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Ed Ati, e Numitor, e Silvio, e Proca E 'Capi vecchio, e 'l nuovo Re Latino; Agrippa, e i duo, ch'eterno nome denne Al Tevere, ed al bel colle Aventino.. Non m' accorgea, ma fummi fatto un cenno E quafi in un mirar dubbio notturno

Vidi quei, ch' ebber men forza, e più fenno, Primi Italici regi; ivi Saturno,

Pico, Fauno, e Giano, e poi non lunge Peniofi vidi andar Cammilla, e Turno. E perchè gloria in ogni parte aggiunge Vidi oltra un rivo il gran Cartaginefe, La cui memoria ancor Italia punge. L'un occhio avea lafciato in mio paefe. Stagnando al freddo tempo il fiume Tofeo, Sicch' egli era a vederlo ftrano arnefe Sopra un grande elefante un duce lofco. Guardaigli intorno; e vidi'l re Filippo Similemente dall' un lato fofco.

Vidi' Lacedemonio ivi Xantippo,

Ch'a gente ingrata fece il bel fervigio;
E d'un medefmo nido ufcir Gilippo.
Vidi color, ch' andaro al regno Stigio,
Ercole, Enea, Tefeo, ed Úliffe.
Per laffar qui di famá tal veftigio
Ettor col padre, quel che troppo ville,
Dardano, e Tros, ed Eroi altri vidi
Chiari per fe, ma più per chi ne fcrille,
Diomede, Achille, e i grandi Atridi;
Duo Ajaci, e Tideo, e Polinice
Nemici prima, amici poi si fidi :
E la brigata ardita, ed infelice,

Che cadde a Tebe, quell'altra ch'a Troja Fece affai, credo, ma di più fi dice. Pentefilea, ch'a' Greci fe' gran noja; Ippolita, ed Oritia, che regnaro

Là preso al mar dov' entra la Dannoja

E vidi Ciro più di fangue avaro,

Che Craffo d'oro, e l'un e l'altro n'ebbe Tanto, ch' al fine a ciafcun parve amaro, Rime Petrarca.

Q

v. 2. al. E Capi, e vecchio. ta、 `v. 23, al nido medesmo,

Filo.

V. 17. al, Du

Filopomene, a cui nulla farebbe

Nova arte in guerra e chi di fede abbonda, Re Maffiniffa, in cui fempre elia crebbe. Leonida, e 'l Tebano Epaminonda,

Milciade, e Temistocle, che i Perfi Cacciar di Grecia vinti in terra, e 'n onda. Vidi David cantar celesti verfi,

E Giuda Macabeo, e Giosuè,

A cui 'l Sole, e la Luna immobil ferfi.
Aleffandro, che al mondo briga diè;
Or l'Oceano tentava, e potea farlo;
Morte vi s'interpofe, onde not fe'.
Poi alla fin Artù Re vidi, e Carlo.

CANZONE DEL DETTO.

Q

Vel c'ha noftra natura in fe più degno
Di qua dal ben per cui l'umana essenza
Dagli animali in parte fi diftingue,
Cioè l'intellettiva conofcenza ;

Mi pare un bello, un valorofo fdegno
Quando gran fiamma di malizia estingue
che già non mille adamantine lingue
Con le voci d'acciar, fonanti, e forti
Porieno affai lodar quel di ch'io parlo
Nè io vengo a innalzarlo,

Ma a dirne alquanto agl'intelletti accorti.
Dico, che mille morti

Son picciol pregio a tal gioja, e sì nova; Sì pochi oggi fen trova,

Ch'i' credea ben, che foffe morto il feme, Ed e' fi ftava in fe raccolto infieme'.

Tutto penfofo un fpirito gentile

Pieno del fdegno ch'io giva cercando

Si tava afcofo st celatamente,

Ch'i'dicea fra me ftello; Oimè quando
Avrà mai fin quest' aspro tempo, e vile ?
Son di virtù sì le faville fpente?

Vedea l'oppreffa, e miferabil gente

Giunta all'estremo, e non vedea il foccorfo Quinci, o quindi apparir da qualche parte. Così Saturno, e Marte

Chiufo avea 'l paffo ond' era tardo il corfo, Ch'allo fpietato morfo

Del

Del tirannico dente empio, e feroce,
Ch'affai più punge, e coce

Che Morte, od altro rio, poneffe 'l freno
E riduceffe il ben tempo fereno.
Libertà, dolce e defiato bene,

Mal conosciuto a chi talor nol perde;
Quanto gradita al buon mondo effer dei?
Da te la vita vien fiorita, e verde;
Per te ftato giojofo mi mantene,
Ch'ir mi fa fomigliante agli alti dei •
Senza te lungamente non vorrei

Ricchezze, onor, e ciò ch'uom più defia:
Ma teco ogni tugurio acqueta l'alma.
Ahi grave, e crudel falma;

Che n' avei ftanchi per si lunga via,
Come non giunfi io pria

Che ti levalli dalle noftre fpalle?
sì faticofo è 'I calle

Per cui gran fama di virtù s'acquifia,
Ch' egli fpaventa altrui fol della vita.
Correggio fu, ficcome fuona il nome
Quel che venne ficuro all' alta imprefa
Per mar, per terra, e per poggi, e per piani;
E là ond' era più erta, e più contefa
La ftrada all'importune_noftre fome,
Corfe, e foccorfe con affetti umani
Quel magnanimo; e poi con le fue mani
Piatofe a' buoni, ed a' nemici invitte,
Ogni incarco dagli omeri ne tolfe,
E foave raccolfe

Infieme quelle fparfe genti afflitte;
Alle quali interditte

Le paterne lor leggi eran per forza
Le quali a fcorza a fcorza

Confunte avea l'infaziabil fame

De' can che fan le pecore lor grame.
Sicilia de' tiranni antico nido,

vide trifta Agatocle acerbo, e crudo;
E vide i difpietati Dionigi,

E quel che fece il crudo fabbro igaudo
Gittare il primo dolorofo ftrido,
E far nell'arte fua primi veftigi:
E la bella contrada di Trevigi

Ha le piaghe ancor frefche d'Azzalino:

Q 2

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Roma di Gajo, e di Neron fi lagná
E di molti Romagna :

Mantova duolfi ancor d'un Pafferino;
Ma null' altro deftino,

Nè giogo fu mai duro, quanto 'l noftro
Era, nè carte, e inchiostro

Basterebben al vero in questo loco;
Onde meglio è tacer, che dirne poco.
Però non Cato, quel st grande amico
Di libertà, che più di lei non viffe ;
Non quel che 'l Re fuperbo spinfe fore,
Non Fabj, o Deci, di che ogni uomo fcrifle
(Se riverenza del buon tempo antico
Non mi vieta parlar quel ch' ho nel core >
Non altri al mondo più verace amore
Della fua patria in alcun tempo accele;
Che non già morte, ma leggiadro ardire,
E Nopra è da gradire,

Non meno in chi, falvando il fuo paese,
Se medefmo difefe,

Che'n colui, che il fuo proprio fangue sparse;
Poichè le vene scarfe

Non eran, quando bifognato foffe,

Nè Morte dal ben far gli animi fmoffe.
E perchè nulla al fommo valor manche;
La patria tolta all' unghie de' tiranni
Liberamente in pace fi governa,
E riftorando va gli antichi danni,
E ripofando le fue parti ftanche,
E ringraziando la pietà fuperna,
Pregando che fua grazia faccia eterna;
E ciò fi può fperar ben, s'io non erro
Perocch' un' alma in quattro cori alberga;
Ed una fola verga

È in quattro mani, ed un medefmo ferro:
E quanto più, e più ferro

La mente nell' ufato immaginare,

Più conofcer mi pare,

Che per concordia il baffo stato avanza,
L'alto mantienfi e queft'è mia fperanza.

Lunge da' libri nata in mezzo l'arme
Canzon, de' miglior quattro ch'io conofca
Per ogni parte ragionando andrai
Tu puoi ben dir, che 'l fai,

Come

Come lor gloria nulla nebbia offofca:

E fe va'in terra Tosca,

Ch'appregia l'opre coraggiofe, e beltes
Ivi conta di lor vere novelle.

Canzone, che nel MS. del P. Zeno f legge a c. 49. come pare alle carte feffe nell' edizion Fiorentina del 1522. e a c. 145. delle Rime an. tiche pofte in fine della Bella Mano di Giufto de Conti.

D

Onga mi viene fpeffo nella mente:
Altra donna v'è fempre;

Onde io temo fi ftempre 'I cuore ardente
Quella 'I nutrica in amorofa fiamma,
Con un dolce martir pien di defire;
Quefta lo ftrugge oltr'a mifura, e 'nhamma
Tanto, ch'a doppio è forza che fofpire.
Nè val perch' io m' adire, ed armi 'I core.;
Ch'io non fo com2, Amore

(Di che forte mi flegno > le 'I confente.

Canzone, che nell' edizion di Firenze del 1521. fi trova dopo i Trionfi, tra le cofe rifiutate.

Ova bellezza in abito gentile

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Volfe il mio coré all'amorofa fchiera, Ov'il mal fi foften, e 1 ben fi fpera. Gir mi convene, e ftar com' altri vole, Poich' al vago penfier fu pofto un freno Di dolci fdegni, e di pietofi fguardi : E' chiaro nome, e 'l fuon delle parole Della mia Donna, el bel vifo fereno Son le faville, Amor, perchè il cor m'ardi. 10 pur fpero, quantunque che fia tardi, Ch'avvenga ella fi moftre acerba, e fieraj Umil amante vince donna altiera.

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