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Vi sarebbe qui, in altri termini, un incitamento alla gloria quale premio al poema latino desiderato dal buon Maestro bolognese, anzi imposto dalle condizioni stesse del tempo a chi fosse stato vago della gloria piú alta e solenne e come tale l'avrebbe inteso Dante allorché, nel riprendere a parte a parte nell'egloga responsiva i tre punti principali del carme devirgiliano', cominciò dall' ultimo, da quello cioè che gli era parso piú lusinghiero e conclusivo nell'intenzione dell'affettuoso e trepido amico, ma meno possibile in quel tempo: Mopso egli dice difatti a Melibeo,

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cioè a Dino Perini me vocat ad frondes versa Peneide cretas, ossia, G. Del Virgilio m'incita alla gloria, ma come mestamente dice seguitando la gloria e persino il nome dei vati è oggi svanito: decus, vatum quoque nomen in auras fluxit !...

Ecco dunque come io fondo principalmente sopra un ragionamento mio, non del Novati e del Pascoli, l' interpetrazione di quel verso messa ora in discussione dal Della Torre: al quale veramente dispiace la seconda ragione su cui avrei fondato la mia interpetrazione. Ebbene, questa ch'egli mi farebbe l'onore di assumere come un' altra ragione fondamentale, è appena una fuggevole noticina nella quale dico: << Va peraltro osservato che se ad una esplicita incoronazione in Bologna avesse alluso, poniamo, Dante, il suo postillatore non avrebbe mancato di apporre in questo senso una glossa, come fece, per es., al TIMEAM.... del verso piú oltre: idest conventari bononie; e il suo silenzio sul presente verso - dacché egli anche le cose più facili suole, quando può, postillare non sarà, comunque, senza motivo ». Forse potrà riuscire un po' forte quel < non avrebbe mancato »; m'era parso sul momento che se l'interpetrazione del verso

espressione era di quelle che più potevano svegliare nel cuore dell' esule la visione dell'alloro vagheggiato effettivamente ed intensamente da lui, insieme col ritorno in patria.

Quali siano questi tre punti, e come Dante vi risponda variamente confutandoli, o con accorata mestizia, o con sottile ironia, o con aperto disdegno, si può vedere nel mio cit. studio, p. 216, nota, e passim.

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dantesco, generalmente accettata anche da quelli che, come l'Albini, esclusero dal carme devirgiliano l'offerta della famosa corona, fosse stata cosí ovvia e naturale, al nostro postillatore, di solito attento e perspicace, non sarebbe facilmente sfuggito come ora mi nega il Della Torre che le parole del poeta esprimessero un invito alla corona; tanto meno facilmente, io credo, in quanto il detto postillatore, l'appassionato studioso e biografo di Dante, sapendo quanto la detta corona stesse a cuore dell' Esule, e come ancor di corona si parli chiaramente nel resto dell' egloga, poteva, al suono stesso del verso, mettersi sull'attenti. Tuttavia io mi sono affrettato a limitare ancor più il mio concetto nella seconda parte della sudetta noterella, dicendo che il silenzio del postillatore « dacché egli anche le cose più facili suole, quando può, postillare non sarà, comunque, senza motivo ». Col che io non ho inteso certamente dire o sottintendere, come vuole ora il Della Torre, che là dove il Boccaccio non postilla nulla, « appunto non postilla nulla, perché quel certo luogo non contiene nessuna allusione a fatto o idea determinata, » e tanto meno poi che là dove il Boccaccio, ripeto, non postilla nulla, non debba << il moderno interpetre supplire con la sua ermeneutica », tanto più che io stesso ho cercato, a modo mio, di dare al verso dantesco quell' interpetrazione che, non suggerita affatto dal postillatore, m'è parsa però piú congrua e verisimile: avrei piuttosto lasciato capire che il silenzio del Boccaccio su taluni passi di questa corrispondenza, anziché farci sdrucciolare per la facile china di interpetrazioni superficiali ed affrettate, debba invece arrestarci un momento come dinanzi ad uno di quegli scrupoli che, come non mi nega per fortuna il Della Torre, ebbe il Boccaccio medesimo << di non annotare quando non sa che cosa dire», e debba insomma rendere la nostra ermeneutica piú scrupolosa ed accorta.

