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lato giú come lacrime da una qualche fessura del Veglio di Creta, simbolo forse della degenerata umanità, fluisce il rosso raccapricciante Flegetonte. Ora sul vermiglio rio viene a cadere la pioggia ignea; e le falde ardenti si ammortano stridule su quel bollor dell'acqua rossa. Ma d'esso sale su una nebbiolina spessa, un < fummo », il quale di sopra aduggia, il quale si solleva appena da su delle onde e sparge lunghesse le ripe pietrose umidità greve e pestifera, sospesa sulla superficie del ruscello. I due Poeti procedono su per il duro argine, Vergilio primo e Dante dietro. L'argine è fatto alla guisa di quelli che nelle Fiandre fra Wissant e Bruges fanno lo schermo contro le tempestose onde marine, e fanno lo schermo oggi a ben altro fiotto, o di quelli che difendono lungo la Brenta le ville e i castelli dei Padovani, nella prima primavera, allo sciogliersi delle nevi di Carinzia (Chiarentana).

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Due imagini, queste, di ripe artificiali, forse tra loro per conformazioni diverse, con le quali il Poeta, che quelle nostre co' suoi occhi vide, e quelle fiamminghe udí da' pellegrini o mercatanti contemporanei suoi forse descrivere, dipinge gli argini di macigno di quella landa, che trista s'estende a perdita d'occhio d'ambedue le parti. Le ripe fiamminghe, però, e le padovane devono essere state e piú alte e piú grosse di queste infernali: ma queste sono strette e giungono in altezza alle spalle di un uomo, per quanto n'è dato indovinare nei versi danteschi.

La selva è lontana dagli sguardi, oramai. Inutile volgersi intorno a riguardare il livido. sconosciuto paesaggio, con sopravi il cielo rigato e punteggiato dalle orribili fiammelle. Ma l'incertezza è breve. Ecco apparire di lontano e venir verso i due lungo l'argine, una schiera lunga di spiriti. Giungono frettolosi, e passano. Quando, però, sono presso a' due Poeti, ognuno allunga suo collo a riguardarli,

come suol da sera

guardar l'un l'altro sotto nuova luna.

Sol chi sia stato mai in paesetti nostri medievali, con i vicoli bui incanalati fra torri merlate e aggrondati palazzi, e in essi non usi

illuminazione di fanali tranne che nelle poche notti fra l'una e l'altra nuova luna, può immaginare questo buio e questa scena.

Non so chi abbia una volta acutamente o bizzarramente osservato essere Dante tale mirabile scultore di notturni altorilievi e tal pittore insuperato di spere e di ghirlande luminose quali quelle che sono nella Candida Rosa, solo perché l'occhio suo era stato sempre sin dalla prima infanzia avvezzo alle tenebre peste delle vie fiorentine del suo tempo, le quali quanto più buie erano, tanto maggiore sottilità e intensità di visioni luminose comportavano nella sua rètina. Impossibile immaginar Dante pervagare, con eguale potenzialità e delicatezza visiva, per le piazze e le strade e le case nostre moderne, illuminate dai globi d'opale della sfacciata e cruda luce dell' elettrico. Dante, cittadino della vostra odierna Fiorenza, passando dal suo sesto della Porta di San Piero, illuminato le notti come ora è dalla vivezza della moderna luce, non avrebbe mai avuto forse l'imagine mirabile che cosí perfettamente dipinge l'atto del guardare, cosí di lui che stava sopra sul margine, come di quegli spiriti mali che appena col capo gli giungevano, di laggiú, sino ai malleoli.

E Dante, anzi, non s'appaga di quella imagine sola, che, come consueta, sarà forse a lui parsa non abbastanza efficace. Ma la rafforza e precisa e assottiglia con un'altra, con quella del vecchio sartore che strizza gli occhi a passare il filo per la cruna.

Immaginiamo, dunque, se ci è dato, quei poveri vólti ustionati e sanguinosi, nei quali pure la vista s'è affiochita, che devono aguzzar le ciglia a vedere a pochi palmi di distanza. Che cosa n'è di quelle faccie umane oramai? « Nella faccia, ha lasciato scritto Dante altrove (Convivio, I)

massimamente

in due luoghi adopera l'anima, negli occhi e nella bocca ». Ora, dove sono gli occhi di quei miseri? dove la bocca? dove l'espressione dell' anima ?

