Slike stranica
PDF
ePub

1

sesto perché servono di confine tra l'uno e l'altro. Vero è bene che il cerchio quinto e il sesto stanno, come accortamente ha dimostrato il Michelangeli contro il Lubin, sul medesimo grado, ma si noti che lo Stige non ha nulla a che vedere con le mura della Città di Dite, le quali formano di per sé stesse un presidio al nuovo Inferno, che da loro comincia, e intorno alle quali lo Stige piglia forma di canali (alte fosse), giranti intorno alla città stessa, proprio come una città fortificata del medioevo. Le mura dunque (è bene ripeterlo in altra forma, e, per avventura, piú semplice) non son già di confine tra il quinto e il sesto cerchio, ma servono a quest'ultimo, che costituisce, come vedremo in séguito, una regione isolata e affatto distinta dal resto, come riparo e difesa solidissima.

Né molto piú vale l'osservazione del Fornaciari, che fra una ripa e l'altra della palude vi è corrispondenza mediante le due torri che si danno e rendono il segnale colle fiammelle, quasi a significare che esse trovansi amendue in un territorio comune. Ché anzi da questo io trarrei ottimo argomento a dimostrare che la Città di Dite è un territorio a parte, e ben chiuso e separato da gli altri, se i suoi custodi han bisogno di un segnale, ogni volta che sia necessario significar loro l'avvento di qualche anima colpevole, perché si affrettino a spedire il nocchiero, il quale la riceva nella sua barca e la trasporti nella città stessa.

D'altra parte non è poi necessario, come vorrebbe il Fornaciari, che le Furie, per riferirle unicamente al cerchio sesto, debbano ad ogni costo esser considerate come personificazione dell'eresia. E, progredendo il mio studio, si vedrà presto come invece quelle immagini dantesche, di splendida sublimità pittorica nel loro diabolico delirio, contemplate dal punto di vista della natura e degli aspetti che le caratterizzano, ben si appropriano al cerchio degli eretici, senza necessità di scorgere in esse personificazioni della colpa ivi punita.

1 Sul disegno dell' « Inferno» dantesco: studio di L. A. Michelangeli. Bologna, 1886, pagg. 22-23.

Riman dunque per mio conto di gran lunga scosso e pencolante l'intero edificio, che, sulla base delle prove da me confutate, il Fornaciari aveva eretto, non senza una certa acuta ingegnosità e apparato di verosimiglianza, intorno al senso allegorico delle Furie, che per lui rappresentano, o solamente o principalmente almeno, l'invidia, concepita come un odio mortale agli uomini, come l'opposto dell'amore verso il prossimo.1

Orbene; poiché abbiam messo in evidenza e fermato stabilmente il luogo a cui appartengono i personaggi dell'episodio discusso, vediamo che specie mai di allegorici argomenti vogliano essi racchiudere.

Dire che moltissime, anzi interminabili interpetrazioni, e le più stravaganti, si son

Non so poi perché il Fornaciari, traendo, a pag. 640 del suo lavoro citato, una prova a conforto della sua tesi dal colore dei serpenti che fan da cintura alle Furie, aggiunga ch' essi son verdissimi e non cerulei, come quelli di Virgilio e di Stazio. Io non voglio già credere che il Fornaciari ignori le varie accezioni del vocabolo latino (ché sarebbe in verità troppo grossa !), ma piuttosto ch'egli si sia attenuto alla più semplice, appunto nell' intento di trovare in essa un particolare di più a sostegno della propria opinione.

Ma l'appoggio è tutt'altro che solido. Non v'è infatti dizionario latino al mondo (basti il solo Forcellini per tutti), che, accanto al significato di azzurro, a proposito del caeruleus, non registri anche quello di negro, oscuro, livido, ecc. Virgilio, al v. 194-195 del III nell' Eneide, dice:

tum mihi caeruleus supra caput adstitit imber noctem hiememque ferens et inhorruit unda tenebris. Che altro mai vuol indicare quel caeruleus se non negro, oscuro, caliginoso? Al v. 208-09 inoltre si legge :

haut mora, nautae

adnixi torquent spumas et caerula verrunt. Che altro indica quel caerula, che tante volte occorre anche in Lucrezio, se non i flutti che durante la tempesta assumono quel colore di livido cupo, di violaceo, di paonazzo, corrispondente all'omerico losɩdýg? E il caeruleus accordato con cucumis in Properzio (IV, 2, 43) che altro vuol significare se non verde oscuro? Dunque i serpenti delle Furie dantesche sono niente piú niente meno che lividi, verdissimi (e il superlativo in Dante, avrebbe dovuto esser notato, indica appunto la densità del colore; il verde cupo, in altri termini) come i serpenti di Virgilio e di Stazio.

1

rimuginate e impastate, con più o meno di originalità, sarebbe cosa del tutto superflua. E da ultimo il Filomusi Guelfi, della cui opinione non discorrerò, se non per accennarla soltanto, ha proposto che in ciascuna delle Furie si dovessero rispettivamente ravvisare: la sensualità della carne, la sensualità degli occhi e la superbia della vita, secondo la classificazione di san Giovanni. Ma il suo ragionamento, che, come tanti ragionamenti di questo mondo, ai quali meglio si addirrebbe la denominazione di sofisticherie ed arzigogoli, procede con una certa regolarità di elementi logici, tale da sembrare al critico medesimo non facilmente contestabile, non manca tuttavia, a chi ben consideri, di mende e di lacune parecchie, che con esattezza confutò il Ferrabino, e che ben rivelano lo e che ben rivelano lo sforzo studiato dell' interpretazione per l'ardua, architettata e lambiccata dottrina, che se ne vuol ricavare.

2

E a quello che il Ferrabino, molto esattamente, ha notato in proposito, io aggiungerò che il Filomusi troppo a lungo s'è indugiato sull' etimologia del nome delle Furie, cercando in essa sopratutto una prova delle passioni disordinate del concupiscibile e dell' irascibile, che si riducono alla triplice classificazione di san Giovanni. D'altra parte i passi citati da Aristotile e da san Gregorio posson valere per sé, e non di commento al vero significato etimologico del nome delle Furie, il qual significato Dante con assoluta certezza non ha mai conosciuto.

[blocks in formation]

1 FILOMUSI-GUELFI. La città di Dite, le Furie Medusa e i versi strani, in Giorn. dant,, XVIII, 1910, pagg. 118-126.

2 FERRABINO. Il dramma dantesco della superbia, e del dubbio in Giorn. dant., XIX, 1911, pagg. 14-15. 3 BOCCACCIO. Op. cit., pag. 200. Aggiungi inoltre che neppur Pietro di Dante riusci ad azzeccar nulla intorno al senso etimologico delle Furie, intendendo essere Aletto la superbia del pensiero, Tisifone la superbia della voce, Megera la superbia dell'atto.

gran litizio per lo quale dobbiamo intendere le vendette, l'uccisioni e le guerre », ecc. E che di diverso vuol dir questo, se non tradurre in volgare quel che dai poeti latini e da Virgilio sopra ogni altro è stato ricantato e attribuito senza distinzione di sorta a tutte le Furie in genere? E se Fulgenzio, poiché di questo mitografo in fatto di etimologie si serve assai di frequente il Boccaccio, era cosí noto e cosí pieno di spropositi, (poiché null'altro aveva fatto che raccogliere dai poeti e da qualsiasi tradizione antica fatti e nomi mitologici, e spiegarli, come poteva alla meglio, anzi alla peggio), e se infine, come abbiam detto, del greco Dante non aveva conoscenza veruna, perché s'insiste tuttora a voler ricercare in quei benedetti nomi delle Furie radici, derivazioni e significati reconditi?

Ma il Filomusi continua imperterrito a tirar l'acqua al suo mulino, e dice: « Megera, che è a sinistra, è peggiore (perfino dal posto ch'essa occupa si vuol trarre, (lo fa del resto anche il Fornaciari), sussidio di argomentazioni! Benedetta pedanteria!); e il suo nome significa invidia; essa dunque simboleggia perfettamente la concupiscenza degli occhi intesa nel senso di concupiscenza di tutte quelle cose in cui si cerca il diletto degli occhi, vale a dire il diletto di qualunque facoltà apprensiva; il qual diletto.... » eccetera eccetera; ché davvero basta.

Lo stesso dicasi per Tisifone e per Aletto. Falsa è inoltre del pari la considerazione del Filomusi intorno agli attributi delle Furie, delle quali le membra e gli atti femminili devono per forza voler significare non so che di grandemente misterioso, perché « la femmina simboleggia la seduzione, esercitata dai falsi piaceri, come dimostra la femmina balba del Canto XIX del Purgatorio ».

Io non so se per altri luoghi del divino Poema si sian dette mai cose cervellotiche all'eccesso, stravaganze dell'altro mondo, aberrazioni incredibili; ma questa io credo, tutte le supera.

Che cosa abbia infatti a che vedere la femmina balba, una stregaccia, monca, guercia e storta, apparsa in sogno a Dante, con la

terribile visione delle tre Furie, in un territorio, dominato e custodito dai diavoli, contro gli assalti di un'anima che tenta attraversarlo, senza doverci rimanere, io non saprei dire davvero.

Ma non qui solo il Filomusi nutre il presentimento di recondite verità nascoste, ch'egli va orgoglioso di spiegare; ché i serpenti delle Furie simboleggiano per lui l'inganno (perché i beni mondani ingannano), (e con ciò ripete, riferendola alle Furie piuttosto che a Medusa, e senza neppur citarla, l'opinione del Fornaciari); parimente il risguardar in giuso delle Furie deve avere il suo significato morale, che non può essere, secondo lui, se non quel mirar pure a terra che Virgilio rimprovera a Dante e ai contemporanei di lui nella seconda cornice del Purgatorio; l'affetto cioè alle cose terrene », ecc. No! Mille volte no! Rifatevi un po' dinanzi agli occhi, voi che pretendete interpetrar Dante, la situazione come il Poeta l'ha posta; collocatevi in un angolo della scena, dal quale, come spettatori, possiate dominarla, e troverete assai semplice che, essendo le Furie contro Dante unicamente adirate, e contro lui essendo le loro insidie rivolte, e apparendo per di più dall'alto, non potevano riguardar che in giuso e verso il Poeta soltanto. So anch'io invero, e lo riconosco, che la simmetria nelle forme allegoriche del divino Poema corrisponde alle volte esattamente ai più piccoli particolari, alle piú secondarie circostanze della descrizione, (quantunque, io non cessi dal dubbio che, nella maggior parte dei casi, quei minimi rapporti, invece che introdotti nel Poema per spontanea riflessione del pensiero, per una certa inconscia e pur potentissima forza di armonia spirituale e intellettiva nella mentalità del Poeta, siano piuttosto invenzioni della critica, la quale, rivivendo e ricreando l'opera d'arte, scorge addentro le piú minute relazioni fra le sue parti e le sue piú riposte bellezze): so anch' io, ripeto, che in Dante tutto s'impernia su di un sistema di costruzione meccanico-matematica, per cui a una premessa risponde costantemente una conseguenza, un concetto ideale un riferimento reale, a una

a

forma simbolica una qualità positiva; ma ciò senza dubbio avviene quando le cose s'interpretano secondo l'intendimento del Poeta, e non in conformità a un principio da noi posto a priori, e immutabile, e al quale tutto ha da piegarsi e asservirsi. Dante ha voluto esser certo più semplice di quel che si sia creduto e si creda; e la profondità, l'immensità va ricercata piuttosto nel suo pensiero, nelle sue concezioni, nelle meraviglie della sua immaginazione e della sua cultura, che in circostanze tenui e insignificanti, le quali mal si prestano a un valore allegorico.

1

Il Ferrabino dal canto suo, in un lavoro, in cui, per massima parte, si limita alla confutazione delle opinioni altrui, sperando ritrarre da essa solido vantaggio alla propria tesi, crede, dopo aver disputato, che le parti, rimaste intatte alla critica, dei diversi commenti collimino ad affermare con lui che nelle Furie si ha veramente la rappresentazione della superbia. E il Ferrabino in fondo in fondo non s'inganna. Ma la sua, a guardarci bene addentro, è una verità soltanto parziale, un frammento di verità e non altro.

Che infatti a quelle tre figure sia comune la passione della superbia, come ad esseri congiunti da temperamenti affini, e generati da una medesima potenza, sta a dimostrarlo non solo il fatto, di carattere tecnico e rappresentativo, che esse vigilano dalla vetta d'un'alta torre, ma anche l'altro, di carattere morale e psicologico, che s'oppongono al viaggio del Poeta, concesso dalla grazia divina, dalla misericordia e giustizia di Dio; sí che contro Dante e contro Dio si drizzano li sulle mura, minacciose e ribelli, e a domarle sia necessario l'intervento del Messo del cielo. Tuttavia però è da convenire che la superbia non è e non può in qualsivoglia modo essere l'aspetto reale, l'elemento positivo dell'allusione allegorica, fatta col mezzo delle Furie, poiché, dopo tutto, la superbia nient'altro sarebbe che un attributo di quei personaggi, della stessa portata che l'esser esse insanguinate, il cingersi di serpenti, il battersi con le palme e simili i;

1 FERRABINO. Op. cit. pag. 16-17.

non la personificazione d'una colpa capitale, capace di tre suddivisioni di peccati, quante sono le Furie.

E invero il Ferrabino non sembra essersi ricordato di quanto sia in onore il numero dispari, il mistico tre presso il divino Poeta. E ciò pur trascurando che, quand'anche si volesse ravvisar nelle Furie la passione della superbia, noi verremmo ad avere nella Città di Dite un ritorno a un simbolo da noi già incontrato e riconosciuto in sul principio dell' Inferno, nell'ostacolo opposto a Dante dal leone; una ripetizione insomma stucchevole ed inutile, quanto quella del Ruth, che il Ferrabino stesso (curiosa contraddizione!) confuta e ribatte, ma che certo è più simmetrica, piú regolare e però piú verosimile. (Il Ruth' suppone che le tre mostruose Erinni corrispondano, né piú né meno, alle tre belve paurose, onde Dante fu rattenuto, avanti che penetrasse nella prima parte dell'abisso infernale).

1

Le Furie dunque si lacerano con le unghie, si battono con le palme, sono avviluppate di serpi, gridano alto e han segni di superbia. Quest'ultimo attributo, del tutto soggettivo, perché inerente all'anima e di natura intima, unitamente con gli altri, che sono la estrinsecazione materiale di moti spirituali, e gli effetti caratteristici di determinate passioni, giova grandemente a farci intendere che specie di peccati vogliano le Furie simboleggiare.

E questo è quanto ci accingiamo ad esprimere, ora che abbiam libero il campo da ogni

[blocks in formation]
[blocks in formation]

2

(Inf., XI, 79-83).

Se non che non sembra essere di questa opinione il Filomusi, il quale dice che i peccati d'ignoranza son puniti nel vestibolo e nel 1° cerchio; quelli di passione nel 2o, nel 3o, nel 4° e nel 5° cerchio; quelli di malizia nei tre ultimi, 7°, 8° e 9°; mentre crede che il 6o cerchio, in cui le Furie appariscono, è dato a una classe intermedia, l'eresia che ha del peccato d'ignoranza, del peccato di passione, e di quel di malizia.

Vediamo un po' come stan le cose; poiché, quantunque l'argomento possa sembrare estraneo al nostro proposito, non sarà tuttavia, per ciò che se ne dovrà concludere, privo d'un qualche vantaggio il discorrerne.

1 Mi preme a questo punto avvertire che su molte altre imperfezioni dei lavori del Filomusi e del Ferrabino avrei dovuto fermarmi a discutere. Se non che a me sommamente importa il venir quanto prima alle conclusioni e all'esposizione delle opinioni mie. Ad ogni modo non mancherò, quando mi se ne presenterà il destro, di notare ancóra quel che mi sembri necessario, a proposito delle congetture altrui.

2 Giorn. dant., XVIII, 1910, pag. 120.

Giornale dantesco, anno XXI, quad. I-II.

3

-

1

Per nostra maggiore intelligenza riferirò intanto qui sotto per intero un brano assennatissimo del commento di Daniello ai versi 79-83 del Canto XI dell'Inferno: < Aristotele.... dice che tre spetie di cose intorno a i costumi sono da fuggire, il vitio, l'incontinenza e la ferità il luogo è questo: post haec alio sumpto initio dicendum est, rerum circa mores fugiendarum tres species esse: vitium incontinentiam et feritatem. quarum duabus quae sint contraria manifestum est: alterum enim virtutem, alterum continentiam vocamus, feritati autem maxime convenire quispiam diceret virtutem, quae supra nos est, heroicam quandam ac divinam. E chiama il Filosofo vitio quello, che il nostro Poeta malitia; e ferità quello che matta bestialità. Al vitio si oppone la virtú; alla incontinenza la continenza; alla ferità la virtú heroica: percioché come questa tien piú del divino che dell' humano (onde heroica è detta) cosí questa tien piú della fiera che dell' huomo; e però ferità Aristotele e Dante matta bestialità la chiama: e sotto questa pone i traditori, per esser meno che huomini e piú che bestie; percioché qual maggior crudeltà si può usar di quella, che usa il traditore nella persona di colui, che in lui si fida? certo (se ben si riguarda) niuna e come incontinenza men Dio offende, e però più vicina alla superficie e piú lontana dal centro si punisce, onde soggiunge, che s'egli riguardava ben con l'intelletto suo questa sentenza d'Aristotele (la quale è, perché men pecchi lo incontinente che il vitioso et il ferino) conoscerà per qual cagione Iddio non l'ha cosí in ira come gli altri >.

Il commento del Daniello a me sembra giustissimo, e certamente degno di massima considerazione: ond' io l'accetto senz'altro.

Da esso si ricava che non esatta e conforme all' intendimento del Poeta è la classificazione di Filomusi, dalla quale il cerchio 6° verrebbe escluso, e considerato come un potpourri delle colpe di ignoranza, di passione e di malizia.

1 Dante con l'Esposizione di messer Bernardino Daniello da Lucca, ecc. In Venetia, appresso Pietro da Fino, 1568.

Via, le voglion esser ciance, se il compito d'un buon critico dev'esser quello di spiegar Dante con Dante!

Io non voglio ora impancarmi a precisare dove cessi l'incontinenza e cominci la malizia, dove cessi la malizia e cominci la matta bestialità il che potrebb'essere il soggetto d'un mio nuovo lavoro: a me basta soltanto sapere che vi sono, nell'Inferno dantesco, queste tre fondamentali divisioni, condotte secondo la classificazione aristotelica, e che il cerchio 6o non è mica un qualche cosa di vago e d' indeciso, ma un luogo molto chiaramente destinato alla punizione di una colpa di malizia : l'eresía. Per cui non senza ragione è custodito dai demoni, persone ben adatte e appropriate per loro natura, sotto ogni rispetto, a quell'ufficio, secondo quanto intorno ad essi ha dissertato san Tommaso nella Quaestio LXIII (De angelorum malitia quoad culpam, in novem articulos divisa) della sua Summa theologica.

Ponendo inoltre, come abbiam sempre ammesso, nella Città di Dite il principio della seconda metà dell'Inferno dantesco e, volendo ritrovare nell' insieme dell'edificio quella regolarità architettonica, quella infallibile corrispondenza geometrica di parti e di linee, che costituisce in ultima analisi nel nostro Poeta lo stile, per dir cosí, costruttivo del mondo sotterraneo, com'egli l'ha concepito, io non esiterei a riconoscere, molto, s' intende, approssimativamente nella Città di Dite, in rapporto alla seconda parte dell' Inferno, ciò che è il Vestibolo in rapporto alla prima. Insomma voglio dire che, nei riguardi tecnici della concezione, la Città di Dite prelude senza dubbio alle colpe piú gravi, le quali s'incontrano nel resto dell' Inferno; e che nel pensiero del Poeta, al momento del lavoro di creazione, devono essersi in certo modo fissati due mondi, due masse enormi: Inferno superiore e basso Inferno. E come alla prima parte è stato premesso un vestibolo, che predispone, per affinità di caratteri, alle colpe d'incontinenza, similmente alla seconda parte è stato premesso un cerchio, il quale, mentre da un lato, con la ferrugigna e massiccia rigidità delle sue mura, segna, quasi con un taglio netto,

« PrethodnaNastavi »