Senonché il mio egregio critico m'incalza con un altro passo in cui io avrei inteso resistere all' audace tentativo di sorpassare il silenzio del Boccaccio; ed ecco in proposito le sue parole: << Lo stesso si dica a propo

Giornale dantesco, anno XXIII, quad. I.

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sito dei famosissimi << decem vascula >>> (1, v. 64) siccome il Boccaccio non vi fa nessuna postilla, al Lidònnici par troppo audacia vedervi, col Novati, significate dieci egloghe che Dante intende di mandare a Mopso, e gli sembra già molto arrivare a dire che « ad ogni modo, se non proprio dieci egloghe dirette al Del Virgilio, Dante poté pensare che, tentato oramai quel genere prediletto di poesia, l'avrebbe seguitato quando l'occasione e l'estro si fossero offerti spontanei » (p. 217). La quale interpetrazione, gira e rigira, viene ad essere in fondo uguale a quella del Novati; e pare a me di vedere che il Lidònnici, pur di essere fedele al suo canone critico che, cioè, anche il silenzio del Boccaccio postillatore ha una sua ragion di essere, s'è sforzato di dare una interpetrazione che, almeno nel suono delle parole, fosse differente. E questo dico con tanta piú di convinzione, in quanto che coll' interpetrazione che il Lidònnici dà dell'« ovis gratissima» l'ipotesi del Novati circa i « decem vascula >> non ci stonerebbe davvero ».

Anzitutto, mi permetta il Della Torre rispondergli ch'egli, preoccupato com'è di attribuirmi soverchia preoccupazione su quanto dica e non dica nelle postille il Boccaccio quasi che di esse mi sia fatto un oracolo! eccede non poco nel dire che ne' « decem vascula » a me « par troppa audacia vedervi, col Novati, significate dieci egloghe che Dante intende di mandare a Mopso »: io chiamo anzi suggestiva quest' ipotesi e confortata dalle parole del noto epitaffio dantesco dello stesso Giovanni Del Virgilio, là dove dice:

Pascua pieriis demum resonabat avena;
Atropos, heu, laetum livida rupit opus!

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nota

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dare una idea, senza troppo uscire dai limiti boccacceschi, di questa rassegna; tanto piú che, per proporla, il L. deve ridurre a nuova significazione appunto le postille del Boccaccio. Il L., dunque contro il Novati e il Parodi, (cfr. Bull, N. S. XX, 316) che sostengono essere l'ovis la bucolica virgiliana, propone che in essa si veda la bucolica dantesca. E ciò per due ragioni la prima, che non si capirebbero a proposito della bucolica virgiliana le espressioni« modo carptas » e < ruminat », che indicano un' elaborazione recente di materia, si riferiscono dunque a poesia ben più recente che non la virgiliana; la seconda, che la postilla boccaccesca al v. sponte venire solet....'; quasi dicat SE non sufferre laborem in carmine bucolico, sed a natura habere, viene a identificare in un certo senso la pecora con Dante, in quanto è poeta bucolico, ossia colla sua poesia bucolica. Di queste ragioni, la prima vien facilmente distrutta da chi segua l'opinione del Novati e del Parodi.

<< La bucolica virgiliana, sia perché è, nelle cognizioni letterarie del B., l'unica della let

teratura latina, sia perché è in sé e per sé perfetta, viene quesi ad essere la bucolica tipo, ossia rappresenta, sto per dire, la poesia bucolica in genere. Ora vede ognuno, che non ha niente d'assurdo il dire che il genere bucolico, il quale è stato dal tempo di Virgilio inattivo e quasi diremmo senza nutrirsi di nuova materia, ora ha trovato nuovo pascolo, ha trovato, cioè, nuova materia da trattare, e sta in questo momento rielaborandola, o come dice la lettera dell'espressione dantesca ruminandola. Valore, invece, avrebbe la seconda ragione addotta dal Lidònnici; ma qui, con sua buona pace, siamo davanti ad una svista del buon Boccaccio. E basta a provarlo il fatto che, mentre nell' egloga dante. sca Dante e la pecora sono due esseri assolutamente distinti, la postilla boccaccesca li identifica (infatti, il soggetto sottinteso del verbo della detta postilla è Dantes) forzando cosí i versi danteschi ad un significato contraddittorio. La questione è che quando Dante ci dice che la sua pecora viene a farsi mungere spontaneamente, si deve intendere che la bucolica virgiliana ha in germe e in potenza tanta poesia, che basta, sto per dire, saperla interrogare, perché essa dia in risposta materia esuberante al poeta. Insomma è in ispecie della bucolica di Virgilio quello stesso che in genere è di tutta la poesia di lui, la quale è la fonte che sparge di parlar sí largo fiume '. E cosí, la bucolica virgiliana par che dica al cultore della poesia:

