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Sebbene le ricerche sulle fonti storiche del poema sieno state finora molto scarse', una presunzione della conoscenza di Ricobaldo in Dante 3 asserita da Benvenuto 3 ha buon fondamento, e noi l'abbiamo accolta per l'episodio di Guido da Montefeltro. Poste a fronte le descrizioni di Ricob. e del Villani, e per un accenno iniziale ai « costumi grossi e rudi », le << berrette in capo » degli uomini [ma Ricob.: le fibbie cucite al berretto], e per i particolari sulle stoffe e le vesti femminili su cui pure insiste Ricob., può sembrare che vi sia nel cronista fiorentino qualche reminiscenza dell' altro. Ma quanto illumina nuovamente l'episodio, e di cui non è accenno in Ricobaldo, è il connubio nella rude strettezza antica e dell'onestà fiduciosa: « di buona fe' e leali tra loro e al loro comune »: 6

Saria tenuta allor tal maraviglia...:

è la « fida cittadinanza » dantesca.

1 Volg., ed. cit.: « over piliçoni sença copertura... Davano piccole dotte, per che allora portavano piccoli ornamenti: le fanciulle vergini portavano pignolati o sottanelle di lino, et de quegli erano contente ».

2 RENIER, Giorn. storico, XXXVIII, p. 430; GORRA, Soggettivismo, cit., n. a p. 99, per le conoscenze storiche di Dante; CIPOLLA, Giorn. stor., XXXIII p. 152.

3 Per Obizzo da Este, Inf., XII, 110-12: « Hoc autem habuit Dantes a Ricobaldo Ferrariensi magno chronichista, qui tunc vivebat, et qui hoc scribit in chronicis suis »: « Fraude filiorum suorum in lecto strangulatur », scrive RICOB.

4 MASSERA, Il « consiglio frodolente », cit., dall' Hist. romana (1306, data Fabre),— e la notizia ap. 7. 5 Non inganni la frase : « Virorum tunc erat gloria esse in armis et equis commodos »: è sempre storia del costume si teneva alla ricchezza delle armature, come i nobili alle torri, che ne alzavano visibilmente il segno della potenza. << Il tempo e la dote Non fuggian quinci e quindi la misura»: del tempo, come s'è veduto, tratta anche il Vill., non Ricobaldo.

6 << Di sì fatto abito e di grossi costumi erano allora i Fiorentini, ma erano di buona fe' e leali tra

II.

"Parad.", XVI, 73-78.

Se tu riguardi Luni ed Urbisaglia
Come son ite, e come se ne vanno
Diretro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

Udir come le schiatte si disfanno
Non ti parrà nuova cosa nè forte,
Poscia che le cittadi termine hanno.

Il sentimento della universa caducità, che dovrebb'essere un conforto, perché almeno vi si disperda il lutto degli uomini tanto piú efimeri.

Il Cian (nella Medusa di Firenze, I, n. 6; cfr. Bullett. N. S., X, p. 262) ricordò un distico dell'Itinerarium di Rutilio Namaziano:

Non indignemur mortalia corpora solvi :
Cernimus exemplis oppida posse mori; 1

e sebbene egli non abbia voluto affermare il passaggio dal poeta decadente a Dante, si può risalire ad un' espressione più antica, che i due. lontani e diversi poeti avranno ricordato: la lettera di Servio Sulpicio a Cicerone per la morte di Tulliola. Servio ritorna dall' Asia, navigando da Egina verso Megara, ed Egina, e Megara, il Pireo, Corinto gli appariscono, dall'antica possanza, prostrate e dirute: « Hem, nos homunculi indignamur [v. RUTILIO], si quis nostrum interiit aut occisus est, quorum vita brevior esse debet: cum, uno loco, tot oppidorum cadavera projecta jaceant ». Sem

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loro e al loro Comune, e colla loro grossa vita e povertà, feciono maggiori e piú virtudiose cose, che non sono fatte a' tempi nostri con piú morbidezza e con più ricchezza ». Cfr. cap. 65 dello stesso lib. VI : « Il detto popolo di Firenze che in quegli tempi resse la città, fu molto superbo e d'alte e grandi imprese, e in molte cose fu molto trascotato [« La rabbia fiorentina che superba Fu a quel tempo..., Purg., XI, 113-14]; ma una cosa ebbono i rettori di quello, che furono molto leali e diritti a comune ».

1 Non so come il CASINI nel suo commento giudichi che « piú utilmente » si debba riavvicinare l'epistola di Lapo da Castiglionchio, richiamata dal Del Lungo, sull'« oblivione » di due antiche famiglie. Tanto varrebbe il riscontro dell'Ottimo, sulle Metamorfosi, lib. ultimo « O tempo consumatore delle cose, ed o invidiosa antichitade... ».

