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metta di affermare che Dante fu a Bologna intorno al 1287, come vuole il Ricci. Né la cronologia stessa delle opere dantesche potrebbe giovarci. Il De vulgari Eloquentia fu scritto, a testimonianza dello stesso autore, non prima del 1308.' L' Inferno non fu ultimato, secondo il D' Ovidio, prima del 1314 e, anche accettando l'opinione del Parodi, non ci porterebbe piú indietro del 1308. Tutti gli accenni, che si trovano nelle opere di Dante a Bologna ed ai bolognesi, non servono in alcun modo per poter stabilire quando Dante fu in quella città. Di contrario avviso si mostra il Ricci. Egli, pur ammettendo che i passi dell' Inferno provano poco o nulla perché quella Cantica fu finita intorno al 1308, vor rebbe dall' agnizione fatta da Dante di Vene. dico Caccianimici trarre un argomento favorevole alla sua tesi. Le ragioni di questo, ch'egli afferma, sono abbastanza semplici. Egli nota che Dante spontaneamente riconosce Venedico Caccianimici, malgrado che costui tenti di nascondersi ai suoi sguardi.

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D'altra parte egli rileva come di Venedico Caccianimici, dopo che fu esiliato il 14 agosto 1289 da Bologna, piú non si hanno notizie, onde pare morisse poco tempo dopo. Quindi conclude il Ricci se Dante riconosce Venedico, questo avviene perché anteriormente al 1289 l'aveva realmente conosciuto a Bologna durante il suo soggiorno in quella città. Ma questo ragionamento, che in apparenza sembra tanto persuasivo, esaminato un po' bene, perde ogni valore. Anzitutto non è certo che Venedico morisse súbito dopo il 1289: che sia morto intorno a quell'anno è semplice ipotesi del Gozzadini, per il fatto che dopo quella data non si hanno piú sue notizie. Ma è questo per sé sufficiente a ritenerlo come morto in quel torno d'anni? Che cosa noi sapremmo di Dante dopo il suo esi

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lio, se non fosse stato quel grande ch'egli fu? E quanto poco ugualmente noi sappiamo! Il silenzio dei documenti non comprova per nulla che Venedico sia morto molto presto: può darsi benissimo ch' egli sia vissuto ancor tanto che Dante l'abbia potuto conoscere durante l'esilio.

Ma c'è di più. Con quali dati di fatto il Ricci afferma che necessariamente perché il Poeta riconosce nella sua creazione poetica il Caccianemici, cosí egli deve averlo conosciuto in vita? Nulla nella Divina Commedia comprova che Dante abbia seguíto, come criterio delle sue agnizioni, la realtà. Molto è piú verosimile che abbia imaginato gli episodi del suo poema e quindi or conosca ed ora ignori, seguendo l'ispirazione del suo genio. Tanto più che nel caso di Venedico, prendendo alla lettera tutto l'episodio, Dante verrebbe a riconoscere sí il dannato peccatore, ma ignorerebbe la sua colpa: il che manifestamente non era. Infine, anche prendendo sul serio l'agnizione di Venedico, chi potrebbe contraddirci, se affermassimo che Dante avevalo conosciuto fuori di Bologna, anche prima del 1289?

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2. Il secondo argomento che il Ricci1 adduce in favore della sua tesi è un sonetto d'amore, in cui si accenna alla Garisenda, che in piú codici, nel Chigiano pubblicato dal Monaci, nel 1442 della Biblioteca Universitaria di Bologna, e in altri, tutti posteriori alla seconda metà del sec. XIV, viene attribuito all'Alighieri. Il sonetto che comincia colle parole: No mi poriano già mai fare emenda, non è certamente un bel lavoro: è oscuro, contorto, e nello stile assai lontano dalle bellezze della Vita Nova. Esso si trova, senza nome di autore, per la prima volta in un memoriale di Enrichetto dalle Querce, poeta e notaro bolognese della fine del sec. XIII. Il Ricci, movendo dal fatto che il memoriale in cui si conserva il sonetto è del 1287, e ancóra che questo sonetto, quantunque non venga attribuito ad alcuno, si trova posteriormente riferito come opera di Dante, ne conclude che il

1 Op. cit., p. 319 e sgg.

Il Canzoniere chigiano in Propugnatore, XI, parte II, p. 337.

3 Vedine la lista completa in Ricci, op. cit., p. 319.

Giornale dantesco, anno XX, quad. II.

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sonetto fu da lui composto e, per l'accenno alla Garisenda, certamente a Bologna o in quell' anno o poco prima.