II.

Lo adocchiano appena, dunque, con quei loro occhi scerpellini e miopi: e passano fret

tolosi via, tratti d'altra cura e d'altra pena. Ma uno, che lo sguardo ha, forse, se pure vecchio, serbato piú acuto degli altri, lo riconosce, lo afferra per il lembo della rossa veste, e gli grida : « Qual meraviglia ! ». Dante non sa da prima chi quegli si sia. Ma il suo intelletto, la sua memoria, cioè, e il suo intuito, piú che la vista, glie lo fanno riconoscere. Quegli di laggiú ha disteso il braccio e lo ha afferrato per lo lembo. E a malgrado del cotto aspetto », Dante riesce a riconoscerlo. Che cosa importa che quel viso abbruciato renda il disgraziato vecchio, come gli altri con lui, irriconoscibili? Dante ha riudita la nota voce paterna di Brunetto: e da quella, certo, riconosce l'amico suo, assai meglio che per ficcar, come fa, gli occhi in quella tremenda maschera di colui che gli era stato in vita cosi caro.

E quella maschera nera Dante stesso la intravvede, sí e no, in quell' aere tristo: a volte, forse, al lume di una di quelle fiammelle che piovono giú, senza mai cessare, dal cielo, riesce egli anche a intravvedere la luce di quelle semichiuse lacrimanti pupille.

Ma Dante, pur avendolo riconosciuto, non per dubbio, ma per filiale saluto doloroso, pone la mano alla sua faccia, e dice le semplici ingenue parole: << Siete voi qui, Ser Brunetto?».

La grandezza del poema letterato dell'Alighieri è, veramente, in alcune di queste semplici frasi temperate a cote di viva umanità, le quali, oltre a interrompere la monotona eguaglianza dell' altissima materia, sono spiragli attraverso ai quali piú limpida filtra e spontanea la naturale poesia del suo divino ingegno. Gli attori più importanti della prima Cantica e delle altre - da Filippo Argenti alla Francesca, da Ciacco a Brunetto, da Farinata a Ulisse, da Pier da Medicina a Ugolino, dicono parole piane e del volgare quotidiano, le quali dalla nobiltà della cornice acquistano un tutto proprio significato e una nuova profondità.

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Piú che meraviglia, il Poeta, con questa semplice frase, esprime dolore intenso e affetto

antico. Il Latini ha diritto, sí, di meravigliarsi nel trovar Dante vivo, ritto d'innanzi a sé, sull'argine. Dante, invece, no: ché sa. La meraviglia, in Brunetto, dura, tuttavia, un istante solo. Egli sa, come il padre di Guido, giacente nell' arca scoperchiata con il Farinata, sapeva, perché Dante possa trovarsi vivo nell' Inferno. E mentre il Cavalcanti, che meno del Latini Dante certamente conosceva e apprezzava, a voce alta esprime il suo pensiero,

chiede se per altezza d'ingegno tale viaggio gli sia stato concesso, Brunetto non chiede come egli se ne venga né per quali meriti, ma domanda solamente per quale fortuna o per quale destino egli questo suo viaggio faccia tra la morta gente, anzi l'ultimo dí.

Brunetto, dunque, sa quanto l'ingegno e le virtú austere facciano Dante degno di questa soprannaturale esperienza dei regni dei defunti.

III.

Molto sul poco che storicamente ne conosciamo, è stato scritto a proposito di questo Brunetto. Ma anche la sua figura non è quella scialbissima, che quattro o cinque date della storia, quattro o cinque autentici documenti, quattro o cinque passi del Villani o del Boccaccio o di altri commentatori della Commedia, o la sua opera letteraria stessa, ci hanno tramandata e ci rivelano: è quale, invece, Dante l'ha scolpita viva nei terzetti di questo Canto decimoquinto.

