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al retto cammino. Ed è elemento notevole che nella redazione del Passavanti, la quale per ciò che riguarda i particolari episodici riproduce qua e là il testo della prima leggenda, la parte che si riferisce al mandato evangelico ed apostolico dei due santi è quasi interamente aggiunta e tenuta in prevalente considerazione. Invero, che San Francesco e San Domenico procedessero di pari passo, e con mutuo compiaci. mento nell'esito felice delle loro opere, dicono anche i Fioretti, come quando San Francesco fa una grande radunata di frati minori, che sono parecchie migliaia, intorno a Santa Maria degli Angeli, e San Domenico vi prende parte e osserva anche qualcosa in quel movimento. E ancora più lontano nel cammino della leggenda francescana, lo Speculum perfectionis riporta un colloquio tra S. Francesco e San Domenico circa l'accordo fra i due santi negli stessi propositi di umiltà e nella determinazione di non accettare, per i loro frati, uffici e prelature.

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Or tutto quello che nella visione di S. Domenico del Passavanti appare determinato con patti sanciti tra i due santi ma ispirato e illuminato da Cristo e dalla Vergine, trova quasi una rappresentazione simbolica nella visione di Innocenzo III che, cosí quando a lui si presentò San Domenico come quando più tardi si presentò San Francesco, per ottenere, rispettivamente, la sanzione dei loro Ordini, si determinò favorevolmente per aver visto in sogno il Laterano crollante, esser sostenuto da un frate la prima e la seconda volta. La visione di San Domenico, che racconta come i due santi fossero chiamati all'alto uffizio di sorreggere le sorti della Cristianità, è il riflesso della visione d'Innocenzo III, del Laterano crollante.3 Dall'una all'altra visione v'è l'elaborazione commossa degli spiriti, v'è l'ispirazione alle ragioni

1 I Fioretti di San Francesco. Cap. XVII. «< Come santo Francesco fece capitolo ad Assisi ».

2 Speculum Perfectionis di frate Leone.

3 Ubertino da Casale (in Arbor Vitae Crucifixae, I-V, cap. II) riconosce che nella doppia visione del Laterano cioè della Chiesa ruinante è da leggere la volontà di Cristo per salvarla. Ora i dantisti ritengono che Dante conoscesse l'opera di Ubertino. Questo non si nega. Ma considerando che l'Arbor vitae fu pubblicato nel 1304, si può pensare che Dante tenesse maggiormente presente la leggenda di Teodorico di Appoldia, pubblicata nel 1260, tanto più che la visione simbolica delle tre fiere nel prologo dell'Inferno anche con essa ha riferimenti.

etiche e alla verità storica. E Dante visse nel clima di questa passionalità; si mosse tra il fiorire di siffatte visioni e leggende che oscure fluttuavano e che tendevano, col tempo, alla loro forma compiuta e definita sí nelle redazioni scritte come attraverso la tradizione orale. In tal modo, la Visione di San Domenico, prima che al Passavanti, poté arrivare a lui ampliata e colorita dalla fantasia popolare e fondata sull'opinione e sulla cognizione dei piú illuminati religiosi. E della visione di San Domenico, quale è riferita dall'autore dello Specchio della Vera Penitenza, la seconda parte, che riguarda l'accordo dei due ordini, dové svilupparsi tardivamente rispetto al primo nucleo che trovasi nella visione del D'Appoldia, ed è appunto quella che ha vero riferimento all'ideazione dantesca del prologo dei due canti del Paradiso. Del resto, che costituiscano appunto un prologo i due tratti introduttivi dei canti XI e XII, un prologo che invero - per opportunità strutturale viene press'a poco ripetuto, ove piú ove meno, nei due episodi, risulta evidente, sol che questi si stacchino dagli elementi che diremo occasionali della costruzione fantastica dei canti nei quali è rappresentato il cielo del Sole. Ed è cosí vero che Dante avesse in mente preponderante l'idea di cantare le vite dei santi armonizzandole quasi in una totalità etico-religiosa, piantata sulla storia, che le due figure di San Francesco e di San Domenico ci stanno davanti con preponderanza assoluta e tale da oscurare il complesso della vita di quel cielo dei dottori, benché esse si presentino con coerenza naturalissima e si mantengano con logica d'arte impeccabile, e quasi meticolosa. A tale riguardo bisogna anche notare che dalla leggenda di San Domenico Dante dové essere indotto non solo a considerare l'azione comune dei due archimandriti, ma anche a stabilire quella perfetta corrispondenza negli elementi occasionali e sostanziali dei due panegirici, poiché a ben considerare il cosiddetto scambio di cortesie tra San Domenico e San Bonaventura richiama lo scambio o anche la coincidenza di visioni dell'ultima parte della versione rac colta dal Passavanti.