Ma è questo un ragionamento accettabile? A noi sembra di no. Il trovarsi senza nome di autore nel memoriale di un notaro che fu poeta, è una presunzione quasi certa che il sonetto sia opera di questo e non di Dante come vuole il Ricci. Secondariamente l'attribuzione all'Alighieri è soltanto di codici relativamente tardi e, come si può vedere, non di tutti. In queste condizioni ci sembra molto azzardata l'affermazione recisa del Ricci. Tanto più che il Carducci, profondo conoscitore della lirica dantesca, non si azzarda ad attribuirlo al nostro poeta, e tutte le edizioni che finora furon fatte delle rime extravanganti dell'Alighieri non riproducono il sonetto in questione. A noi pare per ciò, che, quantunque su questo punto non si possa dire nulla di preciso, perché, come osserva bene il Kraus, manca un' edizione critica delle minori poesie dantesche, in questo caso, l'autorità del Carducci e i fatti contrastanti all'autenticità del sonetto, che abbiamo rilevati, non ci permettano d'attribuirlo all'Alighieri.

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Un altro argomento trae il Ricci in favore della sua tesi dalle notizie riferite dal Villani, dal Boccaccio e da Benvenuto da Imola. Il primo registrò nella rubrica dantesca delle sue Storie, che il Poeta con la parte bianca fu scacciato et sbandito di Firenze e andossene allo Studio a Bologna et poi a Parigi et in più parti del mondo. Su questo passo non è possibile controversia: esplicitamente qui si parla di un soggiorno a Bologna dopo l'esilio, il quale se non contraddice all'ipotesi del Ricci, certo però neppure la conferma. Piú importanti sono le notizie del Boccaccio. Scrive questi nella sua Vita di Dante: Egli li primi inizi prese... nella propria patria e di quella, siccome a luogo piú fertile di tale cibo, n'andò a Bologna e già vicino alla sua vecchiezza n' andò a Parigi » .5

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E poco piú innanzi : Egli, oltre al suo stimare, parecchi anni tornato da Verona (dove nel primo fuggire a Messer Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col marchese Moruello Malespina in Lunigiana, quando con quelli della Faggiuola ne' monti vicino a Urbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e secondo la lor possibilità, onorato si stette. Quindi poi se n'andò a Bologna, dove poco stato, n'andò a Padova e quindi da capo si tornò a Verona. Ma circa l'interpretazione ed il valore di queste testimonianze v'è tra gli studiosi non poca divergenza. Il Todeschini afferma che i passi del Boccaccio non lasciano intendere se Dante udí i lettori di Bologna o prima o dopo l'esilio; il Bartoli crede che non vi si accenni che ad un unico viaggio, e questo indubbiamente tra il 1304 e il 1306; il Ricci * sostiene contro i due precedenti che veramente si parla di due viaggi distinti, uno della prima giovinezza, quando Dante non aveva più di ventidue anni, e un altro durante l'esilio. Ora a noi sembra che i testi riferiti non siano cosí sibillini da giustificare una controversia sulla loro interpretazione. Non è vero che il Boccaccio non lasci intendere se Dante fu a Bologna o prima o dopo l'esilio, e neppure è giusto, come vuole il Ricci, ch' egli intenda parlare di due viaggi distinti, uno nell'adolescenza, l'altro durante l'esilio.

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L'ordine dei pensieri è nei due passi del tutto analogo: soltanto nel primo, trattandosi degli studi di Dante, si ricordano unicamente le città da lui visitate per questo scopo; nel secondo, ove in generale si parla delle peregrinazioni dell' esilio, si viene di necessità fra l'altro ad accennare anche al soggiorno in Bologna. Quindi la notizia del Boccaccio s'accorda pienamente con quella del Villani ed accenna soltanto ad un viaggio a Bologna durante l'esilio.

L'autore invece, che esplicitamente afferma

1 Gozzadini, op. cit., p. 278.

2 Op. cit., p. 235.

3 Op. cit., p. 305.

4 In MURATORI, Rer. Ital. SS., Mediol. 1728 (lib. IX,

c. 134), Vol. XIV col. 508.

5 Cfr. La Vita di Dante scritta da Giovanni Boc

caccio. Testo critico con introduzione, note e appendice

di Francesco Macri-Leone. Firenze, 1888 (in Raccolta di opere inedite o rare in ogni secolo della letteratura italiana), p. 12.

