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sicure, si lasciava andare a escogitare di testa sua quelle spiegazioni che piú gli parevano plausibili. Orbene, a proposito di queste interpetrazioni congetturali, noi studiosi moderni abbiamo sempre il diritto di restare in un'attitudine di prudente riserbo, e non dobbiamo esitare a condannarle, quando per fondate ragioni possiamo opporvene di più soddisfacenti ».

Ben detto ma chi s'è sognato mai di pensare o scrivere il contrario? Io non ho inteso difendere ad una ad una, come altrettanti oracoli, le dette postille, sí da meritare il titolo di « conservatore e difensore ad oltranza », anzi piú d'una volta m'accade di dover dichiarare che il senso di talune postille non mi riesce chiaro o soddisfacente; io ho cercato invece di fondare le mie cengetture e interpetrazioni sull'esame diretto dei versi di

1 Vedasi, per es., sul mio cít. studio la pag. 214, n. 2; 226 n. 2; 227 n. 2, ecc.

Dante e di Giovanni Del Virgilio; e se, tuttavia, nel corso del lavoro m'è accaduto di trovare che generalmente il mio pensiero trovava buon riscontro con quello che è, o a me pare, il senso delle postille boccaccesche, non ho naturalmente esitato a dichiarare, per giusto omaggio a un uomo di studî e d'alto ingegno quale fu Giovanni Boccaccio, che un tale riscontro parevami la miglior riprova delle mie argomentazioni; e ricordando d'altra parte come taluni critici e maestri anche eminenti, nel sostenere questa o quella loro opinione, non dubitassero dare sulla voce al Boccaccio, e chiamare le sue postille persino sciocchezze e corbellerie !, m'è venuto spontaneo concludere (e forse non senza un peccato d'immodestia per me) che la critica moderna, come a tante altre affermazioni del Boccaccio, cosí anche alle postille veniva dando ragione.

Bologna, gennaio 1915.

G. LIDONNICI.

PER UMBERTO MORICCA

Non è certo il caso di raccogliere, specialmente in questo Giornale, tutte le contumelie che Umberto Moricca, insegnante di << materie letterarie nei RR. Ginnasî superiori del bello italo regno », ha, con signorile larghezza, scagliate contro di me, nel suo scritto A proposito della Città di Dite, pubblicato nelle ultime pagine della scorsa annata del Giornale dantesco: quelle contumelie han nociuto più a lui che a me; poiché io, occupandomi, bene o male, da un quarto di secolo, di critica dantesca, sono stato certamente, a quest'ora, giudicato; né, credo, sarà per le contumelie d' Umberto Moricca, che alcuno vorrà riformare il suo giudizio, se questo fu benevolo; o, se fu severo, solo confermarsi in esso: invece, Umberto Moricca, ch'è alle prime armi, per lo meno nel campo della critica dantesca, sarà giudicato, e non da un solo punto di vista, per lo scritto che s'infiora di quelle contumelie; quanto favorevolmente, non sta a me il presagirlo. Insomma, Umberto Moricca s'è punito da sé, piú assai che non avrebbe potuto punirlo con una qualsiasi condanna, in ispecie se condizionale, il giudice competente. A me dunque può bastare

Si noti con quanta finezza d'accorgimento Umberto Moricca usi, parlando di sé, questa perifrasi. Ma l'uso opportuno delle perifrasi è il suo forte: per citarne qualch'altra, scrive poco dopo: « sappia il signor Filomusi ».... «< ch'egli in fin dei conti l'ha da fare con me, cioè con una creatura di Dio, che non ha mai ammesso autorità di sorta sopra di sé ». Una creatura di Dio, con tanta dose di diabolica superbia!

il dimostrar qui, brevemente nulla è piú efficace della brevità, in siffatte dimostrazioni, che tutta la difesa d' Umberto Moricca, in pro dell' altro suo scritto La Città di Dite, ch' io ebbi forse il torto di prendere in considerazione, sia pure per confutarlo, ' altro non è che un vano sforzo, mal dissimulato da lunghe citazioni, d' assai dubbia efficacia, e da lunghissime, inopportunissime note; da sofismi sfacciati, da stucchevoli spiritosaggini e da ingiurie di non dubbia volgarità. Né si vorrà rimproverarmi di non seguitar a considerare Umberto Moricca come un giovinetto; dal momento ch' egli stesso, pur confermando d'essersi laureato in lettere nel 1913, 3 e d'insegnar da soli due anni nei regii ginnasii superiori, dichiara, ed io debbo credergli, di non esser << quel giovincello imberbe » ch'io m'immaginava si tratterà dunque d'una laurea in ritardo, o d'una seconda laurea; -e, quel che più importa, d'essere in latino e in greco, « modestia a parte, un tantino competente »; onde può ormai « trattar da pari a pari » con me.