2 Ad fam., IV, 5: l'adduce il TOYNBEE, Dictionary cit., p. 153, ad v. Chiusi.

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Claternam, ipsam Bononiam, Mutinam, Rhegium derelinquebas, in dextera erat Brixillum, a fronte occurrebat Placentiam, veterem nobilitatem ipso adhuc nomine sonans, ad laevam Apennini inculta miseratus, et florentissimorum quondam populorum castella considerabas, atque affectus relegabas dolenti. Tot igitur semirutarum urbium cadavera, terrarumque sub eodem conspectu exposita funera non te admonent... »; e qui subentra la fede nella sorte della donna mirabile.

Dunque, Rutilio muove dal suo classico; Dante, dalla lettera del santo, dove alle città estinte dei lidi greci sono già sostituite quelle d'Italia, si ricondusse alle ruine d'altre terre, trascorse da lui. F. N.

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CHIOSE DANTESCHE

1.

Catona o Crotona? (Par. VIII, 62).

Nella lunga e oramai famosa questione, nella quale per gran tempo io sono stato, se non erro, quasi solo a difendere la lezione Crotona con sincero rammarico di non potere aderire al voto quasi unanime di tanti valorosi commentatori, ma a ciò costretto dalla mia convinzione, ho trovato qualche tempo fa un inaspettato alleato nell'illustre professore Zumbini, il quale difende, egli pure, la lezione Crotona e arreca in sostegno di essa un verso di Ovidio (Metam. XV, 59), che per indicare Crotona si serve della determinazione: << positaeque Italis in finibus urbis > (cfr. Bull. della Soc. dant. XV, p. 240).

«

Questo inatteso soccorso mi ha fatto ritornare a esaminare la questione, e in séguito ho trovato altri argomenti in favore della lezione da me difesa, i quali mi paiono meritare di essere presi in qualche considerazione degli studiosi.

Il passo arrecato dallo Zumbini non è il solo antico che determina in tal modo il sito della città di Crotona. Anche Livio non un poeta, ma lo storico, « che non erra » è dello stesso avviso, quando dice (I, 18): << In ultima Italiae ora, circa Metapontum Heracleamque et Crotona ». E osservo, che tutte e tre queste città sono poste sul medesimo tratto di costa, e fra esse Crotona incontestabilmente è quella che più si sporge in sul mare.

Dallo stesso Livio si può addurre un altro argomento di qualche importanza. Mi è stato opposto dal professore Nicola Zingarelli (Giornale dantesco, VIII, p. 394), ed è questo: che

l'aspetto odierno di Cotrone non prova niente in suo favore, non esistendo il castello di questa città nei tempi di Dante, perché innalzato soltanto due secoli dopo da Carlo V. Ma che una arce fosse esistita in Crotona, anche in tempi antichi, lo prova una descrizione che Livio ne dà con queste parole (XXIV, 3): « Sed aræ Crotonis, una parte imminens mari, altera, vergente in agrum, situ tantum naturali quondam munita, postea et muro cincta est, qua per aversas rupes ab Dionysio Siciliae tyranno per dolum fuerat capta. Eam tum arcem, satis ut videbatur tutam, Crotoniatum optimates tenebant ».

Inoltre, questo passo, se non m'inganno, conferma ciò che io ho riferito come risultato della mia visita locale (Orme, p. 277 e Giorn. St. della Lett. it., XXXI, p. 88), che cioè l'altura, che porta oggi il castello di Carlo V, è il punto predestinato per una cittadella e non poteva in nessun tempo essere spogliato di questo valore topografico concessogli dalla natura, se anche nel medio evo le mura della arce fossero alquanto scadute.

Posso ora agginngere ancóra un argomento tolto dagli scrittori medioevali. Si è sempre e a sazietà ripetuto, in favore della lezione Catona, che nei tempi angiovini e delle imprese volte a riconquistare la Sicilia, l'importanza di Catona avesse vinto di molto quella di Crotona. Ma quand' anche le esigenze di una guerra costringano a scegliere un certo punto come base di operazioni per uno scopo prescritto dalle circostanze, egli è una questione ben diversa, se questa località sia veramente qualificata dalla natura a servire a tale scopo. E appunto sotto questo rispetto lo svolgimento della grande spedizione, fatta da Carlo I con

tro la Sicilia nel 1284, illustra d'un modo efficacissimo le condizioni locali delle due città, che si contendono l'onore di essere nominate nella Divina Commedia. Il re Carlo aveva fatto apparecchiare contro la Sicilia due armate, una a Napoli e una nella Puglia, e con quest'ultima il Re si partí da Brindisi, racconta il Villani (VII, 94) ‹ e accozzossi coll'armata di Principato a Cotrone in Calavria, e furono centodieci tra galee e uscieri armati, e con cavalieri, con molti altri legni grossi e sottili di carico ». Il fatto, che Carlo tra tutti i porti di quella costa scelse appunto Crotona, mi pare che provi primieramente che Crotona sia

stata considerata come vertice tra il littorale orientale e l'occidentale della penisola e perciò come punto predestinato di riunione per le due armate provenienti dall'uno e dall'altro mare, e che provi poi, anche, che la natura del luogo di questa città sia adatta alle esi genze di un naviglio assai numeroso.

