifeo, da' cui corpi non usciro Gentili, ma Cristiani, in ferma fede, quel de' passuri e quel de' passi piedi. (Par., XX, 105).

Dopo di che, il Poeta si leva al settimo cielo. Cosí Dante in Giove ha veduto festeggiata dai buoni Monarchi la Monarchia, nell' iniziale M coronata; ha contemplato l'Aquila, insegna dell' Impero, lieta di mostrargli nel suo occhio i migliori sovrani; e da lei ha appreso quali sono le virtú necessarie ne' rettori dei popoli, per il buon governo; i mali venuti all'umana società dal dono di Costantino al Papa, pur osservando che il mal dedutto dal suo buon operar non gli è nocivo; i mali che affliggono il genere umano; e coine sia necessaria alla salvezza di esso la riforma politica e religiosa, che lo riconduca alla Monarchia universale cristiana, secondo i puri dettami del Vangelo.

Palermo, 1912.

V. INGUAGIATO.

25

Giornale dantesco, anno XX, quad. V.

ANCORA SU DANTE E IL DIRITTO ROMANO

In una pregevole monografia il Chiaudano' ha trattato con larghezza di dottrina la questione, se Dante abbia avuta conoscenza profonda e diretta delle fonti giuridiche giustinianee, giungendo ad una conclusione negativa. Dante, secondo questo scrittore, avrebbe apprese dall'esperienza della vita, dallo studio dei trattati aristotelici e dalle opere filosofiche scolastiche delle semplici ed inorganiche cognizioni giuridiche, mentre ampie ed organiche furono le sue nozioni filosofiche sul diritto.

Nella sua esposizione il Chiaudano ha avuta occasione d'occuparsi, oltre che di altri importanti e notevolissimi lavori, d'un mio studio relativo al medesimo tema, ma che conduceva a resultati assai differenti, e, come era naturale, ha fatto oggetto di critica alcune vedute mie sul tema comune alle due indagini.'

Nell' interesse della verità storica mi sono indotto a tornare brevemente su questo argomento cosí interessante, e precisamente sopra alcuni dei passi danteschi, che hanno rapporto colle fonti del diritto.

La notevole monografia del Chiaudano, non è valsa a farmi recedere dalla mia antica opinione in proposito, cioè che Dante è stato un auto-didatta nel campo del diritto, e che ha

1 CHIAUDANO M., Dante e il Diritto Romano. Fir., Olschki, 1912, (estr. d. Giornale dantesco, a. XX, quaderno III).

2 CHIAPPELLI L. Dante in rapporto alle fonti del Diritto ed alla letteratura giuridica del suo tempo (in Arch. stor. ital, S. V. T. XLI., fasc. 1, a. 1908).

avuta conoscenza diretta delle fonti giusti nianee.

E difatti a me sembra un diminuire Dante, ritenendo che il grande pensatore fiorentino, il quale ha parole di cosí alto encomio per l'opera legislativa di Giustiniano, non sentisse il bisogno ed il dovere di conoscerla da vicino. Dante non era uomo, cui potesse sodisfare il riferire sopra cose delle quali non avesse conoscenza diretta. Del resto il diritto romano in quel tempo formava parte cosí integrante della cultura, che dovrebbe recar meraviglia piuttosto la sua ignoranza del diritto romano, che non la conoscenza, sia pure superficiale, di esso. Diritto, il quale era contenuto in copiosissimi manoscritti, facilmente accessibili, che tutti i numerosi notari, giudici e causidici dell'epoca possedevano.

Dante, vissuto in mezzo al tumultuare delle passioni politiche; priore in Firenze, ambasciatore alla Corte di Bonifazio VIII, uno dei seguaci piú ardenti d'Arrigo VIII, nemico aperto di Roberto d'Angiò, che stette nelle più note Corti principesche d'Italia, non doveva conoscere affatto quei testi, sui quali tanto si discuteva a proposito delle piú vitali questioni del tempo? Dante, il quale dedicò un trattato alla grave controversia dei rapporti fra Impero e Papato, non poteva esimersi dal conoscere le decretali ed i testi giustinianei, su cui si fondavano le esigenze dell'uno e dell'altro.

Ma lascio da parte le osservazioni d' indole generale, per fermarmi brevemente sopra

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