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sia antica è difficile dire, ma certo è anteriore a Dante, che la introdusse nel suo poema, e a Giotto che prima di Dante la recò in un suo affresco famoso essa si trova già nel sec. XI; e di un Belzebub tricipite è cenno nell'Evangelo apocrifo di Nicodemo, il quale, nella forma che ha presentemente, non è posteriore al sec. VI ». Un dotto articolo

della Civiltà Cattolica, nel quaderno 1443 del 6 agosto 1910, mette in relazione le tre facce del Lucifero dantesco co 'l passo dell'Apocalissi dove san Giovanni parla dei tre cavalieri infernali. Il raffronto, per la testimonianza stessa di Dante che dà alle facce del suo Dite perfettamente gli stessi colori de' tre cavalli apocalittici: rufus, niger, pallidus, è convincente, ed io credo che realmente il Poeta abbia visto nell'aspetto stesso del principio d'ogni male la paternità de' tre mali maggiori che in ogni tempo desolarono la terra: la peste, la fame e la guerra. Anche oggidí la Chiesa invoca l'allontanamento di tali mali nelle sue Litanie: « A peste, fame et bello libera nos, Domine ». L'articolista della Civiltà Cattolica aggiunge ancóra che, se si deve sovrapporre al colore delle tre facce diaboliche della Commedia, oltre il simbolismo de' tre flagelli già nominati, un altro significato morale, questo sarebbe da cercare ne' commenti medioevali a quel medesimo passo dell' Apocalissi. Infatti la Glossa e molti altri interpetri vedono nel color rosso la violenza dei persecutori del Cristianesimo, nel nero la subdola persecuzione degli eretici, nel pallido l'occulta persecuzione degli ipocriti e dei falsi cristiani; quindi violenza, eresia e frode sarebbero i tre aspetti dell' insidia diabolica, e corrisponderebbero ai tre vizii che popolano la Città di Dite, la rôcca, in certo modo, di Lucifero. E cosí le sue tre facce rappresenterebbero anche più palesemente l'antitesi alla somma Trinità, perché la violenza contrasta alla « divina potestate », l'eresia alla « somma sapienza », la frode, che uccide

lo vincol d'amor che fa natura

e quel ch'è poi aggiunto, di che la fede spezial si cria

Inf. XI, 56, 62-63.

al << primo amore ». E, accettando questa interpretazione che a me sembra tanto autorevole e tanto fondata, un altro elemento di concordanza ci riporta alla figurazione della Città di Dite scolpita su la facciata del San Pietro di Toscanella, dove abbiamo notato che le immagini dell'eresia e della frode appaiono chiaramente tra i frutti della pianta infernale.

Ma, qualunque sia il significato che Dante ha voluto dare alle tre facce del suo Lucifero, è certo che l'affresco di Giotto, che fu sí famoso, ci presenta ancóra un grado intermedio di evoluzione dal diavolo mostruoso delle leggende popolari al dantesco principe del male, perché le due facce laterali sono ancora rappresentate da teste di serpenti o di drago, e derivano indubbiamente dal più antico affresco di S. Maria Maggiore in Toscanella, mentre il bassorilievo della facciata di San Pietro, eccezion fatta delle ali di pipistrello, ci presenta perfettamente compiuta la figura di Lucifero come ci appare nella ghiaccia di Cocito, con tre facce uguali e congiunte secondo la descrizione di Dante, erto « da mezzo il petto > come un gigante, cinta di corona la testa a farci sentire che egli è veramente l'imperador del doloroso regno ».

Ma ci sono ancóra altri caratteri che meritano d'esser presi in considerazione. Nel bassorilievo tuscanense Lucifero stringe tra le mani il serpente, simbolo dell'invidia che lo mosse ad << alzar le ciglia contro il suo Fattor », e da lui esce e si spande la pianta che reca i frutti che abbiamo visto. Non tornano con spontaneo ricorso alla mente le parole con cui, nel Canto IX del Paradiso, Folco da Marsiglia lamenta che la cupidigia delle ricchezze abbia cosí corrotto la Chiesa che papa e cardinali pensano solo ad acquistare i bei fiorini d'oro coniati da Firenze, dimenticando il santo Sepolcro e lasciando derelitti » l'Evangelio « e i Dottor magni?

La tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo Fattore e di cui è l' invidia tanto pianta, produce e spande il maledetto fiore c'ha disviato le pecore e gli agni però che fatto ha lupo del pastore.

Certo dal concetto del fiorino, divenuto strumento di corruzione, all' immagine del fiore di una simbolica pianta che abbia le sue radici in Inferno il trapasso non è difficile e può ben essere stato spontaneo nella fantasia del Poeta, ma non può negarsi che la rispondenza tra la rappresentazione della pianta del male, nel bassorilievo del sec. XII e di cui io non conosco altri esempii né anteriori né posteriori, e l'immagine poetica sia sorprendente ed è troppo noto con che maravigliosa precisione e, nello stesso tempo, con che scrupolosa fedeltà al modello tutti gli aspetti della natura che piú hanno colpito i sensi e la fantasia del Poeta abbiano trovato nel fantasma poetico la piú esatta e piú lucida espressione, per non esser tratti spontaneamente a pensare che Dante abbia conosciuta ed osservata non senza interesse la nostra basilica.

2

Tra i commentatori di Dante c'è chi nelle tre facce di Lucifero vede una corrispondenza co 'l simbolo delle tre fiere che, al principio del viaggio, gli avevano fatto perdere << la speranza dell'altezza »; e certo, qualunque sia il significato che si voglia attribuire alle tre facce e alle tre fiere, un rapporto di dipendenza di queste da quelle si deve pur ammettere, perché, se Dante afferma di Lucifero che << ben dee da lui procedere ogni lutto», non poteva egli non considerare come lutto la guerra che simili fiere movevano alla società cristiana del suo tempo. Ed anche nel bassorilievo di Toscanella tutta l'opera diabolica di lotta contro la verità, figurata nella pianta che egli produce e spande », si riassomma in tre facce che sembrano esserne come l'aspetto con cui si rivela nella vita, non già tre mali simboleggiati in tre mostri diversi, ma un unico mostro tricipite che fa sentir meglio l'unità della radice da cui ogni male è prodotto, un male unico che ha tre facce distinte e pur simili, la triplice concupiscenza corruttrice dell' umana vita.

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Per quel che riguarda la raffigurazione

1 Cfr. BASSERMANN, Dantes spuren; ZINGARELLI, Dante.

2 Inf., XXXIV -37

della Città di Dio è più difficile scoprire dei possibili raffronti con la concezione generale o con particolari immagini della Divina Commedia, pure un elemento d'ideale contatto che, secondo me, avvalora l'interpretazione da me suggerita delle figure scolpite intorno alla bifora mi sembra possa esser dato dal Canto XVIII del Paradiso che è, come il bassorilievo di Toscanella, l'esaltazione dell' Impero cristiano, ideale supremo anche per Dante di giustizia e di pace, attuazione della volontà di Dio su la terra. Infatti, quando il suo grande avo Cacciaguida ha terminato di rivelargli i dolori e la gloria che l'attendono nel futuro, via via ch'egli li nomina gli spiriti beati trasvolano da un punto all'altro ne' corni della gran Croce luminosa, in cui sono disposti come piú vivi fulgori; e queste luci che furono quaggiú tra le piú alte incarnazioni dell'ideale dantesco quali sono? Giosue e Maccabeo, Carlo Magno e Orlando, Guglielmo e Rinoardo, Gottifredi e Roberto Guiscardo. Il nostro bassorilievo non ci presenta che quattro figure, ma non è senza interesse notare che i primi quattro degli otto nomi di Dante, che sono indubbiamente assai più importanti degli altri quattro, possono bene corrispondere e per il loro valore ideale e per gli attributi esteriori alle quattro figure del bassorilievo, e che il criterio d' interpretazione che a me sembra piú probabile, cioè di vedere in esse due personaggi dell'antico Testamento e due eroi dell'epopea carolingia, trova il suo appoggio anche nel sentimento e nella visione dantesca.

Cosí, pensando alla maniera simbolica di raffigurare la Chiesa per mezzo della gran rosa che ha per centro un punto circolare e vuoto, e perciò luminoso, da cui si partono a foggia di stella dodici raggi, e dodici colonne, e dodici archi, e poi ancóra circoli e gigli, non ritorna alla mente l'immagine della « candida rosa » nella cui forma si rivela al Poeta, all'ultimo grado del suo viaggio,

la milizia santa

che nel suo sangue Cristo fece sposa ?

Certo l'immagine luminosa, maravigliosamente < fulvida di fulgore », mal si conviene

con i poveri mezzi di rappresentazione d'un oscuro artefice del sec. XII; ma questa concordanza tra gl'ingenui tentativi d'un marmorario ignoto e il volo superbo dell' « alta fantasia » mostra sempre meglio la continuità della tradizione e del pensiero religioso del Medio Evo, e ci fa meglio comprendere di che ricchezza nascosta di umili linfe si sia abbeverata e nutrita, forse inconsapevolmente, nell'animo profondo degli artisti sovrani la visione creatrice che essi hanno rivelato nella luce dell'arte improntandola imperituramente del sigillo indelebile della loro genialità. Per questo mi è sembrato non inutile descrivere

piú minutamente i caratteri della decorazione marmorea della facciata di San Pietro in Toscanella, la quale, anche indipendentemente dal contributo che può aver dato a qualche immagine dantesca, resta sempre non solo un esemplare originale e interessantissimo della nostra arte medioevale, ma anche un documento non trascurabile del pensiero religioso del secolo XII e dei rapporti vicendevoli tra il pensiero e l'arte, la fede e la poesia del popolo

nostro.

Caserta, 1915.

AGIDE GOTTARDI.

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Nella notte dal 21 al 22 ottobre 1915 cadeva, fulminato nel petto dalla mitraglia nemica, il figliuolo secondogenito del nostro Direttore,

GIULIO LUIGI DEI CONTI PASSERINI

PATRIZIO CORTONESE E FIORENTINO,

mentre guidava animoso la sua compagnia di prodi all'assalto del formidabile fortino di Globna di Plava, la cui conquista formerà, quando sarà descritta, una delle glorie più luminose di tutta la nostra guerra.

Nato a Roma il 4 di agosto del 1893, e venuto, fanciullo, a Firenze, vi fece, con grande onore, gli studi classici nel R.o Liceo Galilei; ammesso quindi, sulla fine del 1913, nella Scuola militare di Modena, ne uscí sottotenente di fantería di linea nel 1914. Alla dichiarazione della guerra, nel maggio passato, parti pieno di buono ardire per la frontiera, e impavido e valoroso combatté prendendo parte a tutti i gloriosi fatti d'arme svoltisi tra la primavera e l'estate del corrente anno presso la testa di ponte di Plava, guadagnandosi il grado di tenente, l'ammirazione dei superiori e dei colleghi, il fiducioso e devoto affetto dei soldati di quel suo eroico battaglione, al quale Egli aveva dato, per impresa e per segno di fortezza e di vittoria, il motto dantesco: "Con l'animo che vince ogni battaglia ".

Con tale animo l'eroico giovinetto combatté, vinse e morí, vòlto il fervore del suo grande cuore alla futura maggior grandezza dell' " Italia bella ", per la quale avea già a Curtatone valorosamente pugnato il suo illustre Avo, versato a Custoza il suo sangue lo Zio, e al cui vivo costante ardentissimo amore lo avevano educato e nutrito il Padre e la Madre sua, che ora lo piangono morto.

Ma al loro giusto dolore sarà conforto il pensiero ch' Egli è morto da prode, e seguitando le tradizioni patriottiche della sua Casata, ha sacrificato la giovinezza florida e balda perché il nome già illustre della sua gente, per lui fatto più nobile e chiaro, rimanesse inscritto per sempre nelle pagine d'oro della nuova storia d'Italia.

G. L. Passerini, direttore

M. A. PINI.

Leo S. Olschki, editore-proprietario-responsabile.

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Tipografia Giuntina, diretta da L. Franceschini - Firenze, Via del Sole, 4.

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