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tes praelium). E tal carattere si rivela anche in quelli, che son nominati da Dante. 1

Tutti i Giganti nominati da Dante, ad eccezione di Anteo, possono dirsi veramente i piú veri rappresentanti dei violenti contro Dio; ma non sono essi già dei violenti bestiali, come Capaneo; perchè, la loro violenza fu accoppiata al malo uso della ragione.

Ecco Nembrot, che grida con la fiera bocca (XXXI, 68): il fiero gigante, venator contra Dominum, come lo dice sant'Agostino (De civitate Dei, XVI, 4), l'empio, che escogita la costruzione della torre per raggiungere il cielo, per lo cui mal coto (cioè mala cogitatio), come dice Dante, pure un linguaggio nel mondo non s'usa (77-78). Egli, dunque, la violenza contro Dio la esercitò con l'uso malvagio dell' intelletto.

Ecco Efialte, il quale, insieme col fratello, tentò pur di raggiungere il cielo, sovrapponendo monte a monte: « questo superbo, dice Dante. volle essere sperto di sua potenza contro il sommo Giove »; volle sperimentare, conoscere la sua potenza, combattendo contro Giove (cioè manifestò la massima violenza. contro Dio), e lo fece, escogitando il mezzo

1 Non mi occupo del modo come Dante considerò i Giganti. Bastava a lui saper da S. Agostino (De civ. Dei, XVI, 4), che Nembrot era gigante che avea tentato di arrivare al cielo; apprender dagli autori latini, specialmente Virgilio e Ovidio, che i Giganti, figli della terra, e quindi fratelli, tentarono di arrivare al cielo, combattendo contro Giove, e in questa lotta veder nelle Georgiche (I, 278 sgg.) accumunati i fratelli Oto ed Efialte con Tifeo, e nell' Eneide (VI, 581 sgg.) dopo di quelli venir Tizio, senza indicazione del peccato; leggere nella Tebaide (II, 595 sgg.) Briareo detto semplicemente immenso armato contro il cielo, nella pugna di Flegra; e in questa finalmente Lucano (Farsaglia, IV, 593 sgg.) mostrar di riunire Tifo, Tizio e Briareo bastava tutto questo, dico, a lui per figu rarsi, per comodo della sua concezione, allo stesso modo i Giganti tutti, come arditi e pugnaci contro il sommo Giove; senza curarsi delle varianti, per esempio, di forma in Briareo e di quelle di peccato e di pena in Tizio (se è lecito arguirlo dal silenzio). E ad essi aggiunse Anteo, perché Lucano lo dicea superiore agli altri, tanto da dir fortunato il cielo ch'ei non si trovasse alla pugna famosa. E per questo egli è disciolto.

di sovrapporre monte a monte; usò quindi l'argomento della mente aggiunto al mal volere ed alla possa.

Lo stesso può dirsi degli altri Giganti feroci, che parteciparono alla guerra contro Giove. Solo Anteo non vi fu, per fortuna del cielo. Esso però è il piú fiero rappresentante dei violenti contro il prossimo, il massimo dei sanguinari, perché come narra Lucano (IV, 601 sgg.).

Haec illi spelunca domus: latuisse sub alta rupe ferunt, epulas raptos habuisse leones. Ad somnos non terga ferae praebere cubile adsuerunt, non silva torum: viresque resumit in nuda tellure iacens. Periere coloni arvorum Libyes: pereunt quos adpulit aequor.... 1

Non avrebbe fatta onorevole compagnia a quelli, che piangono nella riviera del sangue?

E quando Ercole muove a combatterlo, egli usa dell'astuzia, della quale non si era ancora servito: prima si asperge tutto della polvere della madre, poi combattendo con Ercole, appena si sente venir meno le forze, si lascia cadere a terra, perchè al contatto della madre riprenda forza e lena. E tutti sanno come Ercole lo vinse.

Anch'egli dunque alla violenza aggiunse l'astuzia, il dolo.

Nei Giganti, insomma, sono fuse insieme la malizia bestiale e l'umana: e questo ci può avviare a comprendere perché essi siano i custodi del pozzo dei traditori; il che non può dirsi chiaramente ancor definito da nessuna spiegazione di quelle escogitate finora.

* **

Per non perdermi in lunghe e minute citazioni, mi fermo all'opinione, che ha maggior diritto alla nostra attenzione, perché ha maggior fondamento. La quale è questa: che essendo i Giganti i rappresentanti della superbia, anche i traditori debbono essere peccatori di superbia; e per conseguenza e riflesso, se i traditori sono custoditi dai Giganti, anche

1 Anzi IGINO (Fabulae, XXXI) dice : « Hic cogebat hospites secum luctari, et delassatos interficiebat >>.

Giornale dantesco, anno XX, quadro VI.

