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cogliendo lungo il fiume del Paradiso Terrestre: a rendere eterno Dante basta il trionfo di Maria tra la circolata melodia lucente: basta la sua poesia.

Ma l'allegoria, il simbolismo, l'erudizione non uccidono questa poesia: come l'oro d'un anello acquista maggior prezzo e maggiore bellezza dai minutissimi frammenti di diamante che lo adornano, cosí la grandezza del poema dantesco emerge con piú viva luce dall'intricato ed armonico mosaico del sapere e degli intenti scolastici. Ogni sforzo che noi facciamo per raggiungere la verità nascosta << sotto il velame delli versi strani », ogni mistero che noi scopriamo, è una nuova pietra di marmo prezioso che noi aggiungiamo al piedistallo del poeta: egli sale piú in alto. Da secoli e secoli gli uomini lavorano a rendere intera la costruzione del suo monumento: da secoli le menti si affaticano per penetrare fin dentro alle piú riposte viscere del suo sterminato pensiero, e ancora il monumento non è compiuto, e ancora numerosi tesori sono da mettere in luce.

Guelfi e ghibellini sono morti. Ma nell'animo nostro c'è un' urna di cristallo ove, l'amor della bellezza custodisce la sua luce. Sta nell'eterna eredità di questo intelletto d'amore l'immortalità dei poeti. Oggi noi siamo agitati da nuovi tumulti civili: altre tempeste ci agiteranno domani ma sempre, ogni volta che udiremo il nome di Dante, ci sentiremo percossi da un fremito di religiosa venerazione, e metteremo le mani sul suo libro, guardando in alto, come guarda in alto colui che entra in chiesa, e mette la mano nell'acqua della purificazione.

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PIANTA O PIOTA?

(Paradiso, XVII, 13)

Avvezzi da molto tempo a vedere i critici degli autori classici, perduti dietro ricostruzioni dei testi capricciose le più volte, spesso solo possibili, o al piú probabili, ingegnose tuttavia quasi sempre e seducenti, respirammo, quando la giustissima opposizione fu fatta: « Noi non vogliamo, con la critica, sapere quel che uno scrittore avrebbe potuto o dovuto scrivere, per essere, a modo nostro, più elegante o piú vigoroso. Cerchiamo solo che cosa egli abbia scritto ». <<< Masi soggiungeva che cosa un autore abbia scritto, solo dai testi, ossia codici, può apparire ». « Dunque (la conclusione) dobbiamo stare ai codici ».

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Del quale ragionamento la seconda proposizione è vera, cosí intesa : « Che cosa un autore abbia scritto può solo dai testi, o codici, apparire, quando i testi non siano falsi testimonî ». Perché, lasciando stare che all'autore stesso furon possibili lapsus calami, che i copisti dovevano caritativamente emendare, e trascrissero, invece, com'erano, spessissimo un codice o testo dissona dall'altro, et non est conveniens testimonium illorum; e il principio che l'arte critica dà in questi casi : « Preferir la lezione più difficile », affibbierebbe, a dargli retta, al piú eletto fra gli scrittori chi sa quanti strafalcioni, che copisti o frettolosi, o corti, o mal disposti, o distratti, hanno, volontarii o no, inserito nel testo. Copiare (se non forse per i plagiarii) è noioso, in specie a chi lo faccia di mestiere, perché non è cosa che all'uomo pesi quanto il suo mestiere. Persona annoiata, presto distratta.

Non son novità queste le sanno pure le pentole di cucina; pure, ecco un passo di Dante a mostrare come non sempre ne sia tenuto debito conto.

Dante trova in Paradiso, nel cielo di Marte, Cacciaguida, suo trisavolo, che fu in terra cinto cavaliere da Currado d'Alemagna, e morí, crociato, per la fede; e quanto se ne rallegri, quanto se ne glori dice egli stesso; chiama Cacciaguida « mio tesoro », « amor paterno »>, « vivo topazio, che questa gioia preziosa ingemmi », e dedica a lui i canti quindici, sedici, diciassette, e parte del diciotto. Né minor gioia prova Cacciaguida di veder il suo Dante; si congratula con lui, ringrazia la Deità cosí cortese verso la sua discendenza, vuole, benché ne veda in Dio pensieri e desiderî, udir sonare la cara voce di lui, gli dice d'essersi, nell'attesa di lui, compiaciuto :

O fronda mia, in che io compiacemmi,
pure aspettando, io fui la tua radice. 1

1 Par., XV, 88.

Si rallegra, dunque, Cacciaguida, con celeste umiltà, d'esser stato la nascosa radice dell'albero (genealogico) di cui Dante è fronda. Fronda, badate, non foglia; ché c'è differenza, e non poca, tra le due voci. « Fronda (dice il Tommaseo nel Dizionario dei Sinonimi, al No 3714) piú comunemente d'albero, di virgulto, o di pianta con rami; non d'erbaggi o di fiori. Foglia e di questi e di quelli; perché frons dei Latini era ramoscello o virgulto con foglie, e folium la foglia sola. Onde il Boccaccio: Colse due fronde, e d'esse una ghirlanda si facea (Ninfale). E Dante : sotto la fronda nova sedersi in su la sua radice - dove fronda indica l'intera ombra dell'albero rinfronzito ». E cita il Grassi. Ma Dante anche altrove mostra intender fronda come parte d'albero del giunco alla marina del purgatorio : Null'altra pianta, che facesse fronda

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o che indurasse, vi puote aver vita....

e il giunco ha pur foglie, e Catone vuol che Vergilio ricinga Dante « d'un giunco schietto » ossia brucato. Degli strani alberi d'inferno, in cui rincorporano l'anime de' suicidi :