1 In Giorn. dant., XXI, 1-38.

2 Cfr. i miei Paralipomeni dant.. pag. 239-243. 3 E in che curioso modo lo conferma ! A pag. 264 scrive il signor Filomusi « ha scoperto ».... « ch' io, nientemeno, mi son laureato in lettere, con lode, nell'estate del 1913 »; e a pag. 265: « sappia fin d'ora ch' io mi son laureato invece.... (indovinala grillo !) in letteratura latina ». Chi non si sarebbe aspettato, dopo quell' invece e quell' indovinala grillo, che Umberto Moricca si fosse laureato in matematica ?

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Io aveva giudicato << quanto pretensioso ed enfatico, altrettanto vano e sciatto » l'esordio del suo scritto La Città di Dite: « vano, perché ripete cose notissime; sciatto, perché il periodo sonante non copre cosí le frasi improprie, o vaghe, o scorrette, che queste non dian súbito la misura, confermata nelle pagine successive, dell'abitudine del signor Moricca allo scriver proprio, preciso, corretto ». Or Umberto Moricca non si preoccupa già di dimostrare che non sien pretensiosi ed enfatici quel noi regio ch'egli usa; quello sprezzo che ostenta per i commentatori antichi, eccettuato il solo Boccaccio; quei periodi sonanti, come, segnatamente, il quarto e il sesto del suo esordio; né che non sia una sciatta maniera di scrivere cotesta, « per esser dominati da presupposti erronei »...., « le diverse e moltissime opinioni recano pur sem

1 O che s' avrebbe a dire d'Umberto Moricca che, a proposito della sua lunga ed enfatica similitu dine, « Come colui », ecc. (cfr. 1o scr., pag. 34), tira in campo (2o scr., pag. 286, n. 1) gli esempi dello Zumbini e del Carducci? Paragonare il magistrale e veramente elaborato studio dello Zumbini, sulla storia della poesia sepolcrale; e le dotte osservazioni del Carducci sul Ça ira, con la discorsa d' Umberto Moricca sulla Città di Dite! la sobria similitudine dello Zumbini, e l'artistica descrizione del Benaco, fatta dal Carducci; con quella interminabile e goffa similitudine, in cui Umberto Moricca parla di pericoli, d'ostacoli, di via insanguinata, di triboli e di rovi, di passate afflizioni, di maestà serena, frutto del sentirsi fatto forte dalla fatica! e tutto questo, a proposito di che? di quella sua povera confutazione delle ipotesi del Fornaciari, e delle mie, che precede; e di quell'arruffata esposizione delle ipotesi sue, che segue!

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pre un'impronta », ecc.; oppure, « Mi preme far sin da principio conoscere che nostra intenzione », ecc.; oppure, « per brama urgente di voler vedere in un' allegoria tutto un sistema di sapere teologico »; oppure, le « circostanze su cui poggia l'avvenimento straordinario del mistico viaggio » di Dante; o il parlar della più remota antichità, per i tempi che immediatamente seguirono a quelli di Dante; o l'accozzar l'avverbio certamente col verbo sembrare << mi sembra certamente >> o, infine, di chi giudichi « da un punto di vista troppo soggettivo e conforme a un predeterminato disegno mentale », il dire che s'immedesima « della positura artistica e simbolica delle creazioni dantesche ». Nulla di tutto questo si preoccupa di dimostrare Umberto Moricca; ma, per iscagionare il suo esordio dall' accusa di vanità, s' accontenta di dire che esso ebbe « per iscopo d'indicare al lettore quale sarebbe stato il particolare svolgimento del lavoro senz' accorgersi che i soli due mezzi periodi, che, in prova di ciò, ei riferisce dal suo primo scritto, sarebbero bastati ; e che quell' esordio ei lo scrisse << avendo di mira proprio » me, che « per le questioni attinenti alla Città di Dite non ho fatto che spiegar Dante con san Tommaso ». E mentre, anche qui, da una parte non s'accorge di farmi troppo onore, dato il nessun conto in cui mi tiene; dimentica, dall'altra, che, per la confutazione di quanto io aveva scritto, dal punto di vista teologico, sulle Furie, ei s'accontentò di rimettersi a quella che n' avea fatta Aldo Ferrabino; il che sarebbe un po' strano, se davvero, nell'esordio, Umberto Moricca avesse avuto di mira proprio me tanto piú, che Aldo Ferrabino, come ho dimostrato altrove, non era, di certo, apparso, confutandomi, un dantista cosí autorevole, né un cosí profondo teologo, da doversene accettare in tutto e per tutto, come fece Umberto Moricca, per quello che riguardava me, le conclusioni; dandogli persino lode d'esattezza. In quanto poi al resto di ciò ch' io aveva biasimato nel suo esordio, Umberto

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1 Cfr. i mlei Nuovi Studii su D., pag. 114-117.

