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nega l'esistenza di Dio, osteggia e rinnega del pari i comandamenti di Dio stesso »....; « vale parimenti il caso inverso da me riscontrato in Dante, che cioè chi nella pratica della vita rinnega coi fatti le prescrizioni divine, giunge a poco a poco a rinnegare anche Dio, il che vuol essere il grado ultimo del peccato: l' eresia, che Medusa secondo me simboleggia ». Mirabile modo d'argomentare il rapporto di causa ed effetto, invertito ab libitum! la causa diventata l' effetto; l'effetto, la causa! senza dire, che, certo, non con la sola violenza si rinnegano le prescrizioni divine; che l'eresia non è affatto il grado ultimo del peccato; infine, che anche la Storia ricorda uomini violentissimi, che pur non rinnegarono Dio. Ma, insomma, ho da fargliela io una lezione, breve e chiara, come vogliono essere le lezioni ch' ei pretende di fare, al prof. Moricca? L'eresia nasce o dalla superbia o dalla cupidità, insegna san Tommaso; dunque, solo dalla violenza contro Dio, intesa nel suo vero senso di superbia che abbraccia la madre e la figlia, cioè la superbia, o bestemmia di fatto; e la bestemmia di parole, o bestemmia propriamente detta ; e non dall' altre due specie di violenza, può aver origine l'eresia.

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Io aveva scritto": << Non credo si possa facilmente trovare, nella Sacra Scrittura o altrove, un altro personaggio che riunisca in sé tutte le qualità che Aronne riunisce, e che il messo del cielo alla porta della Città

nione del Fornaciari, senza citarlo; però si guarda bene dal dire quale fosse quest' opinione. Ebbene, si tratta, nientemeno, di questa, che i serpenti delle Furie simboleggino l'inganno (cfr. 10 scr. d' U. M., pag. 16). Ma bisogna esser proprio un ingenuo, o qualcos' altro che non voglio dire, per considerar come plagio l'incontro di due scrittori su d'una cognizione tanto comune, quanto questa del simbolo dell' inganno, attribuito al serpente: anche ai ragazzi, ch'abbian lette le prime pagine della Storia sacra, questo simbolo è noto. Perciò U. Moricca non specifica in che consistesse il mio plagio. E poi accusa me di furberiole matricolate!

1 Summ. theol., II-II, 11, 1. Ma sant'Agost. (De Gen. contra Man., VIII, 11): « Mater omnium haereticorum superbia ».

2 Cfr. i miei Nuovi studii su Dante, pag. 145.

di Dite deve riunire » ; e Umberto Moricca : << Ma non è proprio questo il difetto della sua interpretazione, che sia cioè difficile »..... « l'identificazione di un personaggio, il quale si addica a rappresentare » quel messo? Or a me parve, ed è, evidente, che, mentre io aveva parlato della difficoltà d'identificare il messo dantesco con due personaggi, aventi ciascuno tutte le qualità che tal messo deve avere ; Umberto Moricca parlasse, invece, della difficoltà d'identificarlo con un personaggio solo; ché tanto vale l'identificazione del messo, quanto l'identificazione, come Umberto Moricca s'esprimeva, d'un personaggio il quale s'addica a rappresentare il messo. Di che, dunque, si meraviglia Umberto Moricca, alla mia accusa, di scambiar le carte in mano al lettore? E non ripete ora lo stesso gioco, scrivendo come se parlasse della sola obiezione da me confutata, ma in realtà parlando anche d' un'altra, ch'egli m'avea mossa nel periodo seguente, che, quanto più è difficile trovar nella Sacra Scrittura o altrove un personaggio della portata d'Aronne, tanto meno è da ritener probabile che Dante a un simile personaggio abbia voluto alludere col suo messo celeste »? Poiché, ripeto, non è che sia difficile, per me, identificare il messo dantesco con altro personaggio; trovare, cioè, un personaggio della portata d'Aronne; un personaggio, che risponda, come Aronne, a tutte le note caratteristiche richieste dal messo celeste; ché questo personaggio io l'ho trovato, ed è appunto Aronne, abbastanza noto a

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1 È questa (cfr. 1o scr. d'U. M., pag. 33): « E se il soggetto d'Aronne è cosi peregrino, che nessun altro gli assomigli, perché dobbiam credere che Dante abbia pensato unicamente ed esclusivamente ad esso? >> Ora, questa non è un' esplicazione dell' obiezione precedente, di quella cioè ch' io confutai; ma è un'altra obiezione, ch'io non credetti di dover confutare, sia per amor di brevità, sia perché tale da non metter conto di confutarla: appunto perché il solo Aronne ha tutte le qualità che il messo dantesco deve avere ; o, se si vuole, - benché non sia precisamente la stessa cosa, appunto perché nessun personaggio assomiglia ad Aronne, la scelta non è dubbia il messo dantesco è Aronne; o, per lo meno, Dante ebbe di mira Aronne, nel creare il suo messo.