Ora, la storia ci dice, sí, press' a poco, la data della nascita del figliuolo di Bonaccorso, la quale dev' essere avvenuta fra il 1210 e il 1230; e press' a poco, ci dà quella della sua morte, che cade nel 1294 o nell'anno successivo. E la storia pure, con precisione maggiore, ci dà notizia di lui tra il 20 di aprile del 1254 per un suo atto di procura da lui rogato, col quale Fiorenza inviava due pacieri a Siena e nelle altre città vinte, e il 1292, nel quale anno si sa essere egli stato consultato intorno alla guerra coi Pisani, che veniva trascinandosi lenta e pigra senza speranza di definitiva vittoria,

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Tra l'una e l'altra data, nel 1260, sap

piamo Brunetto essere stato mandato dai Guelfi concittadini suoi ambasciatore al Capo natural dei Ghibellini, ad Alfonso X re di Castiglia. Ora, come nell' assenza sua dalla patria, la sua parte subisce la rotta e il massacro di Montaperti, Brunetto si esilia in Francia, a Barsur-l'Aube. Nel 1269, dopo Benevento (1266) e il rimpatrio degli esuli, lo troviamo protonotaro di Giovanni Brittaldi vicario di Toscana per l'Angiò. Nel 1273 è scriba e dittatore del Comune di Firenze. Due anni piú tardi, console dell'Arte dei Giudici e Notari. Nel 1286, è nominato mallevadore guelfo nella pace del Cardinal Latino e nella costituzione della Lega di Genova e di Lucca contro ai Pisani. L'anno successivo, lo troviamo appartenere al Collegio dei Priori.

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Breve gruppo di date certe, questo, che, se ci offre le tappe piú gloriose di una modesta. vita di benemerito ma oscuro cittadino, non ci aiuterebbe, certo, senza il Canto della Commedia, a scoprire in luce di verità la fisionomia del Notaro.

Piú che l'esattezza delle date, ci dicono di lui alcuni passi del Villani, che lo descrivono << cominciatore e maestro in digrossare i fiorentini e in saper guidare e correggere la nostra Repubblica secondo la politica ». Se pure il Villani ne dica tanto bene e, in altro periodetto, lo esalti gran filosofo e sommo maestro di retorica, tanto in bene sapere dire come in dittare », scarsa fama ha egli, il Latini, dietro di sé lasciata ai posteri. A pochi decenni di distanza dalla sua morte e dalla sua sepoltura in Santa Maria Maggiore, nessuno a Firenze, nella sua città, quasi piú lo ricorda. Cosí che il Boccaccio, nel trattatello della sua vita di Dante, non fa cenno del notaro; e altrove si limita a dire, sulle notizie stesse che Dante dà di lui ne' suoi versi, poco più di questo: «e cosí mostra l'autore che da questo ser Brunetto udisse filosofia, gli ammaestramenti della quale, siccome santi e buoni, insegnano altrui divenire eterni ».

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Questa minor parafrasi delle notizie del Latini, che sono in Dante, trae maggiore lume, forse, da questo passo del Bruni. Il quale, dopo averci detto dell'Alighieri che, fanciullo, perdé il padre, « nientedimanco confortato dai propinqui e da Brunetto Latini, valentissimo uomo secondo quel tempo, non solamente a letteratura ma a degli altri studi liberali si diede, niente lasciando indietro che appartenga a far l'uomo eccellente ».

I propinqui, dunque, e Brunetto avrebbero confortato Dante fanciullo della morte del padre, con la filosofia. Possiamo accettare cosí, senz'altro, questa informazione? O non piuttosto dovremo attenerci all' affermazione di Dante stesso e all' opinione di coloro che hanno scritto aver egli il Poeta cercato conforto della morte di Beatrice nella varia filosofia, e specialmente in certi convegni fiorentini di filosofanti aristotelici, súbito dopo il 1291, ai quali certo il Latini deve aver presa parte attiva? Ora, fra questo anno 1291 e l'anno della morte del Latini, corrono tre o quattro anni appena. E Dante era uomo maturo fra i ventisei e i trent' anni, in quel tempo; e certo la sua mente dev'essersi maturata assai prima di allora nell' abito costante degli studî filosofici.

IV.