Dopo la riunione fatta, il Re conduce l'armata e l'esercito di terra allo Stretto e prende posto dirimpetto a Messina sul littorale di Catona. Ora da tutto lo svolgimento che segue, apparisce chiaro, che in questo luogo le forze navali come quelle di terra stavano al l'aperto senza nessun riparo. Bartholomaeus de Neocastro (Historia Sicula, cp. 78, Murat., R. I. S. S., XIII, p. 1089), dopo avere narrato il contegno gagliardo mostrato da Ruggiero di Loria e dai Messinesi per respingere i Francesi, continua cosí : « Et ecce jam aliqua vassella de remis subtilia versus galêas hostium procedebant; et dum pervenissent ad prope proras earum, sagittabant in eas, et provocabant, ut exirent ad bellum; tentabant enim, si posset, eas vel earum aliquas de litore Catonae in portum extrahere, ut deceptac possint intercipi a galêis exstolii Phariorum ». Dunque l'armata francese stava semplicemente lungo il littorale di Catona, esposta al badaluccare dei Messinesi, senza trovare, in questo luogo, fortificazioni o moli di alcuna specie per schermirsi. E ciò viene confermato da quello che segue. Il Cronista descrive (cp. 79), come una grande tempesta colse i Francesi: < Iam classes solvuntur a littore, tumultuosus rumor et clamor surgit in nautas, in pontum se trahunt cum aequore potius pugnaturi, quam litus tenentibus vasa depereant et personae.... Verentur, ne ipsos flumina Phari,

marisque rabies projiciant ad manus et litora Phariorum ». E il re Carlo si lamenta poi (cap. 81): « Adhuc patimur labores et pluvias, quos et quas nocte una et una die substinuimus in mari, et in terra, omnia confusa habemus, panem, et arma, et reliqua ». L'abbandonata situazione, priva di qualsivoglia riparo, non può essere confessata piú franca

mente.

Anche un altro passo del Neocastro, (cap. 55 e 56), al quale il professore Torraca nel suo commento (p. 710) allude, menzionando in difesa della lezione Catona la strage degli Almogaveri, parla piuttosto contro Catona. È ben vero, che Carlo vi mette un presidio di duemila cavalieri; ma se gli esploratori messinesi costatarono, « quod erant de facili deperdendi, si de nocte percuterentur », e se poi in una notte di novembre la sorpresa tentata da cinque mila « Almugabarorum » riuscí con pieno successo, ciò prova, mi pare, che di fatto la città di Catona non era fornita di queste forti torri e mura, che i suoi difensori letterarii sogliono vedergli d'intorno.

Tutti questi documenti dunque confermano, se non m'inganno, ciò che si può vedere sul luogo ancóra oggidí, che cioè il littorale di Catona è una spiaggia del tutto aperta e non punto adatta a rappresentare il concetto dell'imborgarsi, che invece tanto chiaro risalta a Bari, a Gaeta e a Crotona.

II.

Suppe (Purg., XXXIII, 36).

Mi sia permesso di aggiungere qualche indicazione intorno ad un altro passo controverso della Divina Commedia, per il quale sono pervenuto a trovare parimente un sostegno importante in uno scrittore antico. Voglio parlare del verso

Che vendetta di Dio non teme suppe, pel quale ho difesa l'interpretazione tanto bistrattata, che, cioè, la vendetta di Dio non sarà trattenuta per una ostia avvelenata da mandare ad effetto la sua sentenza. Non intendo di entrare oggi in materia. Gli argomenti della mia opinione sono esposti nell'appendice della mia traduzione del Purgatorio, pp. 350 e sgg. Vorrei soltanto richiamare l'attenzione sopra un passo, che frattanto mi venne fatto di tro

vare in Orazio e che mi pare atto a servire di rincalzo per l' interpretazione sostenuta da me.

Negli Epodi, V, 87, cioè si legge:

Venena magnum fas nefasque non valent convertere humanam ut vicem,

come mi pare doversi leggere secondo una nuova emendazione del testo alquanto corrotto, proposta dal prof. K. Staedler (Horaz, erklaert, Berlin, 1905, p. 34), che spiega: «I veleni non hanno la forza di sconvolgere l'eterno diritto e torto come le pene temporali ». Lasciando invece il testo senza questa emendazione, se ne ricava il senso, che gli dà il vecchio Dacier (Oevres d'Horace, Londres, 1733, II, p. 321): « Les poisons peuvent con

fondre la justice et l'injustice, changer le bien en mal et le mal en bien; mais ils ne sauroient changer l'effroyable punition que les dieux préparent aux méchans ». Ma scegliendo o l'una o l'altra spiegazione, non si potrà negare che il concetto espresso qui da Orazio è identico a quello della mia interpretazione del famoso verso dantesco, e coloro che danno una importanza speciale a simili raffronti classici non potranno far a meno di concedere, che con questo raffronto la mia opinione viene a ricevere un considerevole conforto di probabilità.

Schwetzingen, febbraio 1912.

A. BASSERMANN.

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