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il P. Cornoldi; lo avevo notato per insinuare che ad essi, meno che a commentatori laici, era perdonabile usar la parola Dio, là dove Dante, sempre preciso, aveva designato lo Spirito Santo. E questa sarebbe, secondo il Busnelli, la strana via che io tengo, per arrivare all' interpetrazione dei versi 34-36 del Canto IV del Paradiso! interpetrazione, che, solo scherzando,' avevo detto una conquista; ma alla quale non rinunzio certo, per quello che m'obietta il Busnelli, che la quistione non è << se i beati abbiano avuto un qualunque maggiore o minor dono dello Spirito Santo, ma se questo maggiore o minor dono sia proprio uno dei sette doni dello Spirito Santo ». Ma insomma, è o non è una completa enumerazione dei doni dello Spirito Santo quella dei sette doni, che i teologi insegnano? Se è ed è certamente ; e se la parte filologica della mia interpetrazione non è contestabile, tanto che lo stesso Busnelli scrive concedo totum, et nego consequentiam; incontestabile è l' interpetrazione da me data per i vv. 34-36 del Canto IV del Paradiso; e quindi incrollabile la base della mia struttura morale del Paradiso delle sfere. Ma son doni dello Spirito Santo anche la carità e la grazia santificante! Benissimo; ma il Busnelli stesso riconosce che questi sono i doni fondamentali: come tali, adunque, son presupposti nei sette doni. « Il principium distinctivum mansionum sive graduum beatitudinis è sempre la carità », aggiunge il Busnelli. Benissimo, anche qui; ma l'ho negato io forse? << Che un' anima salga tanto piú presso a Dio, quanto più sulla terra fu accesa di carità, è innegabile; ma questo criterio della carità non poté essere scelto da Dante come criterio pratico, per la struttura morale del suo Paradiso, perché, come esplicitamente riconosce il Ronzoni stesso, misurare la carità d'un'anima è impresa, non difficile soltanto, ma impossibile »: questo io scrissi alla p. 244 dei miei Studii su Dante; e alla p. 261: il criterio della carità << è implicito in quello dei doni; poiché, senza la carità, i doni non sono possibili: sicché l'uno è il criterio, dirò cosí, di massima; ma il criterio pratico è l'altro, cioè quello dei doni ».

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Di quanto scrissi sui doni dello Spirito Santo in relazione alle prime otto sfere, alle tre gerarchie e agli ordini di seggi della candida rosa, il Busnelli se ne sbriga dicendo, che, se anche qualche conclusione lo persuade, non lo persuadono gli argomenti. E passa a esaminare la mia seconda base teologica del Paradiso dantesco. Della quale accetta il principio, che per i tre cieli s'intendano le tre forme di visione del mondo superiore, la corporale, l' immaginaria e l'intellettuale; ma di questo principio non accetta in tutto l'applicazione ch' io ne fo; sembrandogli che la visione immaginaria non si compia, come a me era parso e pare tuttora, nel Primo Mobile: se qui, obietta il Busnelli, « a differenza di quel che vede nei cieli inferiori, il poeta, invece di luci animate, incontrasse puri simboli immaginarii, senza realtà sottostante, si avrebbe una stonatura nella concezione del Paradiso. Mentre tutte le anime beate apparirebbero realmente sotto il velo della luce, solo gli angeli, che pur nella spiritualità convengono con l'anime beate, non si farebbero vedere fasciati di gloria, ma in loro vece si sostituirebbero delle imagini e dei simboli infusi nella mente e nella fantasia del Poeta. Ma di grazia, forseché è un puro simbolo l'amore angelico che sotto forma di facella scende nell'ottava sfera a coronare la Vergine, o non piuttosto il vero e vivo arcangelo Gabriele in luce assunta ? » Qui il Busnelli è caduto in una piccola distrazione: non nell'ottava sfera, delle stelle fisse, ove Gabriele appare veramente « in luce assunta »; ma nel Primo Mobile, ch'è la nona sfera, io pongo la visione immaginaria di Dante: or nella nona sfera Dante non vede che un punto luminoso, e, giranti intorno ad esso, nove cerchi di foco concentrici; puri simboli, l'uno della divina essenza; gli altri, delle celesti gerarchie. Né ciò importa stonatura alcuna nella concezione del Paradiso; chè gli angeli, non meno che le anime beate, si vedono fasciati di luce nell'ottava sfera, tra quelle migliaia di lucerne e quelle turbe di splendori che accompagnano Cristo e Maria, e di cui Gabriele fa parte. Inoltre, il Busnelli obietta al Proto e a me, che, « mentre la pura teoria della visione immaginaria non esige, se non pure imagini interne, il poeta, continuando il suo solito modo di dire, ragiona sempre, anche quanto alle schiere angeliche circolanti »