Moricça, dopo una deplorevole confusione tra stile e periodare << il mio modo di periodare, ossia il mio stile (ché vale perfettamente lo stesso) » ; dopo aver trattato il Carducci quasi peggio che non tratti me << alle volte il Carducci non sapeva neppur egli che diavolo si dicesse »>, conclude: « a me piace di scrivere precisamente a quella maniera. Che ci vuol far Ella, caro il mio messére? » Ci voglio far questo: dirle che scrive male; e che un insegnante « di materie letterarie nei RR. Ginnasì superiori del bello italo regno » non ha il dritto, specialmente se, col suo sussiego, s'impacci di critica dantesca, di scriver male. E badi che, per recar di ciò quelle prove ch'Ella mi rimprovera di non aver recate prima, non sono uscito dall'esordio di cui discorriamo; anzi, che neppur di questo ho notato tutto quel che ci sarebbe da notare, in punto a forma figurarsi, se « la pregevole virtú » gioiello di frase d' Umberto Moricca della discrezione non m'avesse trattenuto dall'estendere il mio esame al rimanente del primo scritto, e al secondo!

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Umberto Moricca aveva acutamente e sapientemente obiettato: « A me pare che il Filomusi Guelfi ».... « voglia sempre con troppa sottigliezza sillogizzare, pensando ai due titoli delle due opere di sant'Agostino.... »; « io non so rendermi conto del perché Dante stesso non abbia dato a quel cerchio » il sesto dell' Inferno - « il nome di cui fece uso sant'Agostino per l'opera che è l'antitesi della Civitas Dei ». Si può più chiaramente attribuire a sant'Agostino un' opera dal titolo Civitas Babylonis, che è appunto la frase antitetica a Civitas Dei, di cui io aveva parlato? E si può dare una prova piú lampante della propria deficiente preparazione a trattar questioni dantesche? Ebbene, a me, che da quell'attribuzione trassi questa conseguenza, Umberto Moricca risponde imperterrito che fu una svista la sua; che « nel fervore della confutazione »..... << e perciò distratto », parlò < di due luoghi spettanti a due opere diverse di sant'Agostino, come se l' una di queste due opére trattasse tutta quanta della Civitas Dei,

e l'altra tutta quanta della Civitas Babylonis » . Ma sviste, distrazioni di cosí nuovo genere chi arriva a concepirle? Dirò meglio, se fosse un teologo che parlasse della Civitas Babylonis, come d' un' opera di sant'Agostino, si potrebbe pur pensare a una svista, a una distrazione; ché, in un teologo, una svista simile sarebbe certo piú credibile che non l'ignoranza d'una << notiziola non ignorata ormai 1 neppure dal »> barbiere d' Umberto Moricca, << cioè che sant'Agostino non ha scritta una Civitas Babylonis »; ma per Umberto Moricca, che sarà « un tantino competente», com' egli stesso assicura, « in greco e in latino » ; ma in teologia e in patristica, no; via, bisogna pur convenire che le sue prime, chiarissime parole valgon piú della sua novissima trovata. In quanto poi alla « grave obiezione », che Umberto Moricca si vanta d'aver rivolta, nel secondo dei periodi su riferiti, alla mia derivazione della frase dantesca, Città di Dite, dalla frase di sant'Agostino, Civitas Babylonis; e in quanto al rimprovero ch' egli mi fa, di non aver toccato quel tasto; posso dirgli che non lo toccai, non già perché m' imbrogliassi a toccarlo; ma perché « a sé ritorse tutta la mia cura» l' inaudita sua.... svista: alla sua grave obiezione, infatti, avrei potuto, sin d'allora, e senz'alcuna fatica, rispondere, che tra le due frasi, Civitas Babylonis e Città di Dite, non passa che una ben lieve, anzi una quasi impercettibile differenza; poiché, se Civitas Babylonis significa quella città che ha per suo re il diavolo, come spiega sant'Agostino stesso, nel passo del De Civ. Dei (XVII, 16), ch' io citai; e anche in quello delle Enarrationes in Psalm. (LXI, 6), citato da Umberto Moricca; Città di Dite viene a significare città del re dei diavoli; ché Lucifero, « lo imperador del doloroso regno », Dante lo chiama Dite.

