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Canto II del Purgatorio. L'anima di Casella finalmente non chiede con insistenza il benefizio del grande passaggio, ma è l'Angelo che glielo nega, con l'escluderla dal numero delle anime elette. Cosí ragionando, non v'è circostanza nell' episodio che non riceva la sua piú splendida esplicazione; e gli elementi, che lo determinano, componendosi in armonica costruzione, dan risalto vivacissimo ad ogni naturalezza, ad ogni effetto estetico, contemperato da un profondissimo significato morale in tutta quanta la scena.

Poiché, invero, come Sordello personifica nella grandezza luminosa del suo carattere l'amore sconfinato alla terra, che gli ha dato i natali, l'anima di Casella rappresenta e simboleggia, in forma del pari stupenda, l'intima verità filosofica dello spirito umano che, per quanto si sforzi a tendere in alto, non sa tuttavia staccarsi da quello ch'è costretto a lasciare.

Tanto è ciò vero che non solo per sua negligenza ha trascurato, anche allora che le leggi divine glielo permettevano, il grande passaggio alla sua purgazione; ma, perfino quando questo è compiuto, alle seduzioni dei piaceri della terra rappresentati in Dante, che tutto serba d'umano, come la donna biblica alle seduzioni del peccato, si lascia vincere, e canta, indugiandɔsi anche una volta per poco nel godimento della musica, e ritardando a sé e alle altre anime sorelle il momento supremo della propria redenzione. L'episodio pertanto acquista maggiore intensità di contenuto artistico e filosofico, e sembra richiamare, per questo secondo riguardo, il bel verso del Goethe nel primo Canto di Hermann und Dorothea :

denn es verlässt der Mensch so ungern das letzte der [habe.

Roma, maggio 1912.

UMBERTO MORICCA.

II.

Celestino Vo Alfonso X di Castiglia?

La questione veramente, fra i dantisti, è vecchia, ma, dice Felice Tocco, molto viva e sempre rinascente. Io vo' dunque con poche

Quel che non c'è nella « Divina Commedia ». Bologna, Zanichelli 1889, pag. 81.

parole portare ancóra un contributo alla sua rinascita, ma non per aggravare sempre di più la responsabilità dell' infelice ed umile Celestino, bensi per tentare di porre in suo luogo Alfonso X di Castiglia, pervenuto fino a noi col superbo titolo di Saggio.

1

Recatevi per un momento innanzi alla vostra mente la figura di Alfonso X di Castiglia, tanto celebrato in pieno secolo XIII pel suo amore alle scienze e alle lettere, poeta e autore delle famose tavole astronomiche, non meno che per le sue politiche vicende. Costui però, malgrado tanta dottrina, non solo non seppe conservarsi la dignità e il possesso del sacro romano Impero germanico, il cui conferimento aveva con calde istanze e grandi donativi, dopo la morte di Corrado IV, sollecitato ed ottenuto, ma neppure si levò a difendere l'avito regno della Castiglia, quando i Mori glie lo invasero. E glie lo avrebbero anche tolto, se non fosse accorso a respingere i Mori il figlio. Sancio, che poi depose il padre come inetto, onde questi nel 1284 ne moriva di crepa

cuore.

Questa figura di principe, che ai tempi di Dante aveva empito del suo nome il mondo, doveva colpire la mente del Poeta e indurlo ad assegnargli un posto secondo i suoi meriti fra i trapassati del sacro poema. Si aggiunga che Alfonso aveva destato nel mondo dei Guelfi grandi speranze, le quali poi, per la sua dappocaggine, finirono per tutti in un'amara delusione.

Se a Roberto di Napoli, altro re letterato, Dante rivolse il biasimo contenuto in quei sapientissimi ed arguti versi del Paradiso (c. VIII, V. 142, sgg.),

E se il mondo laggiú ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui avria bona la gente.

Ma voi torcete alla religione,
tal, che fia nato a cingersi la spada,
e fate re di tal, ch'è da sermone;

io credo che il Poeta colla sprezzante frase re da sermone non meno intendesse di Alfonso X e di quanti monarchi hanno pel passato trascinato e trascinerebbero ancóra pel futuro nell' ignavia sé e i popoli loro affidati. La Divina Commedia non è un poema epico come

regis

1 Tabulae Alphonsi Romanorum et Hispaniarum

tanti altri, ma è lo stesso giudizio d' Iddio, è la vera leggenda eterna.

Però, ad intendere meglio quale giudizio Dante dovette fare di Alfonso X, riassumiamo in breve i casi e l'opera di costui. Per la morte di Corrado IV, nel 1254, resta vacante

il sacro romano Impero germanico. Alfonso, come figlio di Beatrice di Svevia, parente per ciò d'imperatori, si pone egli stesso candidato al seggio imperiale e con larghi doni e col favore di Arnaldo vescovo di Treveri, si guadagna in Germania una forte fazione. Dei sette Elettori, 4 votano per lui e 3 pel suo emulo, Riccardo di Cornovaglia. I buoni Tedeschi gli mandano tosto una solenne ambasceria per salutarlo ed invitarlo a venire presto in Germania a farsi incoronare: ma egli non si mosse, perché forse ebbe paura di Riccardo, il quale si affrettava a cingere la corona in Aquisgrana. Intanto un' altra ambasceria gli mandano i Pisani, ed un'altra anche i Fiorentini, alla testa della quale, quasi per maggiore omaggio al Re sapiente, posero quel dotto che fu Brunetto Latini, quegli, che, dopo acquistata, con sei anni di esilio a Parigi, nuova esperienza delle cose e delle persone, doveva insegnare poi a Dante come l'uom s' eterna.

Fermiamoci un momento a questo punto, a cui il Poeta accenna con sí soave accento di rimpianto. Certo Brunetto, ad invaghire il suo alunno del viso e della gioconda voce della gloria, non gli avrà posto innanzi l'esempio dell' infingardo Alfonso, ma in quei fidati col loqui gli avrà molte volte parlato della sua ambasceria e delle speranze, poi dolorosamente fallite, di vedere finalmente tornare sul trono dei Cesari un monarca del gentil sangue latino, quale era nel sogno dei Guelfi e quale poi sempre fu vagheggiato da Dante, secondo ne attestano le seguenti sue parole:

E perocché piú dolce natura in signoreggiando, e più forte in sostenendo, e piú sottile in aquistando né fu né fia che quella della gente latina... Iddio quella elesse a quell'ufficio ». 1

Ciò posto, possiamo di leggèri intendere con quanta amarezza e quanto sdegno avrà Dante da Brunetto appreso in quale delusione Alfonso X per la sua dappocaggine lasciasse

▲ Convito, IV, 4.

cadere i suoi tanti fautori. Se nel 1260 Alfonso, secondo l'intenzione dei Fiorentini nel mandargli quell'ambasceria, si fosse affrettato a venire in Italia e a farsi incoronare, sarebbero facilmente state sventate le macchinazioni del fiero Farinata degli Uberti, che se la intendeva col re Manfredi pel trionfo dei Ghibellini; e cosí sarebbe stato risparmiato il tanto sangue,

che fece l'Arbia colorata in rosso.

Il raccapriccio, che Dante provava al ricordo di questa strage, dovette cambiarsi in odio e in maledizione contro Alfonso, che con solo un suo cenno avrebbe potuto risparmiarla e risparmiare eziandio al suo Maestro i dolori dell'esilio. Alfonso, che aveva per vanità sollecitato e accettato l'Impero, non fece nessun atto di sovranità né di energia per conservarlo, né, in quindici anni, mai pose il piede fuori del suo regno di Castiglia.

Finalmente il Pontefice Gregorio X, cui stava a cuore la pace del mondo e specialmente quella della Germania, allora in preda all'anarchia, conseguenza di diciassette anni di interregno, rivolse con più fiducia il suo pensiero al tedesco Rodolfo d'Asburgo e con tale mira indisse a Lione un solenne Concilio. « Il Pontefice (sono parole del Gregorovius) partí di Lione nel 1275 per tornarsene in patria, e, incontratosi a Beaucaire col Re di Castiglia, là, dopo lungo dibattito, Alfonso rinunziò alle sue pretese ». Similmente il Lavisse: « Le Pape se lassa même de se perséverance à se qualifier de roi des Romains élu e lui imposa

1

comme derniére humiliation l'abandon de ce titre pompeux et vid »

2

Eccovi dunque il gran rifiuto e chi lo fece. Quale rifiuto maggiore che quello dell'Impero, che era in capo a tutti i pensieri del Poeta ? Da altra parte diciamo ancóra una parola a difesa del povero Celestino.

Non ignoro l'erudita monografia del valente mio collega prof. Giov. Crocioni in sostegno dell'antica tesi, nella quale egli riassume con molta erudizione, per confutarli, gli argomenti di quanti tentarono salvare dai mo

1 Gregorovius V, pag. 535.

2 LAVISSE, Histoire generale du IV siècle a nos jours. Vol. 2, pag. 715.

3 Pel « Gran Rifiuto» di Celestino V. Casalbordino, stab. tip. Nicola de Arcangelis, 1898.

sconi e dalle vespe l'anima del già troppo infelice Pontefice. Io non entro in questo arringo, perché il mio assunto è affatto nuovo e affatto estraneo alla dotta polemica, e preventivamente la escludo. Non voglio quindi ricorrere per liberare Celestino dall'Antinferno al vecchio argomento della sua santificazione, la quale, come dicono il Tocco e il D'Ovidio, poteva essere ignota a Dante, perché, decretata nel 1313, fu proclamata solamente nel 1329, quando Dante era morto. Voglio piuttosto domandarmi perché Dante doveva aggravare il suo giudizio sul povero Celestino V, vittima dell'ambizioso Bonifazio VIII, anziché sentire di lui quella compassione, che in tutti gli animi generosi e devoti si desta anche oggi per l' inganno e la persecuzione, della quale l'umile Anacoreta fu oggetto fino alla morte ed anche oltre la tomba. Perché, si risponde, senza la rinunzia di Celestino non sarebbe stato eletto papa quel Bonifazio, che fu pel Poeta la causa principale del suo esilio. Ma forse che la elezione. di Bonifazio fu la conseguenza necessaria ex integro della rinunzia di Celestino, come la logica illazione di un sillogismo? Che ne poteva sapere Celestino della scelta del suo successore? Né Dante era di spirito sí leggero che, ergendosi a interprete della divina giustizia, volesse fare responsabile Celestino delle colpe altrui. Anzi il Poeta doveva essere tutto commiserazione per la vittima, quanto piú ne esecrava il tiranno: e Dante soleva essere buon

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NOTIZIE

"Lectura Dantis,, fiorentina.

Le Letture dantesche, non soverchiamente affollate di ascoltatori negli ultimi anni, sono state quest'anno abbandonate talvolta anche da molti de' piú costanti e devoti loro seguaci: sí che la gran sala di Or San Michele appare spesso per oltre la metà deserta di uditori. Il fatto è constatato del cronista del giornale La Nazione, dove (LIV, 87) si leggon, tra altro, su tal proposito, queste malinconiche parole: « Possiamo in parte indovinare, per le condizioni presenti della Patria, perché il numero dei frequentatori di Orsanmichele è quest'anno assai inferiore agli altri anni; ma tutto non è spiegato. E ci domandiamo: l'amore a Dante, a un' istituzione cosí nobile ed alta qual è quella delle letture, è cosi scaduto fra noi, nella città che più si vanta di essere cólta e intellettuale? È questa una depressione degli spiriti nostri, o le letture sono incredibilmente noiose, ed è necessario modificarle o sospenderle ? »

Ora noi non vogliam negare al buon cronista del giornale fiorentino che le attuali «< condizioni della Patria » non abbiano alcuna influenza su questo sfollamento della Sala di Dante: gli animi nostri, in questo fortunato risveglio dal [vil sonno che gravò sopra l'Italia per cosí lunghi anni di vergogna e di dolore, sono ora vòlti tutti altrove; i cuori nostri battono ora tutti concordi in una sola ansietà e in un unico pensiero: ma non per questo è vanito da essi il culto di Dante, e l'amore per le cose utili e belle. Dante impersona l'Italia, e non può essere che la devozione per cosí alto e sacro simbolo della gente nostra si spenga in noi, quando piú serena e fulgente l'imagine della Patria splende alle anime nostre e scalda i nostri cuori. No; il raffreddamento del publico fervore per questa bella instituzione della lettura di Dante ha bene altre e più remote origini. Queste esposizioni publiche dei Canti immortali, cosí come sono ordinate e fatte, se ben non per colpa dei lettori, dottissimi quasi tutti, tutti degnissimi di accostarsi al sacro libro di Dante e di rivelarne l'intimo pensiero, non servono a nulla, e a nessuno, non rispondono all'altissimo

fine pel quale furono instituite, non interessano il grosso del publico pel quale dovrebbero essere fatte. La necessità, quindi, di studiar qualche provvedimento appare evidente. Questo dicemmo già, diciamo e ripetiamo ora e non ci stancherem di ripetere per l'avvenire, se non vogliamo vederle morire, se non desideriamo che la bella Sala di Dante sia finalmente deserta. Ma tanta è ancora la nostra fede e il nostro amore per questa instituzione fiorentina, che ci ripromettiamo di tornar sopra all' importante argomento, quando il corso annuale, che volge ora al suo termine, sia chiuso.

Letture dantesche in Francia.

A Parigi, nell' aula magna della Ecole des hautes Etudes sociales, si è svolto, nel gennaio, un breve corso di letture dantesche. Ricciotto Canudo ha trattrato il tèma: La poesie medievale et la « Vita nova »; Paolo Vulliand ha parlato di Dante et les sectes d'Amour; Giacomo Reboul dei Contemporains français de Dante e Fernando Divoire di Dante en Flandre.

La "Collezione di opuscoli danteschi

diretta da G. L. Passerini e publicata dallo Stabilimento S. Lapi di Città di Castello, si è arricchita recentemente di due nuovi volumi (ni. 105-113) contenenti un importantissimo studio di Giovanni Busnelli su Il concetto e l'ordine del « Paradiso » dantesco. Nel primo volume, risguardánte il concetto del Paradiso, la materia è cosi ripartita: Introduzione; 1. I fondamenti dogmatici; 2. I fondamenti scientifici; 3. Ombre e luci animate; 4. I beati mostrantisi fuori dell' Empireo. La glorificazione umana; 5. La glorificazione della divina grazia; 6. La glorificazione angelica; 7. I beati nell' Empireo. La candida rosa; 8. La glorificazione di Dio. Il secondo tratta dell'ordine, in nove capitoli: 1. L'ordinamento dei beati; 2. I fondamenti teologici dell'ordinamento; 3. Il criterio teologico, ossia la carità; 4. La distinzione dei beati; 5. La distinzione dei pianeti e la perfezione crescente dei beati; 6. Il

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1912, 80 gr. [dall' autore].

Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento. Torino, Loescher, 1912, 80 [dall' autore].

ANTON VON KOSTANECKI.

Dantes Philosophie des Eigentuns. Berlin und Leipzig, Rothschild, 1912, 8 [dall'autore].

LUIGI RIGHetti. Nuovi argomenti contro l'autenticità del Canto XI dell'« Inferno» dantesco. Firenze, tip. E. Ducci, 1912, 8° [dall'autore]. DANTE ALIghieri. Le Opere minori, novamente annotate da G. L. PASSERINI. IV: Il Trattato della Monarchia o dell'Impero. Firenze, Sansoni, 1912, 18o [dall' editore].

Le Opere minori, novamente annotate da G. L. PASSERINI. V: Il Trattato della volgare Eloquenza. Firenze, Sansoni, 1912, 180 [dall'editore]. CATELLO Del Vivo. L'uomo statua: fiaba. Ariano, tip. Appulo-Irpina, 1912, 8° bisl. [dall'autore].

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Brevi cenni della famiglia Palma di Cesnola. Firenze, Stab. tip. « Aldino », 8o gr. [dal Col. A. di Cesnola]. NARDI BRUNO.

Sigieri di Brabante nella « Divina Commedia », etc. Spianate, presso l'autore, 1912, 8o. STANO GIOVANNI. La « Nobiltà » nel « Convivio ». Sala Consilina, tip. De Marsico, 1912, 80 [dall'autore].

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CRISPOLTI FILIPPO. Dante e S. Francesco. Roma. tip. « Roma », 1912, 8° [dall'autore]. ALESSANDRO D' ANCONA. Della Pargoletta » ... e di altre donne nel poema e nelle rime di Dante. Roma, « Nuova Antologia », 1912, 8o [dall'autore].

SEB. SCANDURA FINOCCHIARO. L' Allegoria e la figura morale di Dante. Palermo, Libreria Ant. Trimarchi, 1912, 16o [dall'autore]. BARTOLINI AGOSTINO. Itinerario dantesco. Roma, tip. Ricca, 1912, 16o [dall'autore].

LUIGI CESARE BOLLEA. Di una miscellanea quattrocentista di rime e di prose: Nota. Torino, V. Bona, 1912, 80 [dall'autore]. BORTOLASO VITTORIO. I Prestatori di danaro padovani a Vicenza al tempo di Dante. Padova, tip. Randi, 1912, 8o [dall'autore].

CATALOGO della Biblioteca di Gregorio Morici di Fermo. Roma, Rossi, 1912. [da D. Rossi].

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Tipografia Giuntina, diretta da L. Franceschini Firenze, Via del Sole, 4.

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