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chiunque abbia una certa conoscenza della Sacra Scrittura: quel ch'è difficile è trovarne due, Aronne ed un altro. Infatti, Mosè, che qualcuno dei caratteri richiesti dal messo celeste innanzi alla porta del cerchio degli eretici, certamente lo ha; non ha, come io ho dimostrato altrove, tutti quelli che in Aronne si riscontrano; gli manca, anzi, il precipuo, l'autorità sacerdotale. Ma ad Umberto Moricca anche questa dev'esser sembrata una delle mie tante puerili e insensate minuzie, pedanterie, strampalerie, corbellerie, e chi piú n'ha piú ne mettà; onde ha piena ragione di non tenerne alcun conto, come fa pur nel suo secondo scritto; e come séguita a fare anche per il senso allegorico delle rane; malgrado che pur in un passo di sant'Ambrogio, citato dallo stesso Umberto Moricca, queste sieno assomigliate ai discepoli dell'Anticristo il caput malorum, in opposizione a Cristo, caput Ecclesiae; e malgrado che sant' Agostino, come io gli aveva fatto osservare, piú specificamente insegni che « in ranis haeretici intelliguntur atque philosophi ». A proposito della quale mia ultima citazione, non sapendo che opporre a quest'altro argomento, sia pure di secondaria importanza, ch' io recava in pro d'Aronne; Umberto Moricca scende fino a rimproverarmi d'aver pomposamente citato per intero il De convenientia decem praeceptorum et decem plagarum di sant'Agostino, a cui appartiene il passo su riferito; « come se volessi » non comprendo perché non abbia detto addirittura al solo scopo di < gittar polvere negli occhi ». Sicuro, a chi attribuisce a sant'Agostino un'opera dal titolo Civitas Babylonis; correggo, a chi scambia, per pura distrazione, una frase contenuta in un passo di sant'Agostino col titolo d' un'opera di lui; il De convenientia decem praeceptorum et decem plagarum titolo che, tra parentesi, non saprei come abbreviar plausibilmente rebbe stato anche troppo il citarlo per le sole iniziali !

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1 Cfr. i miei Nuovi studii su Dante, pag. 141. 2 Cfr. il suo 2o scr., pag. 272.

3 Cfr. SAN TOMMASO, Summ. theol., III, 8, 8.

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Un' ultima osservazioncella, e avrò finito. Io aveva scritto che Umberto Moricca, pur conoscendo con quali argomenti io aveva rifiutata l'ipotesi che la terzina: «O voi ch'avete gl' intelletti sani », ecc., si riferisse tanto a quel che precede, quanto a quel che segue; e pur accogliendo quella ipotesi, non s'era curato di confutare i miei argomenti. Ebbene, ei non se ne cura, nemmeno nel suo secondo scritto. E sí che ha spese ben ventiquattro delle grandi pagine del Giornale dantesco, per ribattere le quattro paginette della mia Critica allegra che lo riguardano. « Ma questi del proporzionar le pagine d'uno scritto all' importanza di esso << son luoghi comuni, sui quali non mette conto fermarsi, se non per disporre al buonumore » i lettori, ammonisce Umberto Moricca, a proposito delle trentotto grandi pagine del suo primo scritto, delle quali io aveva fatto il novero, non certo per dargli lode d'aver conservata quella proporzione. Ma che sono, in sostanza, le verità vecchissime e indiscutibili, se non luoghi comuni? or mette pur conto di ricorrere a siffatti luoghi comuni; di ricordar, cioè, o d'insegnar certe verità indiscutibili, a chi mostri di dimenticarle O d'ignorarle. Il che mostra anche nel suo ultimo scritto Umberto Moricca, spendendo tante pagine del Giornale dantesco, per difendersi dalle confutazioni d'un Calandrino, d'un dantomane di professione, d'un pedante e sciocco sillogizzatore della forza di diecimila cavalli, d'uno scolaretto che non capisce neppur l'italiano, ecc. ecc.; d'un asino, insomma, com' egli mi giudica. Ed ha un bel dire verso la fine del suo scritto: « a scrivere queste pagine sono stato indotto piú dall'idea di confermare con nuove lucentissime prove le opinioni già sostenute nella mia Citta di Dite, che per mostrare l'inesperienza del signor Filomusi », ecc. La sincerità di questa dichiarazione apparisce proprio ben chiara, oltre che dalle lucentissime prove addotte in pro della sua Città di Dite e dalla gran chiarezza nell'esporle, dall'accanimento contro di me, a cui tutto lo scritto è intonato, e a cui Umberto Moricca, subito dopo essa dichiarazione, torna con nuova lena; prodigando

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BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

ACQUATICCI GIULIO. Minerva oscura?... Ma

cerata, tipografia F. Giorgetti e C., 1914, in-8°. pp. (4).