Le Furie simboleggiano, per Umberto Moricca, le tre specie di violenza, contro il prossimo, contro sé, contro Dio; al che io aveva

▲ Ormai? Oggi, dunque, l'opere di sant'Agostino van per le mani di tutti? Ma io sono un pedante, a pretendere da un professore di lettere, che si renda conto del valore degli avverbii, prima d' adoperarli.

Giornale dantesco, anno XXIII, quad. I.

obiettato: « come si concilia la violenza con gli allettamenti, con le astuzie della tentazione a peccare? Come si può a un tempo, atterrire e allettare? Come, con la suggestione dei proprii atti e delle proprie paurose sembianze, ammaliare, attirare, conquistare?». E Umberto Moricca mi fa due solenni lezioni; l'una, sul senso di violenza, riferita ai demonii; per concludere che la violenza diabolica è violenza morale; l'altra, sul « come il demonio, pur rivestendo forme paurosissime, riesca nondimeno a tentare, ad ammaliare, a conquistare ». In quanto alla prima lezione, essa è perfettamente inutile; perché, quando si parla di violenza, senz' altro, s' intende della violenza in senso proprio; non già di quella specie di violenza, della violenza in senso metaforico, che è la cosiddetta violenza morale: infatti, Dante, col quale Umberto Moricca distingue la violenza in tre specie; né nel Canto XI dell' Inferno, né negli altri, che si riferiscono ai violenti, a violenza morale non accenna e solo si può intendere per una specie di violenza morale non però nel senso che si dà comunemente a questa frase la violenza contro Dio, che è, in sostanza, la superbia; pur non escludendo Dante che anche contro Dio possa farsi una violenza di fatto rebellio dei Giganti. Né meno inutile è la seconda lezione; poiché, nel suo primo scritto, Umberto Moricca aveva evidentissimamente usati i verbi ammaliare, attirare, conquistare, nel lor senso figurato, che si riduce, per tutt'e tre, a sedurre; ed è fuor di dubbio che con la violenza non si seduce nessuno: non si fa all' amore con le sassate, dice un proverbio abruzzese invece, nel suo secondo scritto, Umberto Moricca parla d'ammaliare, attirare,

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Lo stesso Umberto Moricca, infatti, poche linee dopo avere scritto che « le Furie stesse non s'atteggiano soltanto ad atterrire, ma sopratutto mirano, con la suggestione dei loro atti e delle loro paurose sembianze, quasi ammaliarlo, attirarlo, conquistarlo » ; aggiunge « a me sembra naturale, anzi necessario che le Furie, le quali ad alte grida la chiamano », Medusa, << intendano esercitare anch' esse un funesto potere di seduzione a quei peccati », ecc. (cfr. Giorn. dant., XXI, 25).

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conquistare, nel lor senso proprio. Ora, è naturale che, nel lor senso proprio, ammaliare, ossia accecare; attirare e conquistare possano benissimo riferirsi a una violenza. Umberto Moricca, dunque, cosí nell' una, come nell' altra sua dottissima lezione, gioca di sofismi. In conseguenza, alla mia dimanda principale << come si concilia la violenza con gli allettamenti, con le astuzie della tentazione a peccare? » Umberto Moricca non risponde affatto; ond' io ho tutto il dritto di seguitar a ritenere, che, o le Furie, «intese come emanazione diabolica », simboleggiano la violenza ; e allora esse non possono al tempo stesso simboleggiar la tentazione a peccare; perché, se anche non sempre, il più delle volte il diavolo tenta mercé l'astuzia; e l'astuzia è l'opposto della violenza; o le Furie usano, oltre la violenza, anche l'astuzia; e allora. esse non posson simboleggiare la sola violenza.

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1 Ciò si rileva anche da parecchie di quelle citazioni dello stesso Umberto Moricca, che io ho già dette di dubbia efficacia per la sua difesa : « Satanas ».... << astutiam suadendi habet » (Sant'Agost., Enarr. in Psalm., XCI, 3); cit. da U. M. nel suo 20 scr., 270, n. 1); « deceptiones daemonum » (Sant'Ambr., Comm. in lib. X Evang. Luc., cap. XXI; cit. da U. M. nel suo 2o scr., 273); « Domine, libera nos de laqueo venantium » (Soliloq., cap. 16; cit. da U. M., nello scr. cit., 274); « versutus est enim, Domine, iste hostis et tortuosus; nec facile deprehendi possunt circuitus viae ejus, nec cognosci species vultus ejus » (Soliloq., cap 17; cit. da U. M., scr. cit., 277-278); ecc. E lo stesso Moricca scrive (scr. cit., 276): « il diavolo insidia la vita dell' anima umana ».

2 Relegata in una nota (2o scr. d' U. M., pag. 284) è pure la grave accusa di plagio, che Umberto Moricca mi dà, rimproverandomi d' aver fatta mia un' opi

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