1 Cfr. op. cit., p. 28 e sgg.

2 Op. cit., vol. I, p. 272 e sgg.

3 Op. cit., p. 307 e sgg.

4 Op. cit., p. 273.

che Dante fu a Bologna in età giovanile a scopo di studio, è Benvenuto da Imola nei suoi commentari alla Divina Commedia. I passi che ci riguardano sono i seguenti:

a) Vel dictus est Dantes quasi dans Theu, idest Dei et divinorum notitiam. Nam quum auctor iste in viridiori aetate vacasset philosophiae naturali et morali in Florentia, Bononia et Padua, in matura aetate jam exul dedit se sacrae theologiae Parisiis;1

B) (Bononienses) faciunt turpia lucra aliquando cum ludis, aliquando cum furtis, aliquando cum lenociniis exponendo filias, sorores et uxores libidini, ut satisfaciant gulae et voluptatibus suis. Et ideo dicit :

E se di ciò vuoi fede o testimonio,

quasi dicat: non oportet quod quaeras aliam probationem, quia experientia fecit tibi fidem et testimonium de hoc. Et Veneticus dicit hoc pro tanto quia Dantes fuerat Bononiae in Studio ad tempus et ista omnia viderat et notaverat. Et forte emerat ibi aliquid de tali merce ab aliquo bononiensi sicut saepe scholares faciunt. Vult ergo dicere Veneticus: Tu debes bene scire ista tamquam expertus.

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Y) Et heic nota quod comparatio bene facit ad factum. Quia sicut Garisenda curvata videtur cadere super respicientem et tamen non cadit; ita Antheus velut alta Turris curvatus videbatur nunc cadere super Dantem respicientem eum et tamen non cadebat. Nota etiam quod comparatio erat magis propria quia auctor haec scripsit, quia ista turris curvata erat tunc multo altior quam modo sit. Nam pars magna eius dirupta fuit per Johannem de Olegio de Vicecomitibus de Mediolano, qui gigas magnus et ferox crudelem tirannidem exercuit ibi. Nota etiam quod Auctor notaverat istum actum, quum esset iuvenis Bononiae in Studio.

Ma ne deriva da questi passi l'opinione del Ricci.?

È facile riconoscere che la risposta deve essere negativa.

Benvenuto infatti afferma bensí che Dante fu a Bologna in età giovanile a scopo di

Excerpta historia ex commentariis Benvenuti de Imola, in MURATORI Ant., t. I, col. 1036, proem.

2 Op. cit., col. 1073, ad. c. XVIII, v. 61 e sgg. 3 Op. cit., col. 1135.

studio, però non a studiarvi diritto ma filosofia naturale e morale! Né si potrebbe sostenere, che pur mancando di fondamento lo scopo attribuito da Benvenuto al soggiorno giovanile di Dante a Bologna, ciò non di meno di questo non si può assolutamente dubitare, essendo inverosimile che un autore al par di lui, ammannisse ai lettori tali incredibili panzane. Vero è che neppure in questa forma l'opinione del Ricci potrebbe sostenersi. Non va dimenticato che questi non è certo dei più antichi commentatori dell'Alighieri, ma il suo lavoro è relativamente troppo tardo, perché egli, nato nel 1336 e postosi all'opera dopo il 1373 (mezzo secolo dalla morte dell'Alighieri e in un'epoca lontanissima dal 1287), possa aver raccolto in Bologna una voce popolare da fonte attendibilissima, come suppone appunto il Ricci. D'altra parte il silenzio dei più antichi biografi e commentatori su questo fatto; di ser Graziolo, di Jacopo della Lana, del Villani e del Boccaccio ci fa pensare che la notizia di Benvenuto non sia altro che una notizia senz'ombra di fondamento. E questo è tanto più verosimile in quanto che non è Benvenuto quello scrittore fin qui creduto: ma i suoi commenti, come osserva in un recente studio Pasquale Barbaro, sono ben mediocri e talvolta addirittura meschini. Infatti egli raccoglie una quantità di notizie, manifestamente fantastiche e leggendarie come l'interpretazione del nome di Dante, già riferita, la descrizione della fisionomia del Poeta dimostrata coll' episodio di quelle donne che lo dicon venuto dall' Inferno pel colore della sua barba, il ritrovamento dei primi sette Canti dell' Inferno, l'episodio dei figli di Giotto e, all' infuori della biografia dantesca, la notizia che Accursio abbia composto la sua Glossa prevenendo Odofredo

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1 Op. cit., pag. 308.

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2 L. ROCCA, Di alcuni commenti della « Divina Commedia ». Firenze, 1891, p. 71.

3 L. ROCCA, op. cit., p. 334 e sgg.

▲ Il commento latino della « D. C. » di Benvenuto da Imola e la « Cronica » di Giovanni Villani, in Giorn. dant., a. XVII, qu. 3-4, p. 65.