Eccomi; leggimi soltanto, e tu troverai in me larga fonte d'ispirazione

Ho voluto citare l'intera nota per non togliere ai lettori la bella e suggestiva impressione che il discorso del Della Torre non manca certo, a prima vista, di produrre: senonché, chi conosce il mio lavoro, e sopratutto chi, come il mio egregio critico, conosce a fondo la questione, avrà non meno a grado di leggere ora le mie rispettose e modeste confutazioni.

Anzitutto, cade in errore il Della Torre quand' egli, per mettere ancóra avanti e difendere l'altrui interpetrazione sull' « ovis gratissima» dichiara che, per proporre la mia, devo

<< ridurre a nuova significazione appunto le postille del Boccaccio ». Altri invece ha tentato forzare il significato di qualcuna di tali postille, ed io, pur mirando per la conclusione della mia tesi ad altri argomenti estranei alle postille stesse, ho cercato alla mia volta di ripristinarne o chiarirne insomma il significato, là dove l' interpetrazione della postilla era servita come di fondamento alla tesi degli avversari. Il Novati, per es., affermò che la postilla « buccolicum carmen» sovrapposta all'« ovis gratissima» dell' egloga dantesca significasse la bucolica di Virgilio, perché buccolicum carmen, nel linguaggio dei bucolici medioevali, sta ad indicare una raccolta di egloghe; ed io allora obbiettai che buccolicum carmen, in altre postille dello stesso Boccaccio e in altri scrittori contemporanei, sta pure, anzi principalmente, a significare « poesia bucolica » ; mentre, se il Boccaccio avesse inteso alludere alla bucolica di Virgilio, avrebbe aggiunto all'espressione buccolicum carmen anche Virgilij, tanto piú che, quando la detta espressione sta a indicare una raccolta di egloghe, è generalmente seguíta dal nome dell'autore. Il Novati stesso aggiungeva che l'altra postilla boccaccesca al verso: nulla iuncta gregi nullis assuetaque caulis; cioè, quod non invenitur aliud opus bucolicum in lingua latina, conveniva solo alla bucolica virgiliana; ed io obbiettai che, ancorché non si voglia qui sottintendere un post Virgilium, come avviene di trovare esplicitamente detto in un'altra postilla del Boccaccio, può questi avere alluso al fatto che nei suoi tempi non ci fosse altra bucolica in latino, che, in altri termini, la prima poesia del genere, nei suoi tempi, fosse quella di Dante.

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Maggiore appiglio veramente offrivami l'altra postilla boccaccesca, che il Novati aveva

1 Cioè nell' egloga di Giovanni Del Virgilio al Mussato, là dove questi due versi allusivi a Dante come poeta bucolico:

fistula non posthac nostris inflata poetis, donec ea mecum certaret Tityrus olim. sono intesi cosi: eo quod nullus Latinus poeta post Virgilium buccolico carmine usus est.

relegata in una noticina in fondo al volume come cosa vieta o trascurabile, e che il Della Torre mette ora contro di me in discussione, facendone una delle due principali ragioni su cui crede fondata la mia interpetrazione intorno all' « ovis gratissima », dico la postilla appósta dal Boccaccio al verso dantesco: sponte venire solet, nulla vi poscere muletram, cioè: quasi dicat SE non sufferre laborem in carmine bucolico sed a natura habere; nella quale postilla, come vedesi, il soggetto sottinteso è Dantes, questa volta identificato nell'ovis per effetto di quell'intimo rapporto che passa fra il simbolo e la persona o la cosa reale simboleggiata. Non se ne mostra però persuaso il Della Torre, che anzi attribuisce la postilla ad una svista del buon Boccaccio in quanto, essendo nell'egloga Dante e la pecora due esseri assolutamente distinti, i versi danteschi verrebbero per essa forzati ad un significato contraddittorio. Ma questo sarà vero solo per chi s'ostini a credere simboleggiata nell'ovis gratissima la bucolica virgiliana, mentre chi, come me, vuol continuare a credervi simboleggiata la stessa poesia bucolica di Dante, non si meraviglierà che il Boccaccio, interpetrando cosí alla buona i versi danteschi, scambi per un momento, per rendere più chiaro il concetto fuor del linguaggio allegorico, scambi, dico, il simbolo con la persona simboleggiata, o, in altri termini, la poesia col poeta. Fin tanto che dunque non si provi che il Boccaccio, con la postilla buccolicum carmen apposta ad ovis gratissima abbia inteso veramente alludere alla bucolica di Virgilio, a cose insomma e persone estranee e assolutamente distinte da Dante, non si può parlare, per l'altra postilla sopracitata, di sviste o contraddizioni.

Ma lasciamo in pace una volta le famose postille, al di fuori delle quali io ho inteso certo trovare altri buoni argomenti per sostenere la mia interpetrazione; e mi compiaccio che il Della Torre accenni almeno ad uno di questi altri argomenti, sia pur confutandolo. Io dunque ho cercato principalmente di fermare la mia attenzione e sullo spirito in generale dell' egloga dantesca, e sui particolari dell' ovis gratissima, a proposito della quale non

sarà ozioso ripetere qui i versi stessi di Dante. Il quale, passando dalla parte negativa dell'egloga a quella piú propriamente positiva, e rispondendo alla domanda fatta a bella posta da Melibeo per conciliarne il passaggio: «Ergo quid faciemus Mopsum revocare volentes » dice:

Est mecum quam noscis ovis gratissima.... ubera vix quae ferre potest tam lactis abundans ; rupe sub ingenti carptas modo ruminat herbas; nulli iuncta gregi nullis assuetaque caulis ; sponte venire solet, numquam vi poscere mulctram. Hanc ego praestolor manibus mulgere paratis, hac implebo decem missurus vascula Mopso.

Qui sono evidenti i caratteri della poesia dantesca l'abbondanza, la natura solitaria ed originale, e infine la spontaneità; tanto vero che da lungo tempo e da non pochi critici s'è creduto e si crede ancóra ravvisare nell' « ovis » la musa volgare o la Divina Commedia, ovvero l'ultima Cantica di essa. Ma perché non intendere invece la stessa poesia bucolica di Dante che cosí bene risponde al simbolo pastorale dell' << ovis », ed ha effettivamente in sé stessa i caratteri espressi dall'Autore? Dante, per compiacere a Mopso, cioè a Giovanni Del Virgilio, componeva in realtà una egloga, ed evidentemente questa era per lui materia nuova, assoggettata di recente, coll' estro originale, ricco e spontaneo, ad un' artistica e compiuta elaborazione; ecco perché della capra vien detto che: rupe sub ingenti, (cioè il Menalo di cui al V. 11) modo carptas ruminat herbas; le quali ultime parole, riferite alla bucolica virgiliana, secondo me non avrebbero senso.

Vero è che il Della Torre molto sa industriarsi per dare loro un qualche significato ; ma non s'accorge egli che, gira e rigira, è costretto sempre ad allontanarsi dal concetto della bucolica propriamente virgiliana, e ad ammettere piuttosto nell' « ovis >> la poesia bucolica in genere? E allora perché non si vuol concedere a me che Dante abbia inteso simboleggiare propriamente nell' << ovis la sua stessa poesia bucolica, come il Del Virgilio, di rimando, simboleggiava modestamente la sua in una « bucula »? E se, d'altronde, Dante è chiamato nell' egloga pastor, come il Del