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costoro peccarono di tradimento. Ma disgraziatamente, questa dimostrazione, anche nella sola prima parte, finora non è riuscita; perché urta contro numerose difficoltà, non ultima delle quali la stessa parola di Dante, che, anzi che giovarle, la ostacola gravemente.

Tale spiegazione fu tentata appunto dai primi commentatori. Scrive, per esempio, l'Ottimo: Qui Virgilio discuopre a Dante ciò che quegli sono, che gli pareano torri, e come stanno: intendendo l'Autore del peccato del tradimento, al quale non senza iniqua superbia si viene. Qui circa il suo sito, a guardia della entrata del nono circolo nelle filosofiche e poetiche scritture sono figurati a superbia: perocché siccome la superbia oltre al dovere della natura trapassa con grandissimo cuore; cosí li giganti in forma umana, oltre dovere naturale di grandezza e di forza figuranti si fanno ».

Qui si ha una doppia spiegazione: la prima riguarda la relazione fra superbia e tradimento, che si fa susseguente, se non conseguente, a quella; la seconda, riguarda il simbolo della superbia attribuito ai Giganti; e sarebbe una spiegazione acconcia, cambiando la parola natura in ragione; perché dai teologi la superbia è detta un desiderio di sorpassare la propria condizione, contro la retta ragione. Ma vedremo che deriva da un passo di san Gregorio.

Assai importante, come al solito, è la stessa spiegazione di Pietro. Il quale scrive: «Gigantes figurative pro superbis accipiuntur affectibus seu motibus: unde ait Psalmista: non salvabitur rex propter multam virtutem, et gigas non salvabitur propter multitudinem virtutis suae. Ubi dicit Glosa: gigas, idest superbus, propter terrena bona citatur, unde finguntur Gigantes filii terrae. Ex superbia enim, quae fuit primum peccatum, processit primo proditio in Lucifero, qui superbia praecedere voluit Deum. Unde istos Gigantes accipe pro motibus et affectibus humanae superbiae, qui ita magnitudine excedunt, faciendo nos procedere ad alios motus aliorum peccatorum, ut Gigantes

1 Cfr. S. TOMMASO, Summa theol., II-II, CLXII. a. 1.

alios homines. Unde Tullius in libro de senectute ait: quid enim est aliud, gigantum more bellare cum Diis, nisi naturae repugnare? quod facimus prodendo homines ».

Qui abbiamo, nettamente distinte, due spiegazioni: la prima, dell'origine del tradimento dalla superbia, la quale fu il primo peccato e produsse il primo tradimento di Lucifero; la seconda assai importante, che si appoggia a un passo ciceroniano, e quindi si presenta con l'aria di esser molto probabile, per l'autorità dello scrittore, a cui s'appoggia. Se non che essa non può accettarsi, per la ragione gravissima che per Dante, strettamente parlando, quelli che lottano contro la natura, sono i violenti, che fan forza a Dio, alla natura, sua figlia, e all'arte, figlia della natura. E se vogliamo prendere in senso più largo quel « naturae repugnare » di Cicerone, dobbiamo estenderlo a tutti i frodolenti, i quali infrangono pur lo vincol d'amor che fa natura (XI, 55,56). Ma il vero è che il concetto ciceroniano è diverso: Cicerone (De senect. II) dimostra che bisogna sopportar la vecchiezza, perché bisogna obbedire alla natura, come a Dio, e la vecchiezza è una necessità naturale in tutte le cose, quindi deve sopportarsi dal sapiente dolcemente. E dopo esce nella frase citata: la quale, perciò, non fa al nostro scopo.

Resta quindi soltanto la derivazione del tradimento dalla superbia. La quale afferma anche il Da Buti, scrivendo: « E perché furono tanto superbi, che vollono pigliare il cielo, per questo furono fulminati; per tanto l'autore finge che sieno posti, come mostrò, nel nono cerchio, ove si punisce radicalmente lo peccato della superbia. E sono posti in figura di coloro che insurgono per superbia contro a Dio, i quali sono pur figliuoli della terra, perché non sanno se non cose terrene: e pongono monte sopra monte; cioè facultà sopra facultà, per volere avere in terra lo stato celeste; ma elli sono fulminati, quando sono abbattuti dalla felicità nella miseria, e quando moiono e vanno all' inferno. Del peccato della superbia fu detto di sopra, capitolo XVI, e però niente se ne dice qui, se non quel che tocca il testo ».

