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NEGLI ULTIMI ANNI DI DANTE

Il recente studio di G. Biscaro, sebbene intitolato Dante a Ravenna, è una storia, ricca d' informazioni, di tutte quelle vicende in mezzo alle quali il Poeta si trovò, più o meno direttamente travolto, dal 1317 in poi. Punto di partenza di tutto il lavoro è una vaga ipotesi del Cipolla. << È un fatto che desta meraviglia - scriveva il compianto storico il vedere che nei suoi ultimi anni l'Alighieri preferisce la corte del da Polenta a quella degli Scaligeri. Se l'operetta De aqua et terra è autentica, di sfuggita ritornò Dante a Verona nel 1320, ma non trovò presso colui di cui furono mirabili le opere in guerra, i conforti di un tempo. Può chiedersi se la fierezza ghibellina dell'atteggiamento assunto dallo Scaligero abbia provocato il disgusto dello sdegnoso poeta ». 2 Ma il Biscaro, dopo aver ricostruito con severa conoscenza di dați e diligente esplorazione di fonti, la storia dei processi con cui Giovanni XXII intese punire Matteo Visconti, Cangrande della Scala, e Passarino dei Bonacolsi, che osavano ancora arrogarsi i titoli di vicari imperiali, malgrado che Innocenzo III avesse sancito che, morto l'imperatore, potestatem et iurisdictionem talem exercet, dignitate vacante, ille a quo istud habebat, cioè il pontefice; vaga ipotesi. È da principio cosí concorde l'atteggiamento dei tre signori al cospetto delle minacce papali e dei legati pontificî, da far pensare ad un comune ordine d' idee « svilup pate da alcuni personaggi, fiduciarî di Cangrande e di Passarino » (pag. 10). E poiché le

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1 G. BISCARO, Dante a Ravenna (Bull. dell'Istituto storico it.. N. 41, pag. 1-142).

2 C. CIPOLLA, Lettere di Giovanni XXII riguardanti Verona e gli Scaligeri, Verona, 1907; vedi anche del CIPOLLA in Giorn. stor. d. lett. it., t. 53, pag. 365.

idee non potevano essere che quelle della Monarchia, chi vieta di pensare che nel novero dei consultori sia stato l'Alighieri, e che il famoso trattato dantesco « sia stato scritto dopo la costituzione del 31 marzo 1317, per offrire a Cangrande e a Passarino, in una breve e chiara. sintesi, l'idea madre alla quale avrebbero dovuto ispirarsi nel loro atteggiamento di deciso diniego?» Tutto è possibile pensare e dire; ma troppo solide sono le ragioni di quanti ripor tano la composizione, se non la genesi, del trattato a quegli anni in cui l'animo di Dante vide sorgere, come una promessa radiosa per l'avvenire e come una rivendicazione fatale del passato, l'astro d'Arrigo. La Monarchia è, << nel tempo stesso, la teoria, la profezia, l'utopia dell' impresa imperiale d'Arrigo VII ». 2 Su che cosa basa invece la sua ipotesi il Biscaro? In una probabile concomitanza d'idee, tra gli atti dei vicari imperiali e gli argomenti della Monarchia. Ma un trattato scritto per convalidare la sovranità di quel signore, da cui essi avevano attinto autorità di vicarî, mentre erano impegnati in una lotta contro un pontefice, il quale ribadiva il motto d' Innocenzo III imperator

Per un'ampia esposizione della questione rimando una volta per sempre, all'opera di N. VIANELLO. Il trattato della Monarchia di Dante A. Genova, 1921, pag. 1921, pag. 47-51, ove si leggerà anche un'ampia ed esauriente bibliografia.

2 Vedi PARODI, La Monarchia nel Dante (Sua vita, Sue opere, ecc. ecc.) edito dal Treves, pag. 89. Del Parodi oltre gli scritti che verremo espressamente citando, si vedano a tale proposito La data della composizione e le teorie politiche dell' Impero in Poesia e storia nella « Divina Commedia », Napoli, Perrella, 1921, rispettivament e apag. 365 e sgg., 513 e sgg.; ed anche del Concetto dell'Impero in Dante e del suo averroismo, in Bull. d. Soc. dant. italiana, vol. XXVI, f. 4. N. S.