5 Op. cit., col. 1036 (ad Cant. II, Inf., v. 8).

6 Op. cit., col. 1042 (ad Cant. VIII, Inf., v. 1).

7 Op. cit., col. 1185 (ad Cant. XI, v. 94).

con una malattia imaginaria. In genere possiamo dire che Benvenuto non fa che riprodurre quanto sulla vita di Dante ha scritto il Boccaccio, e quello che sembrerebbe il frutto di sue indagini particolari non è, come chiaramente s'intende dal suo contenuto, che mera invenzione, la quale sostituisce nei tardi biografi la mancanza di nuovi particolari sulla vita e sulle opere di un autore. Nel caso nostro poi il nessun fondamento della notizia di un soggiorno giovanile di Dante a Bologna sta nel Commento stesso, ove Benvenuto, dimentico di quanto già aveva scritto, afferma che Dante usque ad trigesimum quintum annum steterat in patria. Quando infine si pongano tutte queste circostanze in confronto colle dichiarazioni del Convito circa gli studi danteschi (che certo non vengono scosse dalle osservazioni del Ricci); tosto piú chiaro apparirà che in base agli elementi di fatto, che noi abbiamo della vita e delle opere dell'Alighieri, non solo non esiste alcuna prova in favore della notizia di Benvenuto, ma, anzi, abbiamo tutte le ragioni per escluderla, come fantastica ed inverosimile. Ci pare quindi molto più giusto e piú sereno ritenere che Dante non fu a Bologna nell' età giovanile a studiarvi diritto.

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CAPITOLO TERZO.

Altri indizi.

1. Cino e Lapo. ? 2. Dante e i giuristi. § 3. La sua fama di giurista. I. Dopo quanto siam venuti dicendo, sarebbe quasi inutile ogni ulteriore ricerca sulle fonti biografiche del Poeta; ma a lumeggiare sempre meglio il risultato delle nostre indagini, non vogliamo passar sotto silenzio alcune affermazioni, che, pur essendo indice evidente della leggerezza colla quale altri ha trattato il presente argomento, tuttavia potrebbero esserci opposte, e forse incontrerebbero il favore di qualche lettore. Il Wil

Op. cit., col. 1063 (ad Cant. XV, v. 110). Cfr. SAVIGNY, op. cit., vol. V, p. 275 e sgg.: « Dieses Mährchen bedarf wohl keiner ernsthaften Widerlegung ».

2 Op. cit., col. 1091 (ad Cant. XXII, v. 94).
3 II, 13 (ed. Moore, p. 274).

4 Op. cit., p. 316.

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liams, il Chiappelli, il Grassi, lasciano intendere che l'amicizia di Cino da Pistoia abbia influito sulla coltura giuridica di Dante. Ma siffatta supposizione travisa il carattere di questa amicizia. Nel De vulgari Eloquentia Dante ricorda più volte Cino da Pistoia e, accennando a sé stesso, dopo aver parlato di lui, si chiama amicus eius; ma questo accenno a Cino come a suo amico, l'epistola che gli indirizza, il ricordarne unicamente l'opera poetica, quanto scrive nei sonetti a lui diretti, dimostrano a sufficienza che la ragione di questa amicizia sta piuttosto nel comune culto delle Muse e dell'amore. Anzi è stato notato che la poesia di Cino si avvicina assai a quella di Dante, il che sempre più confermerebbe la nostra opinione. Né diversa doveva esser l'amicizia con Lapo Gianni, notaro, il Lapo ch' egli tratta fraternamente col tu e che vorrebbe eterno compagno dei suoi sogni di amore. Lapo, Cino, gli amici che Dante ricorda con piú vivo affetto nelle sue opere, sono poeti è quindi verosimile che l'amore per le Muse e l'arte sorella realizzassero fra di essi la massima del Convito che dovunque amistà si vede, similitudine s'intende.

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2. Dante, in piú luoghi delle sue opere, accenna poco benignamente al diritto e, in genere, ai suoi cultori. Cosí nel Canto IX del Paradiso (v. 133 e sgg.), egli nota che

l'Evangelio e i dottor Magni

son derelitti e solo ai Decretali

si studia si che pare ai lor vivagni.

Op. cit., p. 2.

2 Op. cit., p. 43.

3 Op. cit. p. 491.

I, 10, 13, 17; II, 22, 5, 6.

5 Questo anche in altra parte del suo lavoro làscia intendere il Chiappelli (pag. 40), quando dice che, per Dante, Cino legista è dimenticato di fronte a Cino poeta.