La citazione deve essere errata; perchè egli, invece, tratta largamente della superbia nel capitolo IX, quando espone i peccati che son puniti nella città di Dite. E in quel punto scrive: « E perché delli altri peccati aviamo trattato di sopra, ponendo le lor diffinizioni, e le sue specie, figliuole e compagne, e li rimedi che si possono pigliare contra tal peccato; così vedremo ora della superbia e della invidia le quali si puniscono dentro alla città di Dite, nel cerchio VI, VII, VIII, e VIIII; ma prima della superbia.... ». E dopo di aver distinto la superbia in quella propriamente detta e in quella che è in ogni peccato, che consiste non nel sottomettersi a Dio, viene a chiarire il suo concetto cosí : << Ma qui in questo luogo è da notare, che l'autor finge che la superbia, presa generalmente per tutti e sette peccati mortali che vengono per malizia e bestialità, e strettamente per sé e per le sue spezie, compagne e figliuole, àe queste pene in generale, ch'ella si punisce nelli quattro cerchi più bassi nell'inferno e murati intorno, e posti dentro dalle mura del ferro.... » .

Qui è una profonda intuizione del vero; ma per ora osservo che nel passo in esame, quando dice che nel nono cerchio si punisce radicalmente il peccato di superbia, intende della superbia come peccato generale; nello stesso modo, che gli altri due commentatori precedenti, sebbene con qualche differenza, che or ora vedremo.

Passando ai moderni, a prescindere da tante varie opinioni particolari intorno ai peccati, che non si dicono puniti nello Stige, oltre l'ira; e sorpassando sulla ipotesi radicale del Todeschini e del Witte, i quali suppongono che l'invidia e la superbia, origine di tutti i peccati, non ebbero sede speciale, appunto perché punite nelle loro conseguenze sparse nell'Inferno; alcuni valorosi dantisti, dei quali cito i più recenti e importanti, cioè il D'Ovidio e il Flamini,' si sono attenuti alla ipotesi piú larga del Buti, che dentro la città di Dite

1 Cfr. F. D' OVIDIO, Studi sulla Divina Commedia, Palermo, 1901, pagg. 294-295; F. FLAMINI. I significati ecc., Livorno, 1903. (Parte I, pagg. 155-189). Cfr. anche BUSNELLI, op. cit., pag. 106.

sian puniti tutti i peccati derivanti dall' invidia e dalla superbia (a cui il Flamini aggiunge una specie particolare d' ira). Ma la loro è una semplice ipotesi, non suffragata da nessuna dimostrazione, perché serve semplicemente a giustificare la mancanza di quei peccati speciali e conciliar cosí la dottrina aristotelica, seguita da Dante, con la schietta divisione cattolica dei peccati mortali. E quanto alla superbia è chiaro che, ad ogni modo, si tratterebbe del peccato generale, origine di altri peccati, non del peccato speciale.

Un passo piú innanzi fu fatto dallo Scherillo. Il quale, partendo dalle ipotesi dell'Ottimo e del Buti fra gli antichi, del Blanc e specialmente del Minich fra i moderni, volle dimostrare che nel nono cerchio siano puniti i peccatori di superbia ed invidia.

Il suo è un ragionamento indiretto: cioè dimostra che i Giganti sono i rappresentanti della superbia e Lucifero (intorno a cui stanno i Giganti, come le schiere angeliche intorno al trono di Dio) il rappresentante originario dell'invidia e della superbia; e poiché i traditori sono fra i Giganti e Lucifero, ne trae la conseguenza che, dovendo i guardiani essere i rappresentanti del peccato o dei peccati puniti nel cerchio da loro guardato, nel nono cerchio son puniti gl' invidiosi e i superbi. E per riflesso, poiché i Giganti e Lucifero guardano i traditori, anch'essi furono dei traditori verso il massimo benefattore, che è Dio.

Ma un'ipotesi cosí bella, e cosí splendidamente lumeggiata, come dice il D'Ovidio, non giunse a persuadere i dantisti; i quali subito vi opposero delle gravi difficoltà. Infatti, risulta provato dallo studio acutissimo dello Scherillo, che i Giganti sono i rappresentanti veri e maggiori della superbia, insieme col primo superbo, che fu Lucifero: basterebbe, se non altro, il vederli insieme, come rappresentanti della superbia, nei bassorilievi del Purgatorio (XII, 25-36), e vederli chiamati superbi (Inferno, XXXI, 91), come superbo, anzi primo superbo è chiamato Lucifero (Par. XIX, 46;

1 Cfr. M. SCHERILLO, Alcuni capitoli della biografia di Dante (pag. 396 sgg.: I Giganti nella Commedia), Torino, Loescher, 1896.