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ab Ecclesia recipit gladii potestatem et imperiales infulas non poteva essere ignorato né da Cangrande, né dagli altri, specialmente quando Dante era ospite dello Scaligero a Verona. In tutti i modi, per rinunciare alle solide ragioni di quanti riportano la composizione della Monarchia all' impresa d'Arrigo VII, è necessario la convinzione di argomenti sicuri, altrettanto fondati, non già la possibilità di una congettura tanto vaga ed incerta. Tuttavia l'ipotesi non è nuova, ma dovrebbe essere come dire? rinnovata, ringiovanita, ribadita dagli argomenti del B. Fu il Prof. Grauert ad opinare che il trattato iniziato nel 1302, dopo la bolla bonifaziana Unam sanctam, sia stato ripreso e compiuto verso il 1317, in seguito alla bolla In nostram et fratrum di Giovanni XXII. Tale congettura, cui fece buon viso V. Cian, fu portata alle sue estreme conseguenze dal Kraus e da N. Zingarelli, il quale ultimo anzi pensò, addirittura, che il trattato possa essere stato composto dopo il 1318, presso la corte di Cangrande della Scala. « Quando Ludovico il Bavaro si apprestò a discendere in Italia non come messo del Pontefice, ma vindice dell' Impero, allora parole dello Zingarelli ! ci dicono il Boccaccio ed altri, e questi lo potevan sapere, fu letta e discussa e celebrata la Monarchia e con ciò non s'esumava un'opera di altri tempi, inspirata da condizioni differenti, ma si citava l'ultima, la più fresca, scritta appunto quando, eletto Ludovico il Bavaro, era impedito dall'arroganza papale ». 3 Sorge, qui, spontanea una domanda: Poteva considerarsi vecchia un'opera scritta qualche anno prima, durante un'impresa di cui ancora vivo era il ricordo e la dolorosa esperienza, in tutti i ghibellini che sentivano ancora presenti quelle stesse

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1 HERMAN GRAUERT, Dante und die Idee des Weltfriedens, München, 1909. Per questa, come per l'opera del KAMPERS, Dantes Kaisertraum, Breslau, R. P. Aderholz Buchhandlung, 1908, vedi le sagaci osservazioni del PARODI nell'articolo Sulla data del de Monarchia e contro l'identificazione del Veltro (Bull. d. Soc. Dant. Ital. N. S., vol. XVI, pag. 285296). Vedi anche A. D'ANCONA, Sulla data di composizione del De Mon.' in Scritti Danteschi, Firenze, Sansoni, pag. 360.

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condizioni ideali, quella stessa temperie di odî, di difficoltà, quello stesso peso d'argomenti branditi dalle autorità pontificali nei primi tre lustri del secolo?

E poi non ha ora dimostrato il Biscaro, nel suo diligente lavoro, che gli argomenti con cui Giovanni XXII cercava di annientare le pretese dei vicari imperiali erano quelli stessi addotti dai suoi predecessori, che, come Bonifazio VIII e Clemente V, avevano agitato la stessa questione: indizio, quindi, d'identiche condizioni spirituali, che confermavano direi con una brutta parola l'attualità del trattato dantesco? Ma non è questo il solo argomento di N. Zingarelli. Egli, a pag. 426, cosí ribatte la data tradizionale: « Secondo il Boccaccio la Monarchia fu scritta proprio nella venuta di Enrico VII; ma non è possibile prima dell'estate 1312, perché sarebbe stato un metter legna al fuoco discutere di un conflitto o inesistente o che non voleva parere; né è un'opera improvvisata, ma di lunga e profonda meditazione, oltre a ricerche e studi e citazioni continue di autori ». I problemi trattati nella Monarchia, però, non erano scaturiti dall'impresa d'Arrigo: erano vivi nelle coscienze, prima ancora che Uberto da Milano cosí avesse apostrofato Federigo Barbarossa : « Tua voluntas jus est.... Quod principi placuit, legis habet vigorem »; prima ancora che Bartolo da Sassoferrato avesse chiamato ancora peccatore, anzi eretico, chiunque osi contrapporsi alla vo lontà d'un imperatore. Era l'antica questione delle supremazie ecclesiastiche ed imperiali, cui s'erano abbandonati decretalisti e giuristi nel medioevo, e che s'era audacemente affermata, oltre che nelle asserzioni di Gregorio ed Innocenzo, nella dialettica di Egidio romano, che aveva scritto: « totum spectat ad Ecclesiam tam jus utile quam potestativum: tamen quod ad jus potestativum, quod est judicium sanguinis, numquam exercebit Ecclesia per se ipsam, sed per laicam personam ».1

Tali problemi, oltre che dagli avvenimenti, come vedremo, gli venivano suscitati nella mente e precisati da una letteratura anteriore, che, certo, Dante non avrà ignorata. Nessun dubbio ch'egli abbia conosciuto il De regimine principum di S. Tommaso, e l'opera affine di

1 Vedi Tocco, De Ecclesiastica potestate di E. Colonna. « Bull. dant., » XVII, 104.

Egidio Colonna, di cui è lecito supporre non gli sia sfuggito il De potestate ecclesiastica, scritto tra il 1280 ed il 1316. Ai problemi pedagogici, ventilati con qualche barlume di buon senso, nel De regimine principum di Egidio, Dante accenna esplicitamente nel paragrafo 24 del IV libro del Convivio.

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Non vi sono elementi per sostenere che Dante possa aver letto quei libelli agili, freschi, aggressivi, scaturiti piuttosto dalla realtà, dal fervore della polemica, e dalla discussione che dall'astrazione dottrinale; opere che attingevano il loro vigore polemico da una saria reazione alle bolle di Bonifazio: tale la Disputatio super potestate praelatis ecclesiae atque principibus terrarum commissa; Quaestio de potestate papae; Quaestio in utramque partem pro et contra pontificiam potestatem, scritte quasi tutte verso il 1303. Ma conobbe certo, sebbene in parte se ne sia allontanato ed in parte vi abbia attinto spunti polemici e vigore di argomenti, il De potestate regia et papali. Erano queste tutte opere che, se anche egli non lesse, sentí alitare nell'aria, in quelle secrete discussioni, in quelle pubbliche arringhe, in quel cotidiano esercizio di politica militante che, in Firenze e fuori, seppero suscitare, negli animi di tutti, gli atteggiamenti politici di Bonifazio VIII.

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Il caso, poi, di Lapo Salterelli era tuttora vivo e presente nell'animo dei fiorentini bianchi. Queste correnti d'idee, dunque, si frangevano piú che mai, attorno alla bolla « Unam sanctam » in cui si concretava, con terribile evidenza, la ferrea e risoluta politica di papa Gaetani, e acquistarono, quasi, sapore di attualità tra le mura della guelfa Firenze, allorché il pontefice, nel 1301 Dante era nel fervore della sua attività politica avanzava le

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1 Sulle fonti della Monarchia, vedi il volumetto di V. SANSONE, Le fonti del d. M., Palermo, Micale, 1910.

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2 Vedi I. DEL LUNGO, Da Bonifacio VIII ad Arrigo VII, Milano, Hoepli, 1899 - che ci duole di non poter citare nella recente ristampa. E, per quel fervore di attività politica e di vita che alitava in Firenze in questo periodo, vedi anche L. DAMI e BARBADORO, Firenze di Dante, Alinari, Firenze; BARBADORO, La condanna di Dante in Studi Danteschi diretti da M. Barbi, Firenze, Sansoni, vol. II, ed E. PISTELLI, Per la Firenze di Dante, Firenze, Sansoni, 1922. Sempre fondamentali, si capisce, le opere del DAVIDSOHN e del VILLARI.

sue pretese contro la persona di Lapo Salterelli. E allorché la schiera dei giuristi francesi, quali Guglielmo di Nogaret, Pietro Dubois, e Fra Giovanni di Parigi sorsero a difendere le prerogative regali di Filippo il Bello, quanti motivi di amare meditazioni nell' animo di Dante !