6 KRAUS, op. cit. p. 139.

7 Che per altro questo non fosse alieno dall' indole di Cino assai bene ce lo fa intendere il Savigny (op. cit., VI vol. p. 95): es erschienen zwei geistige Naturen in derselben Person unvermischt neben einander, deren jede ihr besonderes Leben für sich führt und diese getrennte Wirtschaft erstreckt sich selbst bis in Gesinnung und Lebensansicht hinein.

8 Cfr. il sonetto: Guido vorrei che tu e Lapo ed io (ed. Moore p. 173).

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senza curarsi della vera felicità. Nel Convito,* dicendo che non si deve chiamar filosofo colui ch'è amico di sapienza per utilità, accenna súbito ai legisti che non per sapere studiano, ma per acquistare moneta e dignità. Ancóra nello stesso libro dice a messer lo legista (l'ironia di questo epiteto è palese) che non deve vendere quelli consigli che non hanno rispetto alla sua arte e che procedono solo da quel buon senso che Iddio gli diede. Nel De Monarchia infine accusa i giuristi di presumer troppo e li consiglia di non occuparsi di certe questioni, secundum sensum legis consilium et iudicium exhibere contenti.

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Or questi accenni al diritto ed ai giuristi che certamente hanno la loro importanza nel determinare il grado e il modo della cultura giuridica dantesca sono stati, secondo gli scrittori, interpretati assai diversamente. Cosi l'Arias afferma che Dante non doveva aver troppa conoscenza del diritto s' egli osava un tal giudizio della scienza giuridica del suo tempo. Il Chiappelli sostiene che a Dante doveva essere famigliare la scienza del diritto,

1 Ed. Moore p. 412.

2 XI, 4.

3 Par., XII, 82 e sgg.

III, 11, (p. 287, ed. Moore).

5 Ad essi certamente va riferito l'accenno del De Monarchia, I, 1 (ed. Moore p. 34); temporalis Monarchiae notitia.... propter non se habere immediate ad lucrum ab omnibus intentata. Cfr. anche Chiappelli, op. cit., p. 40, n. 1.

6 IV, 27 (ed. Moore, p. 373).

7 II, 11 (ed. Moore, p. 361).

8 Op. cit., p. 26.

9 Op. cit., p. 39.

se conobbe e criticò i difetti principali di quella contemporanea. Infine il Cavalieri1 trova che in questi rimproveri, rivolti ai giuristi, abbiamo l'espressione di quelle immeritate accuse di cui sul cader del Medioevo, per diversa ragione, ma con ugual accanimento, furono oggetto, da parte dei teologi e dei letterati, i cultori della scienza del diritto.

Non ci stupiamo di tale contrasto di opinioni su di un punto in apparenza tanto semplice esso dipende dall' aver voluto considerare alla stessa stregua tutti i passi piú sopra indicati, mentre di fatto differiscono profondamente. Anzitutto i passi del Paradiso, come quelli dell' Epistola VIII, se considerati a parte possono sembrare delle vere e proprie critiche all'indirizzo della giurisprudenza del suo tempo, giudicati nel contesto pèrdono senz'altro questo significato. Infatti tanto l'accenno allo studio dei canonisti, quanto l'altro della ingiustificata venerazione delle Decretali, non sono, come sembra intendere il Chiappelli, delle critiche ai decretalisti suoi contemporanei; ma delle fiere rampogne agli ecclesiastici, che per amore di grassi benefizi, avevano abbandonato lo studio della filosofia e della teologia per dedicarsi al diritto canonico. Dante, che considera il diritto come qualcosa di terreno, ove ben poco vi è di spirituale,' e, per contrario, ritiene la filosofia forza e vita dell'anima,3 non poteva certamente veder di buon occhio, che i pastori della Chiesa avessero abbandonato l'Evangelio e i dottor magni, per dedicarsi allo studio di una materia, che nel suo concetto aveva soltanto uno scopo del tutto mondano, alieno dallo spirito di Cristo.

Né meno ha significato giuridico l'appunto che muove Dante nel Convivio direttamente ai giuristi, di correr dietro a moneta e dignità, di vender contro giustizia i loro pareri. Ad esser giusti, neppur qui possiamo dire si abbia l'indizio d'una coltura giuridica. È facile intendere, dal modo stesso con cui le accuse son formulate, e piú ancóra dall'associarvi i religiosi ed i medici, ch' esse rientrano nel

1 Di alcuni fondamentali concetti politici contenuti nella Glossa di Accursio, in Archivio giuridico serie III, vol. XIII, fasc. I, p. 145.

2 Cfr. Par., XI, 4.

3 Cfr. Par., XII, 97 e sgg.

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