Dunque l'idea madre dei due episodi e l'inquadramento organico di essi rispondono allo spirito e al disegno della leggenda quale la conosciamo nella forma adulta dello scrittore ascetico. Si comprende che Dante nell' insieme ri

Giornale Dantesco, anno XXX, quad. I.

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fuse anche altri elementi che discendevano dalla tradizione religiosa, ovvero sopra tutto quanto intorno alla vita di San Francesco si trovava nella Legenda nova di San Bonaventura e nell'Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale, e quanto intorno alla vita di San Bonaventura riferisce la Legenda aurea di Iacopo da Varazze.1

Nel cielo del sole, dove sono gli spiriti pensanti e operanti della Chiesa, il poeta porta un dubbio, e quel dubbio fa parlare San Tommaso e San Bonaventura: « Tu dubbii.... etc. ». Nel verso « U' ben s'impingua, se non si vaneggia »,

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Il problema quindi rampolla da un pensiero vivo di realtà storica e dal travaglio di una grande coscienza, diventando parte di un problema più vasto, del tutto fondamentale, rispon dente a tutta la finalità etica della Divina Commedia, nella quale il poeta è un pellegrino che va in cerca della verità etico-religiosa onde il genere umano possa conseguire la sua felicità temporale e spirituale. Donde deriva la decadenza morale del secolo? Dal tralignamento delle istituzioni fondamentali, che sono la Chiesa e l'Impero confondentisi nelle loro attribuzioni e favorenti la diffusione dei tre vizi capitali. Il pericolo già era incombente, quando sorgevano i due ordini religiosi a rinnovare il puro verbo di Cristo, ad estirpare i peccati del mondo, a correggere la Chiesa che a sua volta si allontanava dalle pratiche mondane e dalle contese

1 FRANCESCO TORRACA, Commento alla « Divina Commedia » con la dottrina e con l'acume consueto viene indicato quanto Dante attinse alle fonti leggendarie di S. Bonaventura e di Iacopo da Varazze.

2 Sulla questione, molto dibattuta tra i dantisti, degno di maggior rilievo sembra quanto dice Michele Barbi (Bullettino della Società Dantesca, voll. II, pag. 10 e vol. IX, pag. 30)

3 NICOLA ZINGARELLI, Dante, pag. 132, nella Storia letteraria d'Italia, edita dal Vallardi.

politiche. E il grande avvenimento della fonda. zione dei due ordini religiosi era vivo nella. mente di Dante cristiano e cittadino. Ma purtroppo - dopo meno che un secolo la salutare missione commessa a San Francesco e a San Domenico minacciava di esaurirsi per il degenerare degli ordini stessi cosa che sdegnosamente San Tommaso e San Bonaventura affermano e deplorano. Pertanto, per l'orizzonte della Cristianità, corrotti anche i costumi civili e politici, era buio pesto.