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« come

il che riguarda me, - « e al lume in forma di riviera » — e ciò riguarda il Proto, di cosa veduta fuori di sé ». Innanzi tutto, non di schiere angeliche circolanti bisogna parlare, a proposito di ciò che Dante vede nella nona sfera; bensí di cerchi giranti, simboli delle gerarchie angeliche; in secondo luogo, quando Isaia narra d'aver visto Dio sul trono e di averne udita la voce; d'aver visti i serafini con le loro sei ali, e d'averli uditi cantare; d'aver visto uno dei Serafini venirgli innanzi e accostargli alla bocca un carbone acceso; non ragiona egli di tutto ciò, come di cose vedute fuori di sé? E dei sette candelabri ; di colui che somigliava a un figliuol d'uomo ; delle sette stelle che questi aveva in mano; della spada che gli usciva dalla bocca, ecc.; anche di tutto ciò non ragiona san Giovanni come Isaia? Eppure, tanto la visione d'Isaia, quanto quella di san Giovanni, san Tommaso le reca come esempii di visione immaginaria. Il che significa, che, non le pure imagini interne son la caratteristica di siffatta visione, secondo san Tommaso che molto probabilmente, anche in ciò, fu la guida di Dante; bensi, che essa è caratterizzata dall' esser le cose, che si vedono dal veggente, puri simboli di cose che non si vedono.

In quanto ad Aristotile, che al Busnelli sembra tuttora esser colui che dimostra a Dante il primo amore di tutte le sustanzie sempiterne; mi sarebbe piaciuto che il Busnelli avesse confutati i miei argomenti contro questa vecchia interpetrazione, e quelli in prò della mia (il sole); e lo stesso mi sarebbe piaciuto che avesse fatto anche per la mia interpetrazione della figlia del sole (Circe), che parimente il Busnelli rigetta. Ma egli potrebbe dire che confutar tutte le mie opinioni avrebbe richiesto troppo spazio; come recentemente, per i miei Nuovi studii su Dante, ha detto anche il Sanesi risponderò dunque anche al Busnelli quello stesso che già ho risposto al Sanesi: << quando lo spazio è cosí limitato, che la concisione non basti, par che sia prudenza far a meno di confutare »; solo aggiungendo, che ciò vale in ispecial modo per il Bullettino della Società dantesca, ai cui lettori quel che piú interessa è di conoscere, con la maggior larghezza e precisione che quella rassegna consenta, quanto di nuovo si pubblica intorno a Dante.

Popoli, 2 Marzo, 1912.

L. FILOMUSI GUELFI.

CHIOSE DANTESCHE

I.

L'findugio di Casella. *

« Casella mio, per tornare altra volta là dove io son, fo io questo viaggio »> diss' io; « ma a te come tanta ora è tolta? » Ed egli a me : « Nessun, m' è fatto oltraggio, se quei che leva e quando e cui gli piace, più volte m' ha negato esto passaggio; ché di giusto voler lo suo si face. Veramente da tre mesi egli ha tolto chi ha voluto entrar con tutta pace.... ».

Purg. II, vv. 91-99.

