Slike stranica
PDF
ePub

Porena che le facezie e i bei motti stan bene in tutt'altra opera che non sia un commento a Dante, e s' egli ha sentenziato che i diritti d'Ercole gli sembran << tanto deboli per lo meno quant' egli era forte» si sarebbe dovuta prender la pena di dimostrarne il perché.

1

In quanto alla verga rispondiamo, come già fu osservato da altri, che troppa gente è stata dipinta e descritta con in mano una verga, ed ha in realtà avuto in mano una verga, venendo giú sino agli uscieri e ai policemens.

Ma del resto il Poeta poteva benissimo attribuire ad Ercole quella verga come insegna del potere avuto, rammentando anche, per averlo letto in Virgilio, che chi scendeva all' Inferno doveva premunirsene per darla in dono a Proserpina:

Sed non ante datur telluris operta subire,
Auricomos quam quis decerpserit arbore fetus.
Hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina munus.
Instituit. 2

E poi, chi può affermare che Ercole non sia sceso all'Inferno con una verga? Che anzi si può, dopo l'esame di un passo dell' inferno virgiliano, dire recisamente il contrario.

Alla Sibilla e ad Enea che s'avanzano per entrare all'Inferno Caronte grida che essi non possono poiché :

Corpora viva nefas Stygia vectare carina, 3

e rammenta che quand' egli dovette far passare Ercole e Teseo e Piritoo non se n'ebbe a rallegrar affatto, come si sa. A lui la profetessa risponde che ben diverso è il fine per il quale Enea scende all' Inferno, venendo egli per vedere il padre suo, e conclude:

Si te nulla movet tantae pietatis imago,
At ramum hunc, aperit ramum qui veste latebat,
Adgnoscas. Tumida ex ira tum corda residunt.
Nec plura his. Ille admirans venerabile donum
Fatalis virgae, longo post tempore visum,
Coeruleam advertit puppim, ripaeque propinquat. 4

1 BORGOGNONI, op. cit., pag. 137.

2 Aen., VI, 140-143.

3 Aen., VI, 391.

4 Aen., VI, 405-410.

Longo post tempore visum; dunque Caronte l'aveva visto un' altra volta, ed era già molto tempo, e da chi poteva essergli stata mostrata la fatalis virga se non da Ercole e da Teseo e Piritoo? Giacché altrimenti non avrebbero potuto telluris operta subire.1

91.

94.

97.

con

E Dante continua:

O cacciati dal ciel, gente dispetta,
cominciò egli in su l'orribil soglia,
ond' esta tracotanza in voi s'alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia,
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v' ha cresciuto doglia?
Che giova nella fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,

ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.

A chi osservi attentamente questi versi intelletto sereno non potrà certamente sfuggire come l'intonazione di tutto il discorso sia proprio pagana persin nelle parole; in quel fata che riporta súbito la mente al fatum dei latini, e piú ancóra nella rievocazione dell'episodio di Cerbero che un angelo sicuramente non avrebbe ricordato come argomento a suo favore, giacché sarebbe stato piú logico, più conveniente, piú consentaneo alla sua natura cristiana, e specialmente parlando a demonii, rammentar per esempio la vendetta che Michele fe' del superbo strupo, anziché i danni del pagano Cerbero riluttante a seguir Ercole che lo trasse a vedere il dolce lume.

Ma quello che resta sicuro e indubitabile è che il Poeta ad Ercole certamente pensò, come lo provano i versi 98-99, eccetto che non si vogliano spiegare, e qualcuno l' ha fatto, in un modo abbastanza comico. Il Lombardi, ad es., commenta: « Ha di già Virgilio in questo medesimo incontro fatta ricordar la discesa all' Inferno del nostro Salvator Gesú Cristo; e perché dunque non intenderemo noi piuttosto, che fosse Cerbero in tale occasione

▲ Aen., VI, v. 140-141. Ben si vede che il commentatore quando, annotando i versi 408-409, scriveva : << Igitur jam Hercules seu Theseus ramum aureum praetulerant manibus, quum ad inferos descenderent » aveva dimenticato i versi 140-141 giacché si mostra indeciso.

stretto con catena al collo e con musoliera (proprio come quelle che portano i cani ai nostri tempi!), tal che non potesse avventarsi e neppur abbaiare? e che fremendo esso e dibattendosi in cotali stretture si dipelasse il mento e il gozzo? e che finalmente, come in perpetua memoria di quel fatto, la porta dell'Inferno senza serrame ancor si trova, cosí anche Cerbero Ne porti ancor pelato il mento e il gozzo? A questo modo sarà un abbellimento poetico accresciuto a un fatto storico; ove a quell'altro modo, dagl' interpreti inteso, sarebbe una favola supposta istoria ».

A siffatto commento del Lombardi è superfluo qualsiasi... commento. È questa una delle tante fantastiche e assurde spiegazioni alle quali conduce l'ipotesi dell' angelo. E il Lombardi volendo seguirla poiché gli pareva la piú inverosimile, e accorgendosi nello stesso tempo che ne nasceva un' insormontabile difficoltà, cercò di definire la questione dando dei versi 98-99 una spiegazione che è difficile intendere come un commentatore di Dante abbia potuto pensare. 1

E per tornare al nostro ragionamento ripetiamo che il Poeta ebbe presente nello scrivere questo episodio Ercole; non solo, ma - che lo ebbe presente in tale visione, da dover affermare che sia proprio lui quest' indecifrabile Messo.

I! linguaggio del Messo non è quello d'un Angelo, o d' Enea, o di san Pietro, e tanto meno di Cristo; il linguaggio del Messo è il linguaggio della forza, della potenza, della violenza: ond' esta tracotanza in voi s'alletta?; la sua figura è quella d'un espugnatore di città, e ben lo sentí il Bianchi, né sembri strana, giova ripeterlo, la coincidenza anche in questo del Messo con Ercole, al quale piú di tutti era naturale rammentar Cerbero, essendo stato proprio lui che « ipsius a solio regis traxit tramentem »; e il << se ben vi ricorda », fa supporre uno che sia stato parte del fatto rammentato, e lascia, direi, trapelare un << come ben me ne ricordo io ». E poi Dante dice:

1 Per fortuna è stata vox in deserto.

Che giova nella fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda,

ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.

Quali e quante sieno le versioni intorno alla discesa d'Ercole all' Inferno, è cosa che qui poco importa; l'interessante è osservare come Dante dia del fatto una spiegazione propria, giacché il ne del v. 99 ci dice che Cerbero porta ancor pelato il mento e il gozzo per aver tentato recalcitrare alla voglia divina e dar di cozzo nella fata; e Cerbero, a quanto si sa, mai recalcitrò alla divina voglia, tranne quando resistette ad Ercole che volea trascinarlo dietro di sé; e dunque il suo dar di cozzo nella fata altro non è che la resistenza opposta ad Ercole, il quale viene cosí a rappresentare l'esecutore della divina voglia, quello per cui s'adempivano i fati, e per cui si punivano le offese fatte dagli inferi ai Celesti. 1

Se Dante dunque, come ben s'è provato, ebbe in mente, nello scrivere questo suo episodio, Ercole, e proprio come esecutore della volontà divina, e punitore dei mostri infernali che a questa volontà divina volevano recalcitrare; e se in più luoghi del Poema sacro, ripeto col Pascoli, lo stesso Ercole è fatto dal Poeta ombra pagana della sola ed eterna potestà, non sembrerà più strano ad alcuno che sia lui il Messo.

E giacché questi altro non è, e nessuno ne dubita, che l'esecutore del volere di Dio, e il vendicatore dell' oltraggio fatto alla divina maestà; ed Ercole, nella figurazione che in questo Canto ebbe di lui il Poeta, ha del Messo gli stessi uffici e le stesse attribuzioni, dobbiamo dire che queste da noi qui considerate come due figurazioni distinte soltanto per il nome, siano state in realtà nella mente di Dante un unico e perfetto fantasma, compiuto, coerente, vitale, ricco di quelle sfumature e di quei chiaroscuri di cui il Poeta l'ha avvolto con la sua fantasia, e concluderne la perfetta identità del Messo con Ercole, la loro fusione in un solo personaggio: dobbiamo

1 Non si dimentichi il maximus ultor di Virgilio.

[merged small][merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small]

1 Non venga poi il Federzoni a sentenziare che (op. cit., pag. 201): « Le altre (opinioni) eccettuata quella dell'angelo, che per altro non può essere ammessa, la snaturano e la immiseriscono (la concezione dantesca) in un modo che mi sembra proprio indegno dell'alta mente di Dante », perché se ciò potesse dirsi, dovrebbe dirsi della sua, la quale, piú di tutte le altre, snatura e immiserisce veramente la concezione dantesca. Cristo messo del cielo, che fa il sermoncino ai demonî !... parole non ci appulcro.

[merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small][merged small]

canto dell' « Inferno ». Città di Castello, Lapi, 1898. II. A. BARTOLI. Letteratura Italiana. Tomo VI,

[blocks in formation]
[ocr errors]

A proposito delle Postille del Boccaccio

alla Corrispondenza poetica di Dante e Giovanni Del Virgilio

1

2

Nell' ultimo fascicolo del Bullettino della Società dantesca, e propriamente nella rassegna degli Scritti danteschi pubblicati in occasione del VI centenario dalla nascita di Giovanni Boccaccio, non senza compiacimento mi accadeva di veder citato un mio studio sulla Corrispondenza poetica di Giovanni Del Virgilio con Dante e il Mussato, e le postille di G. Boccaccio, già comparso in questo stesso Giornale; compiacimento dovuto sopratutto alla fiducia che il dotto ed egregio recensore, già tanto noto agli studiosi del Certaldese, dico A. Della Torre, compiaciutosi di porre attenzione anche alle modeste pagine d'un giovane critico, riuscisse ad intendere appieno il mio pensiero, e ne giudicasse apportando veri e proprî schiarimenti là dove realmente fosse stato manchevole od eccessivo. Senonché, mi permetta questa volta l'egregio critico ed amico, di non mostrarmi affatto pago di certe sue osservazioni, anzi di non omettere il dubbio che egli, sollecito di porre in rilievo soltanto la breve parte del mio lavoro che qua e là si riferisce alle postille boccaccesche, non abbia tenuto conto dell'intero insieme del mio lavoro, e si sia fermato su qualche mia osservazioncella affatto secondaria e trascurabile per attribuirmi, a proposito delle postille, un sistema di critica assolutamente lontano dalle mie intenzioni, e da

1 N. S., vol. XXI, fasc. I.

2 a. XXI, quad. VI p. 205 e sgg.

quello che il complesso del lavoro effettivamente dimostra.

Vero è che lo stesso Della Torre comincia coll'avvertire che di dette postille io non parlo in un paragrafo a sé, ma saltuariamente, man mano ch' esse mi servono a rafforzare le mie opinioni, e che in esse io riscontro « le tre qualità proprie del Boccaccio: la cura del particolare minuto, la tendenza alla divagazione, lo scrupolo di non annotare quando non sa che cosa dire ». E fin qui, riprendo ora io le stesse parole del critico, potremmo veramente andare d'accordo; ma quando egli séguita dicendo ch'io abbia spinto tanto oltre la mia fede nel Boccaccio da credere che questi << anche quando non postilla nulla colà dove, data l'ambiguità o la latitudine dell'espressione dantesca, piú desidereremmo la parola del glossatore che chiarisse e determinasse, appunto non postilla nulla, perché quel certo luogo non contiene nessuna allusione a fatto o idea determinata, e siam noi che sbagliamo nel volerci scervellare per dare un' interpetrazione della espressione bucolica »; quando, inoltre, l'egregio critico vuol trarre la conseguenza ch' io mi fondi, talvolta, su un'argomentazione a silentio, io non posso fare a meno di domandarmi meravigliato dove mai abbia scritto o lasciato intendere tutto ciò.

Ma ecco che il critico stesso verrebbe a soccorrere la mia memoria, accennando, per la sopradetta argomentazione a silentio, ad al

cuni luoghi dell'Egloghe dantesche « nei quali, mancando la postilla boccaccesca, il moderno interpetre deve supplire colla sua ermeneutica >>.

[ocr errors]
[ocr errors]

<< Il primo di questi luoghi egli séguita a dire è il verso 33 della 1a egloga « me vocat [Mopsus] ad frondes versa Peneide cretas », nel quale il Lidònnici crede (p. 211) si alluda non già ad un invito specifico del Del Virgilio a Dante di venire a prendere una reale corona d'alloro in Bologna, ma ad una sua preghiera generica di aspirare all'alloro, ossia alla gloria poetica; e ciò per due ragioni: la prima (e mi pare giusta) che bisogna col Novati e col Pascoli escludere dal carme devirgiliano l'offerta a Dante d'una vera e propria corona (p. 211, n. 1); la seconda (e mi pare infondata), che se Dante avesse alluso nel verso su riportato ad una esplicita incoronazione a Bologna, il suo postillatore, ossia il Boccaccio, non avrebbe mancato di apporre in questo senso una glossa. E dico infondata questa ragione, perché, come ognuno vede, bisognerebbe anzitutto escludere che, se il Boccaccio non appone nota alcuna, non l'appone solo perché gli è sfuggito che nel verso in questione poteva essere celato un concetto importante ».

Ora, s'è vera la tesi a proposito del verso sopra citato, non mi pare ugualmente interpetrato il mio pensiero a proposito delle ragioni sulle quali è fondata. Spiego meglio, anzitutto, che il Novati, secondo la rettificazione introdotta in fondo al mio articolo, intese i noti versi del carme devirgiliano:

promere gymnasiis te delectabor ovantum
inclita Peneis redolentem tempora sertis.

nel senso che l'Autore facesse balenare dinanzi agli occhi di Dante « la promessa di leggere dalla cattedra, in pieno studio, i suoi futuri componimenti, e d'impetrargli quindi la tanto ambita corona » 1; alla quale opinione tenne dietro quella del Pascoli, che G. Del Virgilio cioè non avesse tanta autorità in Bologna da offrire una corona all'amico di Ra

1 Cfr. Indagini e Postille dantesche, Bologna, Zanichelli, 1889, p. 49 e 99.

venna, e fosse quindi da escludere la piú comune interpetrazione dei due versi devirgiliani, l'offerta cioè della corona. E tale esclusione ammetto anch' io, ma senza punto fondarmi, come ha inteso il mio critico, sulle ragioni di alcuno, ché anzi oso affermare contro il Pascoli, mio pur compianto e venerato maestro, che il Del Virgilio, se non aveva di per sé autorità per offrire a Dante la famosa corona, poteva però rendersi interpetre della volontà di altri Maestri dello Studio bolognese disposto, poniamo, a incoronare Dante come quello di Padova aveva incoronato Albertino Mussato per me invece l'esclusione è fondata sulla diretta interpetrazione dei versi citati, e più particolarmente di quelli che seguono, inchiudendo una similitudine destinata a chiarir bene, io credo, il pensiero precedente dell' Autore. Ripetiamo, per maggior chiarezza, l'intero passo:

En ego iam primus, si dignum duxeris esse, clericus Aonidum, vocalis verna Maronis, promere gymnasiis te delectabor ovantum inclita Peneis redolentem tempora sertis,

UT PRAEFECTUS EQUO SIBI PLAUDIT PREACO SONORUS FESTA TROPHAEA DUCIS POPULO PRAETENDERE LAETO.

Qui dunque, secondo me, l'Autore direbbe che, come l'araldo, cavalcando innanzi, gode di poter annunziare al popolo lieto i solenni trofei del suo duce, cosí egli godrebbe di preannunziare pel primo allo Studio bolognese quello che, secondo le teoriche sue, sarebbe stato per Dante il più alto segno di gloria, la composizione cioè del poema latino pel quale soltanto la fronte del poeta volgare poteva già apparire agli occhi de' dotti idealmente ricinta d'alloro.

1 Cfr. il cap. Decem vascula in La Mirabile Visione, Bologna, Zanichelli, 1913. Alla stessa esclusione s'attennero in sostanza anche il TORRACA, in Bull. della Soc. dant., N. S., X, p. 168; e l'ALBINI in Lectura Dantis. Le opere minori di D. Alighieri, Firenze, Sansoni, 1906.

2 Il che per altro non può rigorosamente escludere che, cosí parlando, il Del Virgilio non potesse in certo modo far balenare all'amico anche la speranza d'una corona reale presso lo Studio, in grazia sempre d'un poema latino. Se nient'altro, la sua

[ocr errors]
« PrethodnaNastavi »