L

Virgilio è chiamato bubulcus, perché non dev'essere sua l'« ovis gratissima » com'è propria dell'altro la << bucula » ? Ma lasciando pure da parte questi particolari sui quali non sarebbe difficile ogni sorta di confutazione a un critico sottile, a me sopratutto l'insieme delle qualità attribuite all' ovis persuade che Dante intese celarvi la propria Musa bucolica, ben turgida di vital nutrimento, e affatto originale e spontanea; la quale ultima qualità mi lasciò veramente titubante non poco ad accettare l'ipotesi sopra citata del Novati intorno all'invio de' decem vascula, cioè di dieci egloghe. Se il padrone della pecora, che viene a farsi mungere spontaneamente, avesse limitato a dieci vasetti il latte da spremere, se, fuor d'allegoria, Dante avesse stabilito cosí a priori la composizione di dieci egloghe di cui nulla ci lascia intanto scorgere l'ordito non avrebbe messo a repentaglio la spontaneità di cui vantavasi non poco? Ecco perché m'è parso che l'ipotesi del Novati stonasse anzi che no con l'interpetrazione mia intorno all' « ovis », e mi limitai piuttosto a concludere che Dante, << tentato oramai quel genere prediletto di poesia, l' avrebbe seguitato quando l'occasione e l'estro si fossero offerti spontanei >>.

Comunque, la morte veniva a troncare ben presto ogni estro e disegno poetico, e Dante portava cosí nella tomba quello ch' io intesi chiamare un segreto rispetto a Polifemo, Aci ed Achemenide della seconda egloga; a proposito de' quali il nostro postillatore non sa dirci nulla oltre taluni superficiali riferimenti a Virgilio ed Ovidio, mentre io credo, e vedo ormai da altri accettato, che in Polifemo sia simboleggiato il Comune di Bologna, e propriamente la parte dei Maltraversi, e in Aci ed Achemenide, rispettivamente, uno scolaro dello Studio bolognese, a nome Iacopo da Valenza, e Romeo dei Pepoli. Senonché, a questo punto il mio egregio critico pensa ch' io sia caduto in una felice contraddizione col mio sistema di

1 Vedasi, ad es., l'ultima edizione della Storia della Letteratura italiana per uso dei Licei, di V. Rossi, Vallardi, 1914, vol. I, pag. 132.

critica. << Anche qui il Boccaccio egli scrive non annota nulla, e anche qui, dunque, il nostro Autore dovrebbe prudentemente astenersi dal proporre qualsivoglia interpetrazione ». Sono grato ora al mio critico per quell'epiteto << felice » che mi dimostra, se non erro, assentimento alle cose dette in proposito nello stesso Bullettino ov'egli scrive', ma non posso fare a meno di osservargli che, dato e non concesso che io avessi dato troppo peso al silenzio del Boccaccio nei due passi sopra discussi, cioé al me vocat ad frondes.... e a decem vascula, resterebbe sempre da ragionare e distinguere la natura stessa del silenzio boccaccesco. Può, dico, il Boccaccio aver taciuto sopra alcuni luoghi di carattere carattere propriamente ideale e poetico, dove il suo ingegno era atto a penetrare meglio certo di tanti critici contemporanei, e in questo caso il suo silenzio dev'essere per i moderni ermeneutici, non dico impedimento, ma monito non lieve; e può d'altra parte aver taciuto su cose che hanno carattere propriamente storico e positivo, per mancanza di chi gliene desse informazioni, e in questo caso il moderno interpetre può liberamente affidarsi alla propria investigazione, procurando d'interrogare lo spirito del poeta e la storia. Ora ognun vede che le allegorie dantesche di Polifemo, di Aci ed Achemenide ricorrono in questa seconda specie, diciamo cosí, del silenzio boccaccesco, ond' io potevo liberamente sorpassarlo senza cadere in nessunissima contraddizione col mio sistema di critica.

Piace infine che il Della Torre concluda distinguendo le postille boccaccesche in due categorie: « la prima, quelle consistenti in notizie di fatti e positive raccolte dal B. a Ravenna (p. es. che Melibeo è Dino Perini, che Alfesibeo è Fiducio dei Milotti da Certaldo, ecc.): la seconda, quelie consistenti in pure e semplici congetture del B., il quale in varî passi delle Egloghe dantesche, a corto di notizie

1 Cfr. il vol. XVIII, N. S. p. 189 e sgg.; e la informazione dello stesso Della Torre nella Rassegna bibliografica della Letteratura italiaua, XX, fasc. 2, pag. 50.

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