composizioni del Petrarca. Aldo pose primo quella giunta, ma si pentì poscia d'aver voluto quello che non volle il Poeta, cioè che quelle cose vedessero la luce, alle quali egli rifiutò quest'onore. Io non m' ho voluto esporre a questo inutile pentimento; e così fatto hanno altri, e così ultimamente il professore Marsand, e n'è stato lodato. Ma non m'è parso dover seguitare l'ordine da lui posto, dietro l'esempio d'altre antiche edizioni, che divide il Canzoniere in quattro parti, riponendo nella prima le rime in Vita di Laura; quelle in Morte, nella seconda ; i Trionfi, nella terza ; i Sonetti e le composizioni sopra vari argomenti, nella quarta; perciocchè (lasciando stare che non si ripara per quest'ordin nuovo al disordine dei tempi) viene per così fatto ordinamento a rompersi, non dico la monotonia, che non v'è ombra nell'opera intera, ma certa apparente uniforme temperatura, la quale, agli orecchi di chi non vede più là che la scorza, pare monotonia; e quelle cose sopra vari argomenti scritte, altre mentre Laura viveva, altre ch'era morta, sono ritraenti di quel colore e tempera d'affetti, ond'era massimamente l'anima del Poeta passionata. E perchè l'animo di chi legge s'atteggi con quello del Poeta, e secondo gli affetti di lui si figuri, vuolsi aver l'animo ai tempi, ai luoghi, e ad ogni altro accidente che le cose si raggirano. Somma cura e diligenza s'è posta nella correzione delle stampe, e massime nel notare e dividere cogli opportuni segni le intrecciate sentenze, onde riceve la scrittura tanta chiarità e splendore; nel quale lavoro m' è stato di grande aiuto l'opera e lo zelo d'un mio carissimo amico, ch'è il sig. Bianchi, uomo di sicuro giudicio, intendentissimo, e di molta erudizione; segretario intimo di S. E. il signor conte Corvetto, antico e benemerito ministro in Francia, regnante il sapientissimoRe, Luigi XVIII. E debbo ricordare con lode il sig. Cailliou, studiosissimo dei nostri antichi, e così mio affezionato; e in fine il sig. Dondey-Dupré il giovine, il quale, per pratica delle cose nostre, in quello che spetta all'arte sua, non ha, pare a me, chi lo possa soverchiare fra gli stampatori d'Italia. In fine, se avvenga che questo mio lavoro sia per essere d'alcun utile o diletto agl' imparanti, n'hanno a essere conoscenti in prima al valorosissimo sig. cav. Alberto de Lencquesaing, signore, per virtù, cortesia e sapienza, tale ch'io non conobbi mai di lui maggiore; siccome per quante altre pellegrine doti e cari pregi sovrapponsi l'uomo all'uomo; per lo cui consiglio e stimolo, posto in non cale ogni altra cosa e me, senza pur pensare s'io fossi o no, da tanto, posi inano a così lunga e penosa fatica; tanto desiderio m'accende di compiacere a quel mio signore ed amico. 9 Abbreviazioni da notarsi da chi legge il Comento. 1. 2. T. I. T. 2. St. 1. ec. Alf. n. È n. da Alf. Quartina prima. Si nota da Alfieri. che vuol dire che Alfieri ricopiò e ripose nel suo estratto quella lettera, formula, modo o sentenza che s'accenna. STORICO E LETTERARIO. QUART. SONETTO I. UART. 1. Alf. n. O serva il presente sonetto, come vuolsi dal generale, di proemio all'opera, o, come giudica il Tassoni, non abbia questo riguardo, nulla monta; e non è perciò da biasimare chi, raccogliendo prima in un corpo le rime del gran Lirico, il pose in fronte dell'opera, avendovi per avventura più convenevol luogo che altrove. Il suono; per essere indivisibile dalla parola, che il concetto dischiude. Leggo nelle critiche del Tassoni che il Bembo ricercando perchè il Petrarca avea scritto il primo verso così, piuttosto che voi ch' in rime ascoltate sparse il suono, riservò per ultima la più considerabile ragione, cioè, per usare il parlare ordinato e regolato, come naturalmente parlando bene si fa. Grande inganno si è questo del Bembo e del Tassoni di credere che sia parlar più naturale quello che ordinato e regolato procede, di quel che, da alcuna passione spirato, con ordine perturbato si dispiega. Ne meno s'inganna il Bembo, applicando al presente luogo quel suo erroneo principio, percioc che due sono, al mio giudicio, e ben diverse da ciò ch'egli dice, le ragioni per le quali un così fatto ordinamento non si poté ne pur affacciare al pensiero del Poeta; siccome fu questo il solo che di botto gli si offerse. La primiera, è maggiore, si è che se avesse scritto voi ch' in rime ascoltate sparse il suono, farebbe credere a chi legge che la parte più premente del concetto ch'egli esprime si è l'idea, subalterna, accessoria, di niun conto appetto alla maggiore, chiusa nella parola sparse; e la seconda ragione si è che dalle parole così fattamente intrecciate risulterebbe un verso tale, che non farei un tombolo su l'erba per farne cento su Petrarca del Biagioli I d'un piede. Di quei sospiri, vale a dire delle parole esprimenti quei sospiri. Ond' io nudriva il core; perocchè dice altrove: pasco il cor di sospir ch'altro non chiede. Onde ne fa intendere che senza quello sfogo del cuore, di dolore impregnato, e' sarebbe morto. In sul mio primo, ec. Il tempo è misurato dallo spazio che lo comprende, però come dicesi in su la terra, per lo cielo, cc.; cosi, in sul farsi sera, per due ore, ec. Chiama con grazieso dire primo giovenile errore, primo errore di gioventù, il suo innamoramento di Laura, al qual tempo ne rimena, siccome alla prima radice dei suoi lunghi guai, senza però rinchiudere in esso tutto il successo da poi, come erroneamente si dà a credere il Tassoni, per involgere in contraddizione il Poeta che disse in altro luogo: Tennemi amor anni ventuno ardendo, ec. Quand'era ec.: la scorza, per gli anni e pel lungo affanno, era trasmutata; ma l'altra parte di se, cioè l'anima, era pur quella di prima, perocchè dalle stelle veniva l'invincibile sua passione. Critica forte il Tassoni questo verso, siccome d'ogni qualità, a verso appartenente, spogliato; e ne dice tante, che ti par sentire un dottor santo sgridare un seguace d'Epicuro, negante l'immortalità dell'anima. E quel che aggiunge in biasimo, che la forma da quel ch'io sono fa equivoco, perchè s'usa per maniera di giuramento, è tale che, se fosse scappato a un altro, io lo crederei piuttosto un armario di scempiaggini, che di sapienza. Dico adunque che il Poeta lia imposto al verso quell'andare adagio, anzi stentato, a dimostrare l'attuale passione che lo sorprende, e l'attrista nel pensare a quello che egli fu, è al presente trasmutamento, si avverso alle fantasie e a' trastulli d'amore. E cosi vide Alfieri, poichè ripose questo verso fra i più degni di nota; adunque il venditore di vesciche, di carote, di pastinache, e simil merce, è il Tassoni, non già il divin nostro Poeta. Q. 2. Alf. n. — Vario, siccome sono gli affetti, ora tristi, ora lieti, di speranza o altra lusinga. Le vane speranze, ec. Altrove: Lasso! ben veggio in che stato son queste Vane speranze ond' io viver solía. El van dolore. Dice il suo dolor vano, perchè non gli fu d'alcuno aiuto all'attento suo. Ove, in ogni ove in che, dovunque; in qualsivoglia luogo in che. Chi per prova, ec.; perocchè chi non l'intende per prova, nol può altrimenti comprendere, e tanto fanno i pietosi guai d'uno innamorato a chi non provò amore, quanto all'asino il suono della lira. Spero trovar pietà, non che perdono. Tutti sanno che, quando s'accenna due cose, ponsi prima la maggiore, e poi la minore, coll'espressione non che; ma non tutti sanno l'artificio di questo costrutto, che però scrivo intero: spero trovar pietà, non dico che troverò perdono; supponendo questa parte agevole cosa, e ben naturale. Terz. 1. Alf. n. Al popol tutto; poteva dire del popol tutto, ma per la prima forma si dimostra in riguardo al termine che pone; e per questo popol tutto s'intende la vulgare schiera, o sia la moltitudine scioc ca, come dice il Castelvetro. Ma pare al Tassoni che il dar da ridere solamente agli sciocchi non sia cosa da vergognarsene; sentenza tanto facile a sputare, quanto malagevole a praticarsi da chi non è un Catone. Di me medesmo, ec. Dante, Purg. 1: Ei mi parea da sè stesso rimorso. O dignitosa coscïenzia e netta, Come t'e piccioł fallo amaro morso! Bello è non abbisognare d'altro stimolo a vergogna, che la presenza di sè! Chi ha si gentil costume, non si sente mai il viso tinto di tristo rossore. Dice il Tassoni, che di me medesmo meco mi vergogno, e'l verso e del mio vaneggiar, ec., è l'istesso detto in due modi; proposta indegnissima d'ogni men che mediocre ingegno. Nel primo di questi versi intende il Poeta di quella nobile vergogna, che nei magnanimi e gentili la coscienza di sè, senz'altro testimonio, produce; nel secondo, di quella rea vergogna, della quale l'altrui testimonianza dipinge il rco. T. 2. Alf. n. Nota la sentenza dell'ultimo verso, che vergogna, pentimento e sperienza svelgono dał cuore del Poeta. Vaneggiare; è bella parola formata da vano, vôto; cioè luogo voto; e tale dice essere stato il suo verseggiare d'oggetti vani. E'l conoscer, ec.; e |