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ciò che l'uomo ammira e adora ». E quel trono che io veggo lassú ? chiesi. « Quello è il trono ove posa nella sua gloria, cinto di lauro, il ghibellino Orfeo. Sotto di esso dorme la tempesta, e nell'ombra il leone ed il lupo accendono le loro pupille come brace ardente. La misteriosa base del trono è pietra e ferro: le arcate mediane son di marmo, la parte superiore è di puro oro, dove s'apre a fiorire in albe eternali di luce la sacrosanta Rosa ». Benedetto il Signore, gridai, benedetto, perché permise all'arcangelo fiorentino di lasciar tal mondo di mistero scritto con lingua umana e sovrumana scienza, perché gli consentí di erigere questo misterioso regno eterno e questo trono raggiante, davanti al quale mi prosterno reverente! Beato colui che dal Cielo vien sollevato per i ferrei gradini infernali fino a questa luce! Stella allora aggiunse: « La tua voce, esprima questo divino prodigio ! » Per l'amore umano che seppe elevarsi all'amor divino, sia gloria a Dante!

Ella con grazioso atto della mano allora mi mostrò il volo delle aquile, ed ascese, candida come un giglio, fino a Beatrice, colomba dei cieli, lasciando bianche orme nell'azzurro che erano la mia delizia e la mia consolazione. Dall'alto le stelle mi guardavano benigne.

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Nel XIX del Paradiso, fra i principi cristiani ai quali è mossa rampogna per mancanza di buone opere, vien ricordato anche il re Dionigi di Portogallo, che regnò dal 1279 al 1325. È fuor di dubbio che Dante volesse alludere a lui quando ricorda « quel di Portogallo » (v. 139), e l'Ottimo Commento, per giustificare questa condanna, aggiunge: « Tutto dato ad acquistare avere, quasi come uno mercatante mena sua vita, e con tutti li grossi mercatanti del suo regno ha affare di moneta: nulla cosa reale, nulla cosa magnifica si puote scrivere di lui ». Vediamo se sia meritato questo « dispregio » ed a qual fonte Dante abbia attinte le informazioni che lo hanno indotto ad infamare il re di Portogallo.

Dante, com'è noto, non fu mai in terra lu· sitana, il suo austero profilo si aggirò forse fra le tombe romane di Arles e fra le rovine dei monumenti della romanità superstite in Provenza; con tutta probabilità, risalendo il corso del Rodano, egli si sarà spinto fino a Lione e a Parigi, dove ancor oggi è viva la tradizione del suo soggiorno. Le notizie riguardanti il Portogallo non derivano dunque da una sua conoscenza diretta, ma da informazioni ricevute da altri. Da chi? Non è azzardato il supporre che egli abbia ricevute tali notizie da Guido Cavalcanti«< il primo de' suoi amici» che, proponendosi di andare in pellegrinaggio a San Giacomo di Campostella, si era spinto fino a Tolosa, dove a divagarlo dal suo proposito religioso, bastò un sorriso di Mandetta. Il Cavalcanti non poteva essersi disinteressato del re Dionigi, che fu il primo e il più notevole dei trovatori portoghesi del suo tempo, forse in Tolosa stessa egli aveva ascoltata qualcuna delle canzoni d'amore del sovrano lusitano che tra le faccende dello stato trovava il tempo di attendere a compor rime. Ma al Cavalcanti era giunta anche notizia che Don Denis aveva assoldato un celebre armatore genovese, Manuele Pezzagno, imponendogli la condizione di prendere a bordo fra l'equipaggio una ventina di portoghesi, per addestrarli cosí alla navigazione e al commercio marittimo.

Il Cavalcanti interpretò questa deliberazione del re, come un atto che non avesse altro fine che il lucro mercantile mentre era un saggio provvedimento per iniziare quel movimento di espansione economica e marinara che soltanto molto più tardi doveva dare i suoi frutti. È certo che se Vasco de Gama ed altri naviga tori portoghesi poterono avventurarsi negli oceani, ciò fu in grazia ad una lunga tradizione marinaresca a cui il popolo portoghese si era abituato da secoli. E al re Dionigi che di questa gloriosa tradizione fu l'iniziatore, bisogna dar lode, non biasimo.

Ma un'altra voce sinistra era giunta all'orecchio di Dante. Egli aveva saputo che il re di Portogallo, in obbedienza agli odini del Concilio di Vienna, aveva soppresso l'Ordine dei Templari e si era impadronito dei loro beni.

Dante credette che quest'atto fosse mosso soltanto dal desiderio di metter mano sul danaro altrui, perché ignorava che il re, nell'atto stesso di sopprimere i Templari, aveva creato i Cava

Giornale Dantesco, anno XXX, quad. III.