Come, dunque, è da escludere, crediamo, il parer di coloro che in Brunetto hanno voluto considerare il maestro elementare dell'Alighieri; cosí ci piace imaginare che l' affettuosa consuetudine intellettuale dei due non debba venir limitata a quei tre anni ultimi della vecchiaia del Latini. Assai prima che nel 1291, Dante deve aver appreso, se male non giudichiamo dalle sue confessioni medesime e dall' opera sua, come l' uomo s' eterni. E Brunetto, ch' era stato notaro e cittadino per quarant' anni almeno, durante quella laboriosa fermentazione del popolo vecchio, durante quella fusione lenta della rozzezza antica del popolo grasso con la gentilezza nuova della borghesia e dell' aristocrazia, durante quel primo mirabile destarsi della cultura e della poesia, deve avere, ben prima che ne' suoi

anni senili, scoperto e amato e confortato il genio dell'Alighieri,

Si afferma già viva, infatti, la nuova poesia, in Firenze, intorno al 1283, o giú di lí. Parrebbe, dunque, possibile che Brunetto, poeta egli stesso, più o meno celebrato autore del Trésor e del Tesoretto, in quel beato

tempo che Fiorenza

fiorio e fece frutto,

si ch' ell' era del tutto la donna di Toscana,

avesse ignorato la giovinetta gloria dell'Alighieri? La città, dentro dalla sua cerchia d'allora, dev'essere stata cosí piccola e stretta dentro sé, che tutti quanti quei rari ingegni de' nuovi poeti e studiosi, assetati della cultura nuova, devono essersi ogni giorno imbattuti per le vie, e l'uno all' altro dev'essere stato conosciutissimo. Tanto piú, quindi, quel notaro già vecchio, la cui opera principale Li livres dou Trésor (1262-1266) era stata forse, oltre che ridotta in versi e cantata per le piazze, il primo e più noto testo contemporaneo di quel rifiorire degli studî, deve avere conosciuto tutti quanti, e giovani e vecchi, che a quella opera di rinnovamento spirituale e intellettuale venivano dedicando la vita. E fra tutti, certo, il prediletto di quell'enciclopedista, dev'essere stato l'ingegno di Dante.

E in Dante deve, più che altro, averlo attirato quella sua insaziabile sete di cultura, quell' austerità inflessibile dell'ingegno, quell'amor suo disperato alla patria.

E Brunetto, a Dante, oltre che affetto e conforto, deve avere sempre dato esempî alti di nobiltà rara d'ingegno e di vita: ché, altrimenti, l'Alighieri, sempre con sé medesimo cosí aspramente schietto e sincero, non avrebbe dedicato a questo peccatore vecchio, dannato per il piú sozzo dei vizî, tutto intero un Canto, come rare volte aveva fatto nella Commedia ; né a lui tanto ossequio riverente avrebbe egli, pur dopo la morte e nella pena della immonda colpa, dimostrato.

Noi ben sappiamo quanto duro egli sappia essere con altri peccatori, pure meno colpevoli. Ricordiamo la sua ferocia con Filippo Argenti

egli, poveretto, gli si volge paternamente sí, ma con timore ch' egli possa aver di lui ribrezzo,

(O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latini un poco teco

ritorna indietro e lascia andar la traccia),

con Brunetto egli è pieno di riguardi e di deferenza. < Quanto posso, ven preco », gli risponde súbito, e gli dà del voi, in risposta al tu famigliare del vecchio. E gli offre di assidersi, s'egli lo voglia e se Vergilio glie lo conceda. Ma Brunetto questo non accetta: ché peggio sarebbe per lui, e per cento anni dovrebbe giacersi, se s'arrestasse punto, senz' arrostarsi, senza farsi, cioè, vento con la rosta, col ventaglio delle misere mani e col vento della corsa.

E Dante, che naturalmente non osa scendere, per paura dell'infocata rena, dal ciglione per dove va, tiene il capo chino, « com' uom che reverente vada ».

Brunetto chiede chi il Duce di Dante si sia: Dante, però, risponde evasivamente, e non ne dà il nome, forse perché al Latini poco Vergilio era noto, come qualcuno ha suggerito. Ora, Vergilio, nella risposta di Dