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LA CITTÀ DI DITE

Che le più varie opinioni intorno a questo soggetto si son venute intessendo e contraddicendo dalla piú remota antichità ai nostri ultimi tempi, sempre che si è sentito vivo ed intenso l'interesse per l'interpretazione esatta dei simboli danteschi, è cosa universalmente nota. Ma il fatto si è che, o per esser dominati da presupposti erronei; o per l'accanimento cieco e inflessibile di voler sostenere ad ogni costo quello che suggerisce alle volte, per caratteristici fenomeni psichici e intellettuali, una qualche soggettiva e peregrina impressione, ricevuta dalla lettura del testo; o per brama urgente di voler vedere in un'allegoria, che può esser del resto facilmente intelligibile, tutto un sistema di sapere teologico, filosofico e morale (come vedremo nella confutazione di alcuni, che in tal questione han voluto lungamente soffermarsi), le diverse e moltissime opinioni recano pur sempre con sé un'impronta evidentissima del cosiddetto peccato d'origine.

Noi dunque in questo studio, presenteremo dapprima, confutandoli secondo quel che a noi sembra contenere maggior forza e sostegno di verità, i risultati ai quali son giunti gli ultimi studiosi di Dante, (ché degli antichi commentatori, fatta eccezione del Boccaccio e di qualcun altro, non mette conto discorrere, quando è noto a quali strane bizzarrie d' interpetrazione essi si son lasciati per massima parte

condurre). Passeremo poi alla visione complessiva dell'episodio dantesco, e alla esposizione del valore moraie e filosofico, eternalmente e universalmente umano, delle circostanze su cui poggia l'avvenimento straordinario del mistico viaggio dell'uomo pe' regni d'oltretomba, e degl' impedimenti che a lui vengono dalle diaboliche potenze.

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Mi preme intanto far sin da principio conoscere che nostra intenzione è bensí quella di spiegar Dante con Dante, ma fino a che Dante lo permetta, e non come fanno alcuni, tra i quali il Fornaciari, che, pur proponendosi quel fine, van tuttavia racimolando dal Purgatorio e dal Paradiso versi e situazioni, che non han proprio nulla a che vedere col mito delle Furie e di Medusa nel IX dell'Inferno.

Né solo fa bisogno che Dante da sé e con sé stesso si spieghi, ma, sopratutto anche, con l'influenza del suo tempo, con le credenze religiose (scientifiche e popolari), che costituiscono il substrato della coscienza medievale, e si rispecchiano trasformate ed elevate a superiori intendimenti morali, nell'ampia contenenza della cultura e dell'arte di quell'oscuro e pur cosí ricco periodo delle origini della nostra vita letteraria e politica.

1 R. FORNACIARI. Il mito delle Furie in Dante. Nella Nuova Antologia, 2a serie, 1879, pagg. 627-656.

Giornale dantesco, anno XXI, quad. I-II.

concordi, che invocano disperatamente l'apparizione di Medusa. Dalla cui potenza pietrificatrice Dante è salvo per l'avvertimento del suo Duca, e il soccorso, giunto a tempo, della mano stessa di Virgilio, che si è distesa innanzi agli occhi del divino Poeta.

Or io non discuto sul perché Dante abbia chiamato Città di Dite questa regione infernale, e se, piú assai che da Ovidio e da Vir

Babylonis di sant'Agostino, ch'è l'antitesi della Civitas Dei. Né del pari mi soffermo sull'altra questione del perché Dante si faccia mostrare soltanto gli Epicurei, questione, a cui si può

Non nego infine che, nell' interpetrazione della Divina Commedia in genere, e della Città di Dite in ispecie, i riferimenti dalla Summa e dalle altre opere di san Tommaso siano cosa utile a schiarimento del testo; ma cercare di rifar Dante su san Tommaso, piú che far servire questo come commento di quello, e ricostruire, su dottrine teologiche e chiesastiche infinitamente astruse ed oscure, edifici di allegorie complesse, di significati riposti, ambi-gilio, ne abbia ricevuto l'idea dalla Civitas gui, incomunicabili ai più, di teorie, direi quasi, meccaniche e matematiche, per la cui intelligenza occorre un considerevole abito mentale alla speculazione filosofica; il voler Dante insomma non com'egli ha voluto realmente effigiarsi nell'opera sua, ma come vogliam noi ch'esso sia, con ricostruzioni, che, a lungo andare, finiscono col mostrarsi quasi piú estetiche del poema stesso di Dante, e piú metafisiche delle dottrine stesse di san Tommaso; tutto questo mi sembra certamente il risultato, non di un'analisi obbiettiva e disinteressata dei disputati luoghi del Poema, ma di una preoccupazione di critici, i quali, immedesimandosi della positura artistica e simbolica delle creazioni dantesche, la giudicano da un punto di vista troppo in verità soggettivo e conforme a un predeterminato disegno mentale.

I.

Riassumiamo brevemente la situazione. Dante e Virgilio, dopo aver attraversato la palude stigia nella barchetta di Flegias, si trovano dinanzi alle porte di Dite, presso alle quali il Poeta vede affollarsi più di mille dal ciel piovuti, che domandano stizzosamente chi sia colui, che senza morte va per lo regno della morta gente. Virgilio parla loro in disparte, ma non riesce a convincerli: d'un tratto essi gli richiudono in faccia le porte, ed egli torna a Dante, a cui fa sperare che presto verrà tale, per cui la terra sarà loro aperta. Nel frattempo, dall'alta torre, coronata di fuoco. emergono, spaventoso prodigio, tre Furie, tinte di sangue, attorte da idre verdissime con le tempie avvolte di serpentelli e di ceraste, e agitantisi in pianto ed in alte grida

1 FILOMUSI-GUELFI. La Città di Dite, le Furie, ecc. in Giorn. dant. XVIII, 1910, pagg. 218-219. A me pare che il Filomusi-Guelfi, cosí in questa, come in altre questioni da lui trattate su luoghi danteschi, incerti, perché resi invero controversi dai vari commentatori, piú ch'essi non siano disposti ad esserlo realmente per la loro intrinseca natura, - voglia sempre con troppa pedantesca sottigliezza sillogizzare, pensando ai due titoli delle due opere di sant'Agostino, per spiegarsi la Città di Dite nella Divina Commedia. Infatti, se la Civitas Babylonis, secondo il suo ragionamento, rappresenta la vita contro la fede, e non l'eterna dannazione, e Dante ha tratto da sant'Agostino la denominazione del cerchio degli eretici, io non so rendermi conto del perché Dante stesso non abbia dato a quel cerchio il nome, di cui fece uso sant'Agostino per l'opera, ch'è l'antitesi della Civitas Dei, bensi l'altro di Città di Dite. Il vero è per me che Dante si è ricordato del famoso passo ovidiano (Metam., IV, 436-38).

qua sit iter, manes, Stygiam qua ducat novique ad [urbem

ignorant, ubi sit nigri fera regia Ditis.

E la Città di Dite del nostro poeta trova senza dubbio i termini corrispondenti nelle due frasi latine stygiam ad urbem e fera regia Ditis. Nessuna meraviglia dunque che da siffatti elementi piuttosto derivi la denominazione dantesca, la quale è in certo modo una letterale traduzione di quelli, e che Dante avesse una cosí sicura familiarità con Ovidio, da richiamarsi con la memoria a quei sí pochi versi, se pensiamo che da Ovidio, oltre che da Virgilio, egli cita, imitando spessissimo, nell'Inferno, personaggi e mitiche avventure, e che da Ovidio è tratta la maggior parte dei nomi di creature leggendarie, cui, su su per le cornici del Purgatorio, gridano altamente o le anime stesse, come esempi del peccato punito, o mistiche voci, trasvolanti a guisa di folgori, nell'aria.

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Il Fornaciari ben a proposito osserva che le Furie, lungo tutta la tradizione poetica pagana, serbano costantemente i caratteri di un significato morale; ed ora sono le ministre della Nemesi degli dei « che vanno in traccia del colpevole, finché non l'hanno fatto cadere nella punizione, e figurano, come attesta Cicerone (pro Roscio, capo 24) i rimorsi della coscienza che straziano l'animo del reo d'un grave delitto; ovvero sono quelle che, senza cessare di eseguire la volontà degli Dei, pur si deliziano di quanto è piú funesto agli uomini, seminano discordie e guerre e gavazzano nel sangue e nelle stragi (Virg., Aen., lib. VII)».

Quanto al Gorgone, il Fornaciari cita il libro XI dell'Odissea, 633 e seg. (dove si parla di Ulisse, il quale discese nell'Averno per parlare con Tiresia, e, dopo aver tenuto colloquio con questo indovino e con altre illustri ombre, avrebbe voluto parlare con Teseo e Piritoo, ma si affrettò a partire, per timore che Proserpina non gli mandasse incontro il terribile capo del Gorgone), e pensa che non è improbabile che Dante abbia conosciuto qualche estratto dell' Odissea, e da esso ricavata l'idea della minaccia fattagli dalle Furie.

La supposizione del Fornaciari non manca di un certo valore di approssimazione al vero e di probabilità, quanto piú si pensi che parecchi nomi si leggono di traduttori di opere greche in latino, le cui versioni, viventi e lette forse ancóra nel medio evo, e a Dante perciò non ignote, sino a noi non pervennero. Ma, comunque ciò sia, non è già sentito oggi da noi assolutamente il bisogno di ricorrere al famoso passo omerico, per spie

1 Cfr. dell'op. cit. la notizia a pag. 119. 2 Cfr. op. cit., pag. 631-32.

garci l'esistenza delle Furie nel IX dell'Inferno, o, meglio, per renderci conto di tutti i particolari della situazione, che secondo il Fornaciari, sarebbe quasi una copia, una ripresa intera dell'episodio d' Ulisse, mutato nel nome, e, leggermente, nella condizione dei personaggi, e riadattato da Dante nell'opera sua. Ché invero molti accenni relativi alle Furie, oltre che in Virgilio e in Omero, troviamo nei poeti latini, di cui è nota la diffusa conoscenza nel medio evo, e da cui sarà, per la nostra questione, di non dubbio vantaggio il citar qualche verso.

Virgilio nel libro VII dell'Eneide, vv. 323 e segg. parla di Aletto, e cosí la dipinge, quando Giunone la invoca dalle tartaree tenebre, perché balzi nelle terre del Lazio e infonda nel petto di Lavinia odio e furore contro Enea e la sua stirpe :

Haec ubi dicta dedit, terras horrenda petivit ; luctificam Alecto dirarum ab sede dearum infernisque ciet tenebris, cui tristia bella iraeque insidiaque et crimina noxia cordi.

E poco piú appresso, al verso 335 sgg., Giunone cosí apostrofa la Furia:

tu potes unanimos armare in proelia fratres
atque odiis versare domos, tu verbera tectis
funereasque inferre faces, tibi nomina mille,
mille nocendi artes, etc.

Nel VI dell'Eneide, v. 570 sgg. Tisifone tormenta con un flagello i colpevoli, e, mentre distende la sinistra, armata di torvi serpenti, chiama ad alta voce la schiera delle inesorande sorelle:

continuo sontis ultrix accincta flagello

Tisiphone quatit insultans torvosque sinistra
intentans anguis vocat agmina saeva sororum.

Pallida è detta la stessa Furia nel III delle Georgiche, vv. 551 sgg.

saevit et in lucem Stygiis emissa tenebris pallida Tisiphone Morbos agit ante Metumque, inque dies avidum surgens caput altius effert.

Nell'Hercules furens di Seneca il grande eroe, fatto demente dall' ira, crede di sentir suonare la sferza della flammifera Erinys, e di aver dinanzi, nei vaneggiamenti febbrili

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