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RECENSIONI

FRANCESCO STABILI (CECCO D'ASCOLI), L'Acerba, ridotta a miglior lezione e per la prima volta interpretata col sussidio di tutte le opere dell'autore e delle loro fonti dal prof. dott. ACHILLE CRESPI. Ascoli Piceno, Giuseppe Cesari, 1927, pag. 490.

Il dott. Achille Crespi, incaricato dalla « Brigata ascolana degli amici dell'arte », di curare un'edizione dell'Acerba per solennizzare il sesto centenario della morte dello Stabili, s'è messo per l'unica via oggi possibile, date le condizioni della tradizione manoscritta quella di ricostituire il testo per mezzo delle fonti. Ed essendo l'Acerba opera non di poesia, ma di divulgazione scientifica in versi, e possedendo perfettamente il Crespi l'enciclopedia medievale, il ri sultato è stato ottimo. Il libro dello Stabili ora, grazie anche alle parafrasi, alle dilucidazioni e ai testi delle fonti che il Crespi vi ha aggiunto, si presenta quasi sempre agevole e piano. Ma solo chi s'è provato qualche volta in vita sua a rabberciare un testo antico e sa in quale stato miserando fosse l'Acerba, può comprendere appieno quante difficoltà il Crespi abbia dovuto superare e che gran dose d'erudizione, d'acume e di pazienza gli sia occorsa per arrivare a dar un senso a tanti versi che sembrava non ne volessero avere alcuno.

Il Crespi non ci dà il testo critico (cosa impossibile per adesso), ma è solo grazie alle sue fatiche se oggi possiamo raccapezzarci in questo ginepraio e fare un passo innanzi : gli studiosi debbono quindi essergli tutti riconoscenti. Intanto ecco le minuzie che son riuscito a notare nella mia lettura. La lista è lunga, ma parecchie volte si tratta di semplici correzioni d'errori di stampa; negli altri casi la proposta di cambiamento o di spiegazione s'intende fatta con tutte le riserve necessarie.

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Spiegherei: « di quelle sette stelle che mai tramontano per noi ».

Spiegherei: « che mostrano una scienza (il verde) malfondata (trista radice) ». Molte ore il falso prende il nostro viso, per lo corpo diafan, de le stelle. non pote far di moto miga o cosa, civè « poco o punto ». Cosa per « nulla », è marchigiano.

da questa superficie là di sotta sí che l'altro emisperio mirasse, essendo sí leggero, avria festa, voltando ne lo mezzo de la rotta (via) mantegnon ciò che lor essere sume se fa l'asse terrestre in quella parte che a nostra qualità non è lontana, che co' suoi raggi fuoco mostrar suole molte accidenze che dir non ho voglia Bisognerebbe dire che qui per ghiaccio s'intende la grandine.

essendo lese dal fuoco supremo Deriverei ponte da pontare, spingere (da pondo è impossibile), spiegando: « come saetta che cada senza spinte, per semplice forza di gravità ». celansi i'venti e non vanno dinturno. Cfr. v. 3017.

la sua potenzia l'ebbe in poco vinto Cosí a ventura rea ovv. l'alma bella Piuttosto degna e benegna. stringe e impinge.

in tanto nasce

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Piuttosto congiogne e agogne

Cercare Maria per Ravenna significa semplicemente « cercare ciò che non si trova» (poi anche « cercare il suo danno » perché la frase fu maliziosamente scambiata con cercare Maria per averne) ed è detto dei tempi langobardi, come per un punto Martin perse la cappa, non è più il tempo che Berta filava, monna Berta e ser Martino e le parole da Berta derivate: berta in senso osceno da cui bertone e berta, tasca, sbertare, ecc Allora infatti il latino e la latina erano designati come Petrus e Maria, il langobardo e la langobarda come Martinus e Berta. Quindi la frase in questione significò originariamente cercare una latina in Ravenna, dove eran tutte langobarde, come la frase di Martino « per un punto al gioco dei dadi il langobardo perse anche la cappa » (in Francia dore il mercante langobardo si recava accompagnato

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dal suo asino, pour un point Martin perdit son âne), e quella di Berta « non è piú il tempo che la langobarda era contenta traendo alla rocca la

chioma ». Il proverbio spiega bene l'evoluzione peggiorativa subita dalla parola Berta. Cosí mi diceva un giorno il compianto prof. Augusto Gaudenzi, dell' Università di Bologna. Non credo che Cecco faccia qui un'allusione maligna.

matta e altera ovv. e fiera (?) «Perché ciò dici, se il pensier ti copre?» Mi sembrano parole del discepolo.

si fatiga

Io qui di ciò ti voglio ben accorto (?)
ciascheduna arteria

con l'alme divine. Cfr. v. 4693.
Qui, mi sembra, dovrebbe cominciar il
libro V a cui i v. 4669-94 servono
d'introduzione.

4698 e 4700 Piuttosto vediamo e chiamiamo.
4824
Sezza da situla, in un marchigiano come
Cecco, non persuade. Che si debba
-legger pezza?
Cfr. v. 648.

4843

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Manca la rima che probabilmente dev'esser formata da un aggettivo riferito a fede: animosa, operosa, preziosa, speciosa?

Grazie all'edizione procurataci dal Crespi si posson anche cominciar a studiare alcune particolarità fonetiche e morfologiche della non ricca e, salvo il gergo scientifico, non difficile lingua di Cecco, per ora solo su le parole in rima. Do qui il risultato dei miei spogli.

a) Evoluzione normale di i e u brevi freda (da fridus, non da frig'dus) e affreda, benegna, malegno, strenge e stregne (e strense), distengo, someglia, pegne (pingit), sinestro, comenza, strepe (stirpes); ogne (ungit), congiogne e congionto, gotta, doca.

b) Metafonesi di u breve: vulto, stulto, curto, giurno, agusto, mutto, tumi. Analogia: cruce.

c) Metafonesi di o lungo: luto, duno, dogliuso, coluri, invidiuso, spaziuso, vuti, ruci, maggiuri. Analogia conube (per conubbe), mustro (v.) e mustre, vuce, intruca. S'aggiungano dinturno, scucco da omi

cron.

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d) Metafonesi di e lungo: plini (con intatta in marchigiano antico), Spoliti, sico, estrimo, serino. Analogia vedite, rine, cira, strina (strenna), quita,

scima.

e) Metafonesi di i breve: signi, spissi, capilli, quilli, ditti, vizzo, mino, frido. Analogia: signo (v.) e signa, spisse, svizza.

f) Riduzione di vocali finali: asto, rimedo, scorpo, scoppo; inico, distengo.

g) Gruppo nn da nd: miranno, profonna, nasconne, tomma, granni, spanna, spenne, onna, disdegnanno, abbonna, benna, quanno, sospenna.

h) Riduzione di ns a nz: offenza, penza, dispenza, melenzo, condenza.

i) Altri fenomeni consonantici: falzo, salza; conserbe (conservet); civo (cibus); imbriago; sortileggi. 1) Epentesi: puone, forse fane.

m) Metaplasmi: valoro, comuno, nomo, ametisto, forse soggette, lagna, arbusta, travaglia; parire. n) Deverbali: la somiglia e forse i già citati la lagna, la travaglia.

Le particolarità sintattiche su l'uso del gerundio sono state già rilevate dal Crespi (pag. 25); per il resto è degno d'osservazione qualche caso di soggetto di 6a col verbo di 3a persona (regolare nel marchigiano) e si rilevano frequenti anacoluti, arieggianti la sintassi popolare, nelle proposizioni relative. Si confrontino i seguenti esempi

345. Io dico che nel mondo si disegna
effetti nuovi, paurosi e strani.
19. Di sotto luce quella trista stella,

tarda di corso e di virtú nemica,
che mai suo raggio non fe' cosa bella.
129. Dico che, chi per sé possede loco,

ciò non somiglia che lui loco tegna. 379. E sopra quello che ricchezza cole

priva sua (di quello che) vita col maggior disdegno. 1000. E quel che senza il mezzo contraddice e l'una delle parti sempre preme, per lui (per quel che) si priva tutto il ben felice.

Il Crespi fa precedere il testo da una lunga prefazione, che si legge con molto profitto, in cui, da par suo, parla della vita di Cecco, delle fonti dell'Acerba, dei contrasti di pensiero e di metodo nella scienza del medio evo e della grande aspirazione della Chiesa cattolica a unificare in sé, nella sua fede, le diverse correnti di pensiero. Ma basti averlo accennato, perché il parlarne ci porterebbe troppo in lungo. Qui ci occuperemo solo di due cose che ci riguar dano più da vicino della « grande profezia » (Paradiso, 27, 142-148; Acerba, 4773-4778) e dell'avversione di Cecco a Dante.

Secondo il Crespi, tanto Cecco quanto Dante ritengono che il compimento della loro profezia debba avvenire nell'anno maggiore o cosmico, quello cioè che s'inizia quando l'equinozio, spostandosi di un grado ogni secolo, ha percorso 360 gradi. Allora, secondo Cecco, « saranno gli atti umani terminati »; secondo Dante si completerà la redenzione con « un ritorno alla felicità dell'anima e del corpo insieme, restando cancellato del tutto il fallo d'Eva che appartiene all'anno cosmico precedente ». << Non era

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