XXIX, 55-56). E che Lucifero sia stato anche il primo invidioso, lo mostrano le Sacre Carte. e lo dice anche Dante (Parad. IX, 129). Ma non risulta, almeno per quanto io sappia, che anche i Giganti siano stati degl' invidiosi: ad ogni modo, si può ammettere che la loro superbia, come in Lucifero, sia loro derivata dall' invidia verso Dio.

Ammettiamo, dunque, che essi siano i rappresentanti veri e maggiori della superbia e dell'invidia: ma si osservò subito che essi restano custodi isolati di un cerchio, ove non sono superbi e invidiosi, ma solamente dei traditori.

Né vale l'affermazione reciproca che, come i custoditi son dei traditori, anche i custodi furono tali; perché di Lucifero Dante non fa un traditore, ma un violento, quando dice, che Michele fé la vendetta del superbo strupo (Inferno, VII, 11-12). Né tampoco può dirsi questo dei Giganti, i quali furono a battaglia a viso aperto contro Giove, menando le braccia a sperimentare la loro potenza.

1

Manca, dunque, appunto la dimostrazione della relazione fra la superbia dei custodi e il tradimento dei peccatori. Orbene questa dimostrazione precisa fu tentata dal Pascoli; 1 ma la sua tesi, che nel nono cerchio sia punita, nel tradimento, la superbia, a malgrado della dottrina sfoggiatavi, fu subito mostrata insostenibile.

Egli procede dubitosamente, attraverso gli intrighi e gl'inciampi della difficile dimostrazione, e salta, con illazioni ardite, i fossi che non può colmare. Infatti, egli pone a base della dimostrazione una supposizione arbitraria: che la menzione del Genesi, fatta da Virgilio pel solo peccato dell'usura (Inf. XI, 106 sgg.), debba essere estesa a spiegare anche il resto. Cosí, egli, dal peccato di superbia del primo uomo, nel quale, secondo sant'Agostino, un precetto lieve ad osservare, breve a ricordare, con tanto maggiore ingiustizia fu violato, quanto più facilmente potea custodirsi: passa ai dieci precetti imposti agli uomini ;

1 Cfr. G. PASCOLI, Minerva Oscura. Livorno, Giusti, 1898 (pagg. 27-42).

affermando, anche qui senza prove, che i primi quattro di essi, componendo tutto ciò, che è stato sostituito all'unico precetto dei nostri padri, siano anch'essi come quello lievi ad osservarsi, brevi a ricordarsi e perciò con maggior ingiustizia violati. Contro di essi, che formano una parte della giustizia (religio e pietas), egli afferma che si pecchi di superbia; per venirne ad inferire, che, perché i traditori peccarono contro quei comandamenti, peccarono di superbia.

Ora io qui non debbo rifare i ragionamenti già fatti, per dimostrar che tutto questo procede per illazioni arbitrarie e quindi è insostenibile.

Basta semplicemente avvertire, come lo stesso critico invano si sforzi di far corrispondere alla violazione dei primi quattro precetti del Decalogo le quattro specie di tradimento; e soprattutto come san Tommaso, nei luoghi stessi citati dal Pascoli, indichi appunto altri peccati, a correggere i quali son volti i primi quattro precetti.

Ma contro ogni dimostrazione siffatta si oppone niente meno che la stessa parola di Dante. È stato osservato infatti che Dante fa accusare esplicitamente di superbia Capaneo (Inf., XIV, 64), e dice di Vanni Fucci (XXV, 13-15):

Per tutti i cerchi dell' Inferno oscuri
spirto non vidi in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da'muri.

E questa, come osserva il D'Ovidio, è la superbia tipica, perché si volge contro Dio!

Adunque, come osserva acutamente e vien esplicando il D'Ovidio, Dante nella terzina su citata, afferma implicitamente che di superbi ve ne sono per tutti i cerchi oscuri dell'Inferno, sia che questa frase si prenda in senso largo, per tutto il doloroso regno, sia che meglio si prenda in senso stretto, pel basso Inferno, che corrisponde al Tartaro oscuro virgiliano.