Annunzia d'aver posto fine a un suo nuovo commento della Divina Commedia fondato per la parte etico morale sulla Bibbia, al fine di rintracciar le fonti donde il Poeta attinse i pensieri, le imagini, i simboli con che ha plasmato tutta quanta l'opera sua. Con tale metodo l'Autore crede di avere finalmente svelato ogni mistero : « Facta est lux nel senso morale.... nel senso allegorico,... nel senso anagogico.... L'Edipo, che sembrava non esistesse, o almeno che stesse ben lontano da noi » è cosi finalmente « fra le nostre mani ». — E ora aspettiamo la publicazione del comento maraviglioso.

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(4764)

AGNOLETTI F. Limiti della osservazione etnologica nella Divina Commedia ». Firenze, tip. di M. Ricci, 1912, in-8°, pp. 4.

Dall' Arch. per l'Antropologia e la etnologia, 1911, fasc. 4o. (4765)

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Vuol dimostrare che se è vero che l'ossa di Manfredi furono disseppellite, l'autore di tale profanazione non poté essere altri che Barlolomeo Pignatelli, sia perché il fatto sarebbe accaduto prima ch' egli si trasferisse a Messina, e assai prima che a Cosenza fosse destinato Tommaso d'Agni; sia perché l'accenno dantesco risponde pienamente al carattere suo e alla lotta che senza tregua egli condusse contro Manfredi, laddove male si adatterebbe al suo successore. Se poi il disseppellimento è leggendario, solo la figura del Pignatelli, battagliera e odiosa, non mai la mitezza di Tommaso d'Agni poté fornirne la inspirazione. (4766)

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ANGELITTI FILIPPO. Le distanze della terra dagli astri: Discorso premesso al Calendario astronomico commerciale di Palermo per l'anno 1911. (S. n.; ma Palermo, 1911), in-8°, pp. 4.

Si parla, con la competenza nota dell'A. in questi studii, delle dottrine degli antichi intorno all'argo(4770)

mento.

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(4776)

BENINI R. Ancóra del grido di Nembrod: Rafel mai amec zabé almi ». (Nel Marzocco, XVIII, 2).

Sostiene, contro lo Scerbo, il quale nel Marzocco combatteva la Nota del Benini publ. negli Atti dei Lincei, che le parole di Nembrod appartengono ad un linguaggio non esistente ma esistito secondo la fantasia di D. prima della confusione babelica; del quale linguaggio l'ebraico del sec. XIV d. C. sarebbe una filiazione piú o meno alterata dal tempo. Per quanto la filologia sia scienza recente, osserva il B., sembra che D. non ignorasse che la parte piú costante delle parole è rappresentata dalle radici. I glossari ebraici sogliono appunto indicare le radici colle rispettive diramazioni di voci derivate, e D. poté rite

nere che l'ebraico prebabelico avesse comunanza di radici coll' ebraico o caldaico viventi. Sicché, per darci un brevissimo saggio di una lingua madre rimasta senza letteratura, servendosi di elementi tratti da lingua figlia e viva, l'Alighieri dovette far ricorso alle radici, parte costante dei vocaboli, mettendoci di sua fantasia soltanto gli accessorii, come le desinenze o la vocalizzazione, in modo da produrre una relativa incomprensibilità di linguaggio. Però il metodo che il B. segue, consiste, sostanzialmente, nello scegliere, tra i radicali ebraici più somiglianti alle parole di Nembrod, quelli a cui si legano i vocaboli di significanza più conveniente alla scena descritta nel XXXI dell' Inferno. Risultamento di tal ricerca la traduzione delle parole misteriose nelle parole: « Gigante — dio di cento cubiti esci a guerra col mio manipolo ». (4777) Cfr. il no. 4870.

BERTACCHI GIOVANNI.

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BRUSCHI GENNARO. Per il Cinquecento dieci e cinque ». (S, n.; ma Spoleto, 1911), in-8°, pp. (4).

Le mattonelle che ricoprivano il soffitto del gran salone del palazzo ducale di Gubbio, riedificato nel Quattrocento da Federico di Montefeltro sopra una più antica costruzione del Dugento, portano inciso uno stemma dove è inquartata con le fiamme de' Montefeltrani e le iniziali F E, Federicus, una sigla formata da un D che racchiude le due lettere X e V, dux, ambito titolo del signore di Urbino. Più antica, indubbiamente, del sec. XV, la sigla si trova in sculture murali e in opere di marmorarii fin dal XIII secolo; quindi sta il fatto che fin dal Dugento in Italia le tre lettere del verso dantesco si trovano intrecciate a significare la parola dux in una sigla nella quale si possono leggere in quel verso che meglio piace.

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