Un pontefice aveva riaffermata la sua autorità al disopra e contro quella dell'imperatore? Si definiscano, con tranquilla fede non ottenebrata da preconcetti politici ed ambizioni terrene, i limiti dell'autorità imperiale, senza pregiudicare i diritti del pontificato! Si voleva, ora, con la concezione e l'attuazione di una politica, non giustificata nè dalla grazia nè dalla ragione, soppiantare l'autorità del Vicario di Cristo? Si riaffermino i diritti del Pontefice, senza pregiudicare la dignità dell' imperatore, non ancora menomata dalla insufficienza degli investiti e dalla malvagità dei sudditi! Chi osava violare la sacra autorità di colui, che, volere o no, era il Vicario di Cristo? « L'ardita impresa, aborrita da Dante come cristiano e come italiano, perché offendeva il sommo sacerdozio e insieme la romanità della Chiesa, è adombrata negli ultimi canti del Purgatorio, là dove il Poeta vede la Chiesa militante già tramutata in mostro a causa del peccato, divenir preda del Re di Francia; raffigurati essa in una meretrice, egli in un gigante, che agli adulteri abbracciamenti fa seguire i duri flagelli, traendola poi seco nella selva e nascondendola agli occhi dei fedeli ». E quanta riprovazione di cristiano e quanto ossequio all'autorità pontificale si accolgano nelle terzine del XX canto del Purgatorio, ha già sagacemente messo in evidenza il Fedele, in uno studio recente, perché si debba ancora sentire il bisogno di rilevarle. 2

In tale successione di vicende che Dante seguì, con occhio vigile e cuore trepidante, si deve ricercare l'elaborazione prima, la genesi lontana di quella concezione sulle due somme autorità, che si vennero sistemando, con l'incertezza di chi ancora non domina il problema, nel Convivio! Ben numerose, quindi, le occasioni e le circostanze da cui Dante derivò ar

1 Vedi D'ANCONA, Il' De Monarchia' in Scritti danteschi, pag. 332.

2 P. FEDELE, Per la storia dell'attentato d'Anagni in Boll. dell' Ist. Storico It. N. 41.

gomenti, attinse motivi di studio e di riflessione, prima che nel 1310-13, venisse concretando le sue idealità politiche e religiose nell'organica struttura della Monarchia. Certo indizio ch'egli pensasse queste cose prima ancora del 1308, e cercasse, in qualche modo, di affrancare l'autorità imperiale dall'esigenze dei decretalisti e dei guelfi, è il noto passo del Convivio. Senonché è provato oggi da E. G. Parodi malche

grado le riserve di qualche erudito1-tra la concezione del Convivio e quella del Monarchia corra una sensibile divergenza di tono. Nel trattato volgare (Conv., IV, 4), il Poeta scrive: «Lo fondamento radicale della imperiale maestà, secondo il vero, è la necessità della umana civiltà, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice». Cioè il fondamento dell' Impero risiede in quell'attuazione collettiva del l'intelletto umano, in cui consiste la sua beatitudine; e che, per preservarla dalla pericolosa invadenza delle basse passioni dilagate dopo il primo peccato [qui Dante si allontana dalla filosofia scolastica per attenersi alla vecchia concezione patristica!] ha bisogno di essere guidato per philosophica documenta » — cioè mediante la ragione dall' imperatore. Non occorre rilevare che, nel giro di poche parolę, si trova il germe da cui dovrà rampollare la Monarchia. Tuttavia non si può supporre che questa concezione sia scaturita dall'organismo del trattato politico, che potrebbe essere stato composto, secondo alcuni, nei primissimi anni del sec. XIV. Vi sono nel Convivio troppo piccole o sostanziali sfumature di pensiero, diver genti dalla teoria dantesca della Monarchia, da far ritenere che il pensiero del Poeta non aveva ancora approfondito quella lunga e serena meditazione, che al contatto tragico della realtà assumerà la coerenza e l'esclusivismo delle grandi convinzioni. Nessuno sforzo di logica potrà negare, per esempio, che questo passo del Convivio: « l'Impero nella sua determinazione storica di Impero romano fu direttamente voluto da Dio, perché volle che Roma e l'Impero fossero stabiliti a ricevere i rappresentanti di Cristo » non sia in evidente e netta

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contraddizione con quest'affermazione della Monarchia (III, 12) « Ecclesia non existente aut non virtuante, Imperium habuit totam suam virtutem». E se anche si vuole, col Nardi, ritenere che tracce di questa missione assegnata da Dio all' Impero romano non manchino nella Monarchia, il passo addotto a provare tale asserzione, opportunamente meditato, contiene in sé gli elementi necessari per avvalorare la tesi del Parodi. « Rationibus omnibus supra positis, experientia memorabilis attestatur; status vidilicet illius mortalium, quem Dei filius in salutem hominis hominem adsunturus vel expectavit vel quum voluit ipse disposuit », stato, dunque, ch'egli o aspettò o dispose ecc. ecc., dice Dante nella Monarchia, con due parole che tradiscono quanto lontano egli fosse dalla rigida affermazione del Convivio Cristo attese? Allora la sua volontà si mantenne estranea e lontana dal determinare, come vuole il trattato filosofico, quello stato di universale benessere, in cui s'era adagiata l'età d'Augusto. Cristo disposuit? Ma se l'Impero è frutto di un'attività tutta razionale e umana, avulsa da ogni determinazione trascendentale, Cristo quando disposuit, non deve aver fatto altro che applicare, a vantaggio particolare della sua missione, un' istituzione che attingeva altrove le ragioni delle sua esistenza. E chi non sente poi l'efficacia limitativa di tutta la frase, « quum voluit disposuit»? Ed ogni concetto di subordinazione tra autorità pontificale ed imperiale, che, a voler dir lo vero, affiora nel Convivio, eccolo scomparso, anzi efficacemente negato, nella epistola ai signori d'Italia, che è indubbiamente parallela alla Monarchia e ne riflette la concezione fondamentale : « Quod si pertinax animus poscit ulterius, nondum annuens veritati, verba Christi examinet etiam iam ligati; cui quum potestatem suam Pilatus obiceret, lux nostra de sursum esse asseruit, quod ille iactabat qui Caesaris ibi auctoritate vicaria gerebat officium. «Non igitur ambuletis, sicut et gentes ambulant in vanitate sensus tenebris obscurati; sed aperite oculos mentis vestrae, ac videte quoniam regem nobis caeli et terrae Dominus ordinavit ». Autorità, dunque, che piove, senza la mediazione del pontefice, da Dio agli uomini, perché possano godere

Le opere di Dante, Testo critico della Società dantesca italiana, pag. 422, § 10.

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Tali questioni, dunque, scaturite e dibattute nell'animo di Dante fin dai primi anni del secolo XIV, o concretatesi, con qualche approssimativa precisione nelle pagine del Convivio, non avevano ancora raggiunta la loro definitiva compiutezza d'impostazione e di risoluzione nel 1308 e nel 1310. Scrivendo il primo Canto del l'Inferno, per Dante, Roma e l'Impero romano, a voler dir lo vero, fur stabiliti per lo loco santo | u' siede il successor del maggior Piero: versi nei quali si sente, come ha avvertito acutamente il Parodi, l'eco del Convivio, e una sensibile divergenza con gli argomenti della Monarchia. Ma l'animo e la mente di Dante, come Anteo dalla terra, acquistavano forza e vigore da quella fortunosa realtà, in mezzo alla quale il Poeta visse, non soltanto osservando, ma militando, accarezzato dal barlume della speranza o esacerbato dalle amarezze della delusione. Al contatto della realtà, le sue idee acquista vano vigore di nuovi argomenti, la luce ed il calore di piú intima commozione e convinzione; si irrobustivano, precisavano ed inquadravano nella sua mente, con piú illuminata chiarezza e piú sicura precisione. Chi non ricorda, a tal uopo, le belle parole dettate dal povero Gorra, in un articolo di cui, se non può accogliersi la tesi generale, non può non ammirarsi la freschezza ed efficacia di alcune osservazioni? 2

Prima ancora del 1317, avvenimenti di piú alta importanza commossero l'animo del Poeta, perché dalla venuta di Arrigo VII egli non si riprometteva soltanto la fine di una vita randagia, lungi dal bell'ovile, ma l'attuazione di una idealità vagheggiata, da circa dieci anni, maturata all'esperienza degli studi e del dolore.

Per lo svolgimento logico e la maturazione etica del pensiero di Dante, vedi ERCOLE, Le tre fasi del pensiero politico di Dante (in Supplemento, N. 19-21 al Giorn. stor. d. lett. ital.), Per la Genesi del pensiero politico di Dante. La base aristotelica-tomistica (in Giorn. stor. d. lett. ital., vol. LXXI) Medioevo e Rinascimento nella dottrina politica di Dante (Giornale Dantesco, vol. XXIV, pag. 141) · Dante e Machiavelli (Quaderni di Politica, N. 2).

2 E. GORRA, Dante e Clemente V (in Giornale stor. d. lett. it. A. 1917, pag. 93).

Al contatto di un avvenimento così solenne, le sue idee, cosí flebilmente ed incompiutamente elaborate nella prosa del Convivio, attinsero nuova luce, nuovo vigore, piú luminosa evidenza di particolari, piú precisa determinazione, più sicura efficacia di argomenti: sono quelle che troviamo nella Monarchia, quelle che pullulano, con fervida commozione, malgrado la solennità biblica e il colore apoca. littico, nelle tre epistole politiche. Durante l'impresa d'Arrigo, se la Monarchia non era nella carta, certo era tutta ben inquadrata ed atteggiata, con la compiutezza delle sue determinazioni, nella mente di Dante: l'ideale di tanti anni s'era atteggiato nella sua forma definitiva! È ancora meditazione serena, visione sicura di chi segue con vigile fiducia la realtà, di chi sa che le sue idee trovano la piú armonica attuazione nella vita circostante, nella politica conciliativa di un pontefice, e nella ossequente ma sicura affermazione d'un imperatore non ha, perciò, nelle prime parti, né so vedervela malgrado gli sforzi in contrario diqualche critico concitazione polemica, né violenti invettive, che risuonano, invece, con tanta veemente amarezza, nelle lettere ai Fiorentini ed all' Imperatore. Ma queste furono scritte dopo la terribile delusione del '12, quando si delineava, nella sua cruda realtà il tradimento del Guasco; mentre quella è l'opera scritta in gran parte da chi guarda fidente la realtà. Perciò credo facile accordarsi col Chiappelli che ritiene il trattato composto dopo la famosa lettera con cui il Re di Napoli aveva inviato i suoi ambasciatori presso il Papa in Avignone, per esortare Clemente V ad una politica ostile all' Imperatore. E poiché tale lettera è senza data, mentre il Kampers la ritiene scritta tra il 7 e 15 agosto del 1312, il Chiappelli accoglie l'ipotesi del Gregorovius, per collocarla tra il 27 gennaio ed il 26 aprile del 1313. Il trattato, sempre secondo il Chiappelli, uscí alla luce nella seconda metà del 1313 o nel principio del 1314, e meritò al Poeta la conferma della condanna del 6 novembre del 1315 e l'esclusione dall'amnistia del 1316.

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La Monarchia non può essere stata pensata e composta che nella prima fase dell' impresa

1 BONAINI, Acta Henrici VII, Pars I, pag. 42 e segg.

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