1 Cfr. FRACCAROLI, in Giornale storico, XXXIII, 364 sgg.; PARODI. in Rassegna bibl., VIII, 23 segg., ecc. 2 Cfr. Summa theol., II-II, q. CXXII, aa. 1-5. 3 Cfr. F. D' OVIDIO, Op. cit., pagg. 293-294

Orbene, poiché i Giganti sono i veri rappresentanti della superbia, ve ne saranno anche di superbi nel nono cerchio; ma il vero è che, neanche a farlo apposta, attraversando tutto quel cerchio, Dante non si ricorda di pronunziar nemmeno per incidente la superbia, come ha fatto prima! Sarebbe, quindi, stranissimo cacciar la superbia da quei cerchi, ove Dante la richiama, per metterla proprio nel cerchio, dove non se ne ricorda!

Tutto questo, dirò col D'Ovidio, mostra la convenienza di un'ipotesi più larga, per la quale la superbia nella città di Dite sia presa come peccato generale, origine di altri peccati, non come peccato speciale.

«

* **

Per comprendere come ciò possa essere, bisogna ricorrere a un passo importante di san Tommaso.' 11 quale, discutendo « se la superbia sia peccato speciale», viene alla seguente conclusione : << Superbia, quatenus est inordinatus propriae excellentiae appetitus, speciale peccatum est: ut vero ex ea secundum rationem finis alia vitia oriuntur, peccatum generale est ». E poi la spiega cosí : * Respondeo dicendum quod peccatum superbiae dupliciter potest considerari: uno modo secundum propriam speciem, quam habet ex ratione proprii objecti, et hoc modo superbia est speciale peccatum, quia habet speciale objectum; est enim inordinatus appetitus propriae excellentiae, ut dictum est (art. praec.): alio modo potest considerari secundum redundantiam quamdam in alia peccata, et secundum hoc habet quamdam generalitatem, inquantum scilicet ex superbia oriri possunt omnia peccata, duplici ratione: uno modo per se, inquantum scilicet alia peccata ordinantur ad finem superbiae, qui est propria excellentia, ad quam potest ordinari omne id quod quis inordinate appetit; alio modo indirecte, et quasi per accidens, scilicet removendo prohibens, inquantum scilicet homo per superbiam contemnit divinam legem, per quam prohibitur a peccando, secundum illud [erem. II, 20;

1 Cfr. Summa theol., II-II, q. CLXII, a. 2.

Confregisti jugum, rupisti vincula, dixisti: Non serviam, Sciendum tamen quod ad hanc generalitatem superbiae pertinet quod omnia vitia interdum ex superbia oriri possint; non autem ad eam pertinet quod omnia vitia semper ex superbia oriantur. Quamvis enim omnia praecepta legis possit quis transgredi qualicumque peccato, ex contemptu, qui pertinet ad superbiam, non tamen semper ex contemptu aliquis praecepta divina transgreditur, sed quandoque ex ignorantia, quandoque ex infirmitate... » .

1

Questo passo tomistico, specialmente l'ultimo brano, è d'importanza grandissima. Poiché sappiamo che, secondo la teologia cattolica, esplicata nella stessa Somma tomistica, il peccato può derivar ex ignorantia, ex infirmitate, e ex certa malitia; ne consegue logicamente che, nel brano su riferito, la superbia, come peccato generale, equivale alla malizia. Infatti, da una parte, san Tommaso, discutendo della gravità dei peccati di malizia, conchiude,' che il peccatore ex malitia, scientemente peccando, vuole incorrere nell'offesa di Dio, vuole scientemente staccarsi da Dio, e non seguir la legge divina; dall'altra ci spiega' che « ex parte aversionis superbia habet maximam gravitatem: quia in aliis peccatis homo a Deo avertitur, vel propter ignorantiam, vel propter infirmitatem, sive propter desiderium cuiuscumque, alterius boni; sed superbia habet aversionem a Deo, ex hoc ipso quod non vult Deo et eius regulae subjici... Et ideo averti a Deo et eius praeceptis, quod est quasi consequens in aliis peccatis, per se ad superbiam pertinet, cuius actus est Dei contemptus... ». Quindi, è nell'atto stesso della superbia il carattere e il principio del peccato di malizia. E, finalmente, san Tommaso da una parte conchiude che il peccato ex certa malitia è più grave di quello ex passione (o ex infirmitate) e di quello ex ignorantia; dall'altra,' discutendo se la superbia sia il primo di tutti i peccati,

1 Cfr. Summa theol., I-II, qq. LXXVI-LXXVIII.

2 Cfr. Summa theol., I-II, q. LXXVIII, aa. 1-3.

3 Cfr. Summa theol., II-II, q. CLXII, a. 6. 4 Cfr. Summa theol., I-II, q. LXXVIII, a. 4. 5 Cfr. Summa theol., II-II, q. CLXII, a. 7.

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