Nelle apoteosi dei due santi Dante richiama i contemporanei, religiosi e secolari, alla purezza dell'opera di San Francesco e della parola di San Domenico: come appunto dicono i due canti del Paradiso, divisi ciascuno in tre parti: proposizione, panegirico e conclusione. Lo spirito di Dante assume un atteggiamento critico davanti alla storia della Chiesa, ed egli, che aspira alla venuta di un riformatore, addita le due grandi figure dalle quali era venuta la luce della salvezza, ma già vicina ad oscurarsi. Che cosa avevano bandito San Francesco e San Domenico? Il ritorno alle semplici virtú del Vangelo. Essi, davanti alle debolezze delle potestà ecclesiastiche ufficialmente costituite, avevano seguito un nuovo cammino, essi umili frati che avevan rinunziato ai beni mondani e alle dignità prelatizie. E Dante, il pellegrino che s'è assunta la somma delle responsabilità del genere umano traviante e da restituire alla pratica del bene, si professa, in quanto critico della corruzione ecclesiastica del suo tempo, quasi osservante delle volontà dei capi dei due ordini monastici, chiamati dalla Provvidenza all'alta missione, in fondo anch'essi critici, come tutti i grandi monaci, di fronte al clero secolare.

Che San Francesco e San Domenico siano collocati in una sfera inferiore a quella di San Benedetto e di San Damiano, non vuol dire che Dante li avesse meno a cuore, o che ad essi attribuisse minore importanza. Il poeta attribuisce, sí, un posto piuttosto alto ai contemplanti, ma la sua passione investe le persone dei due santi che furono, come uomini, piú attivi e che parteciparono operosamente alle vicende della storia della Chiesa umanamente considerata. Quel mettere sullo stesso piano le cinque grandi anime religiose del Medio Evo (Sant'Agostino, Dionigi l'Areopagita, San Gregorio Magno, San Bernardo e San Francesco), quanto ai rapporti con l'etica dantesca, tacendo

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di San Domenico e dando la palma a San Benedetto, e quel ritenere che i fondatori degli ordini mendicanti, praticamente attivi, San Fran cesco e San Domenico, siano da considerarsi come monaci di secondo grado rispetto ai contemplanti (San Benedetto e San Pier Damiano) che sarebbero i monaci perfetti come fa il Vossler 1 non pare che sia esatto. Porre piú alto nelle sfere San Benedetto e San Damiano contemplanti e San Bernardo mistico devoto non significa avere un maggiore interesse per essi, ché in loro il poeta ammira la parte umanamente pratica, e poi, in definitiva, colloca San Francesco accanto a Cristo, quale suo verace imitatore. E per questo ben dice il Tocco che << l'intendimento di questo santo non era di chiudersi in un convento, ma piuttosto a simiglianza degli apostoli pellegrinare per il mondo e predicare la buona novella ». E, d'altronde, San Domenico, uomo di vigorosa attività, aveva predicato efficacissimamente contro l'eresia che minacciava la Chiesa. Ma i puri contemplanti, per quanto sian degni di ammirazione e di ve nerazione, per il poeta agitato dal travaglio umano sono quasi lontani dalla vita della storia, rispetto a quelli che sono militi della Chiesa in terra operanti e tra le moltitudini cristiane, e che rientrano nell'orbita delle forze storiche le quali, secondo lui, dovrebbero ricondurre l'umanità al retto cammino. E qui possiamo citare quanto opportunamente dice il Parodi : 3 « L'ultima perfezione ascetica è per Dante perfezione teorica, non sentita col cuore. La vita contemplativa è da lui amata quasi solo nel senso aristotelico....; l'ardore di lui è soprattutto per l'azione, pèl cielo di Giove, dove risplende l'Aquila imperiale, non già per quello di Saturno.... ». E noi osserviamo: piú pel cielo del Sole che pel cielo di Saturno, dato che i

1 KARL VOSSLER, La Divina Commedia studiata e nella sua genesi interpretata. Vol. I. Parte I, pag. 101 e segg. Parte II, pag. 387 e segg.

2 FELICE TOCCO, Studi francescani. (L'ideale francescano).

3 E. G. PARODI, Poesia e storia nella Divina Commedia. (La costituzione e l'ordinamento del Paradiso dantesco).

due cieli accolgono i grandi spiriti della Chiesa. E aggiungiamo ancora, anche pel cielo di Mercurio, dov'è l'incarnazione dell'Aquila romana. Giustiniano per l'Impero, e San Francesco e San Domenico per la Chiesa sono personaggi vivi nella sua anima, e sono anco gli esponenti della duplice sostanza viva, cioè storica, della Divina Commedia.

Cosí considerati, i canti XI e XII del Paradiso sono canti eroici, perché i due santi sono due eroi del Cristianesimo; anzi rappresentano un gemino episodio, onde rampolla la poesia del Cristianesimo, alla stessa guisa che il canto VI è l'episodio onde rampolla la poesia della Romanità.

E questo è riconoscibile quando i due episodi s'inquadrino nella costruzione totale del poema ovvero quando si ammetta che l'unità etica della Divina Commedia è un presupposto per la valutazione dell'unità estetica; trimenti i ferri della critica si spuntano nell'analisi dell'arte dantesca, che è arte che traduce il pensiero dei secoli.

ché al

Dante anche quando ha la fantasia accesa, conserva l'intelletto operoso, rivolto sempre al travaglio dell' umanità trasparente attraverso l'individuo o attraverso la storia. E cosí, uma. nità singola e umanità collettiva vivono nei due congiunti episodi, che sono i cosiddetti panegi. rici di San Francesco e di San Domenico, in cui ogni pezzo espressivo rappresenta una sintesi d'arte fatta con tali potenti rilievi quali nei panegirici di nostra conoscenza non è dato af fatto affatto di osservare, mentre la costruzione estetica, per quanto appaia dove luminosa e dove opaca, è tutto un organismo, il cui germe è sorto dalla Storia ed è stato fecondato dalla grande anima del poeta, attraverso la realtà spirituale delle generazioni che raccolsero le leggende dei due santi, dal primo abbozzo sino alla determinazione piú compiuta quale si mostra nella Visione descritta dal Passavanti.

ANDREA SORRENTINO.

1 Opportunamente Vittorio Rossi cerca la conciliazione dell'unità etica con l'unità estetica nell' introduzione del suo commento.

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Le imitazioni dantesche contenute | ghesi datano da tempi lontani: basterebbe sfo

nel "Cancioneiro Geral " di Garcia de Resende.

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La fortuna di Dante in Portogallo va messa in relazione, per molteplici assonanze, con quella di Dante nella Spagna, già in vario modo indagata e studiata. Qui non è il caso che si riassumano le congetture e i positivi risultati cui giunsero il Sanvisenti, il Farinelli, il Croce, l'Asín Palacios, ed altri ancora ciò mi porterebbe troppo lontano dall'argomento propostomi; qui a me interessa solo far vedere come in Portogallo, nel gruppo dei poeti palacianos del secolo XV, la cui attività è compendiata nel Cancioneiro Geral di Garcia de Resende, la Divina Commedia abbia esercitato una leggera influenza, direi quasi insensibile, e che le pretese imitazioni dantesche di Diogo Brandam, di Duarte Brito, di Luis Anriques si riducono ad assonanze e ricordi puramente esteriori.

Le interferenze culturali tra Italiani e Porto

I primi influssi di Dante, di Petrarca e del Boccaccio sulla letteratura spagnola. Milano, Hoepli, 1902.

2 Le ricerche del Farinelli datano da anni; vedi, per tutti, il vol. Dante e l'Europa, Torino, Bocca, 1922; il profilo sullo svolgimento storico della letteratura spagn. comparso in Archivum Romanicum del BERTONI, Genève, Olschki, 1925; e i due voll. di Ensayos y discursos de critica hispano-europea pubblicati a Roma dall' Istituto Cristoforo Colombo nel 1926. 3 La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza. Bari, Laterza, 1917; cfr. anche la recensione che di questo vol. scrisse il FARINELLI in Giorn. Stor. d. Letter. Ital. Torino, vol. LXXI.

La escatologia musulmana en la Divina Commedia'. Madrid, 1920; 1920; pubblicazione che dette luogo a interessanti polemiche, riassunte dallo stesso ASÍN PALACIOS in questo Giorn. Dantesco del 1924.

gliare il recente volume di Pietro Verrua e in parte quello di Francesco Cancellieri, compilato circa il 1812-17, ma pubblicato soltanto ora a cura del Marchese Antonio Portugal de Faria, 2 per vedere quali e quanti studenti, maestri, oratori, prelati venissero in Italia durante i secoli. XIV, XV e XVI e quanti nostri umanisti, uomini di corte e di chiesa ecc. si recassero in Lusitania. Questi contatti produssero, naturalmente, dei vicendevoli scambi, ma il loro interesse e il loro svolgersi rimane conchiuso in una cerchia breve e limitata, finché un poeta d'ingegno e di dottrina, imparentato con Vittoria Colonna, non si decise a venire tra noi. Francisco de Sâ de Miranda restò in Italia dal 1521 al 1526, 3

1 Umanisti ed altri « studiosi viri » italiani e stranieri di qua e di là dalle Alpi e dal mare, con 2 tavv ). Genève, Olschki, 1924.

2 ROMA LUSITANA DESCRIPTA (MDCCCXVII): manoscritto inedito dell'abate FRANCESCO CANCELLIERI, pubblicato a cura del MARCHESE DE FARÍA, Milano, 1926. Forma il quinto volume degli studi intitolati Portugal e Italia. L'autografo, acquistato dagli eredi del Cancellieri fu, dal Cav. Camillo Luigi Rossi, offerto nel 1832 al re di Portogallo. Oggi si conserva a Lisbona, Biblioteca di Ajuda, segn. 49, XI, 16. Il dotto abate compendiò in queste sue Memorie Romano-Portoghesi le notizie relative a santi, papi, cardinali, ambasciatori portoghesi ecc. vissuti a Roma, la serie dei nunzi pontifici a Lisbona, ecc. avendo cosí modo di presentarci un quadro pittorico e vario.

3 Il poeta visitò, soggiornandovi qualche tempo, le nostre maggiori città:

Vi Roma, vi Veneza, vi Mila

Em tempo de Espanhoes e de Franceses;

si spinse poi a Napoli e in Sicilia. Siamo ai tempi delle lotte tra Carlo V e Francesco I, culminauti nella battaglia di Pavia. A Venezia Sâ de Miranda acquistò un esemplare della Divina Commedia e uno delle Rime del Petrarca, che postillò Per maggiori notizie cfr. C. MICHAELIS DE VASCONCELLOS, Poesias

quando cioè la Rinascenza irradiava ancora tra noi luce vivissima e tornando in patria poté riportare, oltre il ricordo delle conversazioni e degli insegnamenti del Sannazaro, del Bembo, del Rucellai, del Tolomei, ecc. il tesoretto dei metri italiani, sconosciuti ai suoi compatrioti, che immediatamente abbandonarono le rozze forme della « medida velha » per i ritmi novelli. 1 Col sonetto, la canzone, l'ottava ecc. fiorirono e si diffusero anche i « terzetti » alla maniera di Dante. 2

Quale fosse stata la poesia in Portogallo prima di Sâ de Miranda è presto detto. Dallo scorcio del secolo XII in cui un troviero, Pay Soares de Taveiros, compose una breve « cantiga de amor » (1189) e un re valoroso, D. Sancho I, scrisse la nostalgica « ballatetta » per Maria Pais Ribeiro, la Ribeirinha, fino al 1385, si era svolta una leggiadra fiorita di « cantigas de amor, de amigo » e anche di « maldizer »>, imitate dai Provenzali, brevi poesie in cui i vecchi temi della lirica occitanica venivano ripresi, àdattati e anche rinfervorati con elementi dell'antica poesia popolare che doveva essersi svolta, fin da tempi remoti, sulle balze della Galizia. Dopo questo primo periodo, raf forzątasi la monarchia, resosi indipendente al paese, si ebbe una seconda fase, transitoria, in cui i poeti di corte o di palazzo, « palacianos », seguitarono a comporre brevi motivi, adattandoli alle prische e rozze forme metriche nazionali, cioè della « medida velha », la « vecchia misura ». Questo secondo periodo, detto « escola española » va dal 1385 al 1521, anno in cui Sâ de Miranda iniziò il suo viaggio in Italia.

Dante ignorò l'antica fiorita gallega che pure ai suoi tempi aveva avuto nel re D. Diniz (1279-1325) un appassionato mecenate e cultore che non trascurava occasione per onorare

de Sá de Miranda, Edição feita sobre cinco manuscriptos ineditos e todas as ediçoes impressas. Halle, Niemeyer, 1885.

1 Le antiche forme metriche (« medida velha ») si componevano di Versos de arte menor (esparsas, cantigas, vilancetes, ecc.) e di Versos de arte maior (Oitavas castelhanas, sextinas, ecc.) I metri italiani costituirono la « medida nova ».

2 In questa forma metrica scrisse capitoli, elegie, ed egloghe. Sâ de Miranda imitò pedestremente l'endecasillabo italiano; usò però di una certa libertà e originalità quanto a parole agudas, terminanti in consonante finale, parole che naturalmente l'italiano non conosce.

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la poesia e i poeti. Oppure se al suo orecchio giunse qualche notizia o ricordo, attraverso ad. es., i racconti di Guido Cavalcanti o di quanti altri per il « caminho francès » si erano recati in << romaria » al venerato santuario di S. Jago da Compostella e a Santa Maria « de finibus terrae », ne tacque per una ragione estetica; al nostro Poeta sembrò forse povera cosa un mazzolino di pastorelle e di 'cantigas', composte a imitazione, quando la Provenza aveva avuto quella superba fioritura che tutti sappiamo. Ad ogni modo la rinomanza del suo poema, che ben presto trovava studiosi ammiratori e traduttori oltr'alpe, dovette giungere anche nell'estrema Lusitania sia per i continui scambi e contatti di studiosi e uomini colti che venivano in Italia o di qui colà si recavano, sia perché dalla Spagna, in

Il primo a parlarne è forse il Marchese di Santillana nella sua celebre Carta al Connestabile di Portogallo in cui dichiara di aver veduto un grosso volume de cantigas, serranas y deçires portuguesos i gallegos, de los quales la mayor parte eran del rey U. Diniz de Portugal » (1449).

2 Sembra che Dante ignorasse l'esistenza della antica lingua gallega nella quale poetarono trovatori anche spagnuoli, a cominciare da Alfonso X, il « rey sabio », lingua che in alcuni remoti periodi fu comune ai due popoli iberici. Infatti nel De Vulg. Eloq. I, vIII, afferma : « Totum autem quod in Europa restat ab ipsis tertium tenuit idioma, licet nunc trifarium videatur. Num alii oc, olii oil, alii si affirmando loquuntur, ut puta Hispani, Franci et Latini ».

Per Dante tutta la penisola Iberica (Hispani omnes) era tra quelle regioni dove si parlava la lingua d'oc come presso i Provenzali. Catalogna e Provenza per lui si confondono in un'unica regione e di una lingua gallega o portoghese, non fa cenno alcuno. Ma sí ne fa menzione un catalano, Jaufré de Foscà (autore delle Regras de trobar da lui scritte alla fine del sec. XIII per incarico di Giacomo d'Aragona, re di Sicilia, in continuazione delle Rasos de trobar dell'altro catalano Raimon Vidal) il quale tra il 1286 e il 1327 citava il gallego alla pari del siciliano, francese e provenzale. Par. 11: « Bisogna osservare l'uniformità del linguaggio, perché se tu vuoi fare un cantare in francese, non si conviene che vi mescoli provenzale o siciliano o gallego o altro linguaggio che al francese fosse estraneo ». Cfr. Romania, IX, 53-58.

Quanto al sepolcro di « Jacopo barone » è ben noto il cenno negli ultimi capitoli della Vita Nuova : in modo stretto non s'intende peregrino se non chi va verso la casa di San Jacopo o riede ». Cfr. anche la descrizione del pellegrinaggio di frà Giordano da Pisa (1305).

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