Non frondi verdi, ma di color fosco;

e il suicida fiorentino parla di fronde da lui disgiunte, che Dante poi rauna (le fronde sparte) e gli rende. E Caccia d'Asciano disperse nelle brigate spenderecce « la vigna e la gran fronda », vigneti e boschi; e dovrebbe rallegrar Apollo

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A questo sí cortese indirizzo di Cacciaguida, Dante, che parla in Paradiso d'« infiammata cortesía », che suole, con nobil garbo, render alle gentili piú gentili parole, risponderebbe (Par., XVII, 13 sgg.), secondo il testo oggi seguito dai piú:

O cara piota mia, che si t'insusi,

che, come veggion le terrene menti
non capére in triangolo due ottusi,
cosí vedi le cose contingenti,

anzi che siano in sé, mirando il Punto
a cui tutti li tempi son presenti....

cioè: «o mia cara pianta del piede » (Inf., XIX, 120), ovvero: «o mia cara zolla di terra er bosa » oppure « o mia cara terra lasciata intorno alle barbe d'ulivo o d'altra pianta, per trapiantarla ».

Questi tre, e non altri, sono i significati che di piota si dànno, con abbondanti citazioni, nel Dizionario del Tommaeo; gli stessi che nel Novo Dizionario Universale della Lingua Italiana di P. Petrocchi. Di piota per albero, pianta neppure un esempio nella letteratura del trecento: «< Non m'è avvenuto mai di trovar in antichi testi (m' ha risposto un competentissimo) piota in senso di "pianta, albero "», ed ha aggiunto « pel senso di lastra di sasso veda Bull. Società Dantesca, XIV, 226 » alludendo a poesie dialettali, dove si parla della lastra o lapide del Sepolcro di Cristo. Del resto, la probabile etimologia di piota da plauta (cfr. PLAUTUS, dal piede piatto) spiega tutti gli addotti significati, non quello di albero o pianta. A noi ora: Non aveva Dante miglior paragone? Come da fronda d'albero, torna a piede o zolla con erba? Ma, molto maggiore appare la sconvenienza, quando si legge subito dopo che questa pianta di piede o zolla erbosa tanto ascende in su, tanto s'estolle, da toccare gli arcani di Dio :

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O cara piota mia, che si t'insusi

che ecc.

Volete supporre Dante abbia commesso questa violenza di pensiero, che a pena cape in mente a noi, per quanto desiderosi di trovarla naturale, parlando al suo caro trisavolo, a principio di verso per giunta, fuor delle necessità della rima?

Eppure altri codici hanno pianta in luogo di piota, che è immagine bellissima, e dal poeta altrove usata. Ma.... e i principi della critica? Lectio difficilior semper est praeferenda, signor mio. Cosí, di fatto, lo Scartazzini applica questo principio nel Commento Lipsiense: « Preferiremmo la lezione pianta che è la comune, ed è confortata da ottimi codici. Ma non pare probabile che gli amanuensi cambiassero il notissimo pianta nel men comune e men noto piota. Piú probabile viceversa. Quindi piota dovrà ritenersi lezione genuina ». E il Viviani: « Il non picciol numero di testi in cui si legge piota, mi fece fermar col pensiero su questo vocabolo, men bello certo in apparenza di pianta, lezione comune. Vedo che presso i Toscani piota significa non solo pianta del piede, ma eziandio zolla di terra che abbia seco l'erba, il di cui corrispondente è caespes. Figuratamente dunque dice Dante o cara piota mia, o caro cespo della mia famiglia ».

Ai quali noi con Dante:

O buon principio,

a che vil fine convien che tu caschi !

Povero principio di critica, che, applicato male, ha regalato a Dante un sacco di scempiaggini ! Non sanno i critici che nei manoscritti gli n e gli m, spesso, per brevità si tralasciano, tracciando, or sí or no, un segnino in alto al posto loro? Ne vogliono una prova, proprio nei manoscritti della Commedia ? Eccola.

Altri manoscritti :

O anima cortese mantovana,

di cui la fama ancor nel mondo dura,

e durerà, quanto il mondo, lontana,...

e durerà, quanto il moto, lontana,...

Come Ecco: nell'originale era scritto:

e durerà, quanto il modo, lontana....

dove alcuno, sottintendendo l'n, lesse bene, altri, senza n non raccapezzandocisi, corresse modo in moto, che è concetto possibile.

Nel nostro luogo, idem; era scritto:

O cara piata mia, che sí t' insusi,

ed alcuni lesser bene pianta, altri, cosí com'è scritto non comprendendo, corressero piata in altra parola già usata da Dante: piota.

Non è cosí ?

Né in Dante è nuovo il concetto di radice e pianta nelle generazioni umane :

Io fui radice della mala pianta,

che la terra cristiana tutta aduggia,

sí che buon frutto rado se ne schianta

1

ha già detto Ugo Capeto di sé stesso. E chi non ricorda le melanconiche parole di Sordello:

Rade volte risurge per li rami
l'umana probitade?

1 Purg., XX, 43. Dove si noti che in Dante pianta vuol dir albero, (non erba), come, del resto in Par., XXIV, 110 sg.; Purg., XXIII, 62, XXXII, 52, 59 sg., XXXIII, 56; nell' Inferno gli alberi dei suicidi son detti piante:

Qualche fraschetta d'una d'este piante.

Anzi, i beati in cielo son già stati detti dal Poeta piante (Par., XII, 95):

licenzia di combatter per le seme

del qual ti fascian ventiquattro piante,

che sono i ventiquattro dottori attorno a Dante nel quarto cielo.

Disse dunque Dante:

O cara pianta mia, che si t'insusi,

sia per esaltare l'umiltà di chi s'era chiamato radice nascosta sotterra, sia perché Cacciaguida era asceso, come albero si leva al cielo, fino agli arcani di Dio.

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