La difficoltà, che per la piena intelligenza di questi versi incontrano i commentatori di Dante, è nata unicamente dal non essersi essi saputo render conto del come Casella abbia tardato di tre mesi il passaggio al Purgatorio dopo l'indulgenza dell'Anno Santo (1300). La maggior parte dei critici ha saltato a pie' pari la questione; altri, sia per proporre nuove congetture, sia per correggersi a vicenda, vi si son trattenuti alcun poco, ma con esito non del tutto felice. Il Pranzetti si domanda fin da principio « come mettere d'accordo la meraviglia di Dante per l'indugio di Casella, (l'Anon. Fior. dice che erano passati piú mesi ch' egli era morto ») il condono giubilare e le varie richieste di passaggio fatte dal Casella stesso. (Cfr. v. 96: « più volte m' ha negato esto passaggio ») ».

E, citando la nota dello Strocchi e del Costa, conchiude che si l'uno che l'altro confon

* A proposito della nota dantesca di ERNESTO PRANZETTI, L'indugio di Casella, Arpino, 1900.

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dono la dimora, indeterminata nel tempo, delle anime alle foci del Tevere.... con la dimora, ben determinata,.... nell'Antipurgatorio ». Verrebbero in tal modo a coesistere due Antipurgatorii con disuguaglianza di pena per anime che si son macchiate della medesima colpa: ché non v'è infatti ragione per cui Manfredi, Belacqua e gli altri debbano scontare nell'isola l'ora della salita, mentre Casella alle foci del Tevere. Il Poletto stabilisce una distinzione fra il desiderio che le anime nutrono del Purgatorio e la volontà ferma di pagar prima quel debito che a ciò le rende non atte, e, dalla contemplazione di questo fatto morale e psichico scendendo al caso specifico di Casella, deduce la conseguenza che quest'anima si è volta là dove Tevere s'insala tre mesi dopo il giubileo di Bonifazio VIII, perché solo allora ella ha sentito di poter lasciare il talento al suo patire, ossia la giusta pena per andarsene in Paradiso. Ma una simile distinzione sembra il frutto d'una dialettica che si studia, senza però riuscirvi, di spiegare quel complesso di circostanze, presentato dal Poeta in un velo di mistero, e, come vedremo in séguito, capace d'una piú naturale spiegazione. Poiché, ben a ragione osserva il Pranzetti, non sarebbe in alcun modo ammissibile che, potendo tutte le anime per il condono giubilare imbarcarsi alla volta del Purgatorio, la sola anima di Casella si astenesse volontariamente da quel beneficio, o fosse costretta a rinunziarvi, per purgarsi della contumacia: nel qual ultimo caso non si potrebbe non esser colpiti da una cosí ingiusta distribuzione di condoni. Mosso da tali dubbi il Pranzetti infine, facendo eco al commento dello Scartazzini, è anch'egli d'opinione che questo

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luogo sia stato imitato da Virgilio, e conchiude che, al contrario del poeta dell'Eneide, Dante non ci dice né può lasciarci indovinare il perché l'Angelo negasse il passaggio a Casella; e che « a voler sempre Dante pedantescamente logico nei particolari e matematico nei dettagli del disegno, si finisce talvolta per travisarlo e per rimpicciolirlo. Pertanto, dice il Pranzetti, non bisogna chiedere al Poeta piú di quello ch' egli non chiese a sé stesso: ché, rappresentando Casella, meglio di qualsiasi altro personaggio, l'attaccamento dell'anima umana ai piaceri più dolci di questa terra, è stato scelto da Dante, il quale « in questo episodio ebbe specialmente riguardo all'effetto estetico, alla naturalezza, alla vivacità della scena, lasciando un insignificante particolare di essa avvolto nell'ombra, da cui invano potremmo sforzarci di sottrarlo ».

La spiegazione del Pranzetti non è tutta la verità, ma una parte di essa: poiché se Dante nella singola raffigurazione delle immagini, degli episodii e dei personaggi ha sentito sommamente lo scrupolo del bello con cui gli toccava adornarli, non ha però mai perduto di vista un momento, e ce lo attesta qualsiasi luogo attentamente esaminato, il rapporto che doveva intercedere tra quegli episodii e la teorica delle leggi umane e divine, su cui gigante s'innalza e si sostiene l'edificio dell'intero poema. Non voglio già dire con questo che la mente dell' Alighieri nella sua piú fervida ispirazione abbia avuto dinanzi e contrappesato con fredda analisi alcuni sottilissimi particolari, che in misteriosi vincoli intessono e collegano le differenti scene specifiche col contenuto e la disposizione generale dell'opera. Ma se il critico, ed è questo sopratutto il suo compito, riuscirà a trovarsi in possesso delle ragioni che hanno operato inconsciamente in quelle minuzie, purché consentanee all' indole e alle abitudini stilistiche del Poeta, egli senza dubbio si renderà conto di tutte le pieghe dell'anima creatrice, di tutte le maniere sue proprie di concepire e di disegnare; assisterà insomma a quel fenomeno intellettuale e divinamente stupendo, in cui tutto l'essere in intimo lavorio d'immaginazione, ridesta memorie lontane, delinea fantasimi nuovi, sceglie e collega, senza spesso il

▲ En. VI, vv. 315 e sgg.

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concorso della coscienza e della volontà, gli elementi varii e molteplici che servono alla costruzione, alla positura, all' ornamento dell'idea intuita e da svolgere. In altri termini, intendo oppormi al Pranzetti con la fiducia intera che nell'episodio di Casella, oltre l'effetto estetico, che per lui sarebbe l'unico scopo dell'episodio, possa e debba ricercarsi la relazione tecnica dei fatti, onde quell'anima è circoscritta nello spazio e nel tempo.

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Giuseppe Schiavo adoprandosi a rifare la nota del Pranzetti, è caduto in una serie di contraddizioni e di stravaganze d'ogni genere.

Egli pensa, e questo è giustissimo criterio, che non è pedantesca fatica voler Dante logico sempre anche nei particolari e che appunto perciò devesi ricercare la ragione intima delle cose, la ragione filosofica.

E fin qui d'accordo. Ma le stranezze cominciano appunto quand'egli muove ad esprimere dubbi come questi: se cioè l'anima di Casella vada diritta alla sua cornice o s'indugierà nell' Antipurgatorio, ossia se quelle anime sbarcate allora allora sono tutte di negligenti o ce n'è d'ogni sorta, ché tutte s'indugiano lí e tutte poi fuggono a un modo; e che può darsi che fra coteste anime fosse stato Belacqua : dalla qual circostanza, secondo lui, si ricaverebbe che alcune anime scontano sulla terra un certo tempo assegnato alla loro pena.

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GIUSEPPE SCHIAVO, L'indugio di Casella: (Nota Dantesca). Sondrio, Quadrio, 1901.

2 È stato detto da alcuni commentatori, e dal Pranzetti medesimo a pag. 9 del suo lavoro, a proposito dell' indugio delle anime in qualche luogo determinato della terra, ove scontare il peccato, che tal disposizione risulta dalle parole stesse del Poeta. Come vedremo in séguito, dall' episodio di Casella non siamo assolutamente in grado di dedurre una simile conseguenza. Il fatto grave invece si è che vuolsi apportare, come prova di quanto è detto, il verso 138 di Manfredi nel Canto III del Purg.

star li convien da questa ripa in fuore,

che suole cosi costruirsi : « gli conviene stare fuori di questa ripa », intendendo dell' Antipurgatorio posto alle foci del Tevere. Falsa e stolta opinione! Manfredi è già in un luogo di purgazione, e si lamenta che molto tempo ancóra gli spetterà trascorrere in

In altre parole egli vuol dirci che questo ritardo in terra si compie con maggior sofferenza delle anime aspettanti che non se fossero nell' Antipurgatorio, e che una tale intensità naturalmente concorre a diminuire la estensione del tempo fissato alla pena, rendendo cosí ragione delle parole di Casella nessun m'è fatto oltraggio, come se volesse dire: « nessuna ingiustizia in ciò, anzi in ciò nessun danno fatto a me». Verrebbe dunque ad ammettere l'esistenza di due Antipurgatorii contro l'opinione del Pranzetti, il quale, pur avendo, secondo me, ragione da vendere, non ha però saputo addurre un completo patrimonio di argomenti capaci a giustificarla. Io non so che cosa importi sapere se tutte quelle anime siano o no di negligenti; non so se qualche lume potrebbe darci l'ipotesi che tra esse si trovasse anche Belacqua, o se questo, quand' anche fosse vero, ci porterebbe a conchiudere che alcune anime scontano sulla terra un certo tempo assegnato alla loro pena. Anzitutto, cosí congetturando, dovremmo pensare che, come Belacqua, potrebbe essere stato del numero di quegli spiriti, di cui facea parte Casella, anche Manfredi, Jacopo del Cassero, Buonconte di Montefeltro, Pia dei Tolomei e tutti gli altri che s'incontrano nei Canti successivi al secondo: cosa interamente assurda, perché, in primo luogo, sorgerebbe allora per ciascuna delle anime menzionate la medesima questione che per Casella; in secondo luogo Belacqua, stando a sedere con le braccia gittate intorno alle ginocchia e con la testa fra esse, è rappresentato come uno spirito che già da tempo si purga in quella cornice, se con un senso di rimpianto, alle domande di Dante risponde (cfr. Canto IV, vv. 127-135) che l'andar

quella ripa: onde prega Dante che voglia ricordarlo alla sua buona Costanza, e fargli da essa ottenere un numero di suffragi che gli affretti l'ora della salita a Dio. Per conseguenza nel verso 138 io porrei una virgola dopo ripa e, al contrario di tutti gli altri, spieghe rei cosí quella frase, attribuendole un valore di limitazione di luogo: « star gli conviene dalla parte di questa ripa, ossia dentro, nei limiti di questa ripa, fuori della porta del Purgatorio », come risulta dai versi 130 e sgg. del Canto IV, ove si ripete lo stesso concetto quasi con le stessissime parole:

Prima convien che tanto il ciel m' aggiri di fuor da essa (porta) quanto fece in vita, ecc.

in su gli vien proibito dall' Angel di Dio che siede in su la porta, e che gli conviene indugiarsi in quel luogo tanto tempo quanto indugiò al fin li buon sospiri, a meno che le preghiere dei vivi non lo soccorrano. Alle quali prove altre opportunissime se ne aggiungono, come queste: che Dante fra la turba incontrata nel Canto II non si fa riconoscere che da un'anima sola, da Casella, mentre anche le altre si erano affissate nel vólto del Poeta (Canto II, v. 73 e sgg.):

Cosi al viso mio s'affisâr quelle
anime fortunate tutte quante
quasi obliando d'ire a farsi belle,

e che nel Canto IV non fa dire a Belacqua parola alcuna che alluda al celebre incontro, interrotto dai rimproveri di Catone. La congettura dello Schiavo è affatto priva di buon senso, contraria alla maniera di Dante e, quel ch'è piú, vuota di qualsiasi valore probativo. In terzo luogo lo Schiavo, col conchiudere che alcune anime (e non tutte) scontano sulla terra un certo tempo assegnato alla loro pena, non si avvede della contraddizione, già ottimamente notata dal Pranzetti, che cioè si avrebbe, anche in tal caso, da constatare l' ingiustizia divina del trattenere alcune anime alle foci del Tevere, per poi far loro continuar la pena nelle cornici dell' Antipurgatorio, mentre altre godrebbero di purgarsi direttamente nell'isola beata.

Né vale gran che al suo proposito il passo di san Tommaso (IV Sentent. Dist. XXI, Ar. Io), ove si rinvengono due tradizioni sul Purgatorio: << locus Purgatorii est duplex: unus secundum legem communem.... alius est locus Purgatorii secundum dispensationem ». Non è buona ragione infatti l'affermare che Dante. << qui adatti la leggenda dei due Purgatorii ai due Antipurgatorii, avendo occasione cosí anche di accennare a cotesta credenza che alcune anime vaghino appunto per le varie terre, in soccorso di altre anime vive o morte e in cerca di suffragi ». La spiegazione dell'indugio che lo Schiavo trova nell'errar di Casella in cerca di suffragi può aver lode d' ingegnosa e d' originale, ma è cosí strana da non convincer proprio nessuno. Poiché non so davvero persuadermi della serietà, dote precipua delle rappresentazioni dantesche, che potrebbe serbare l'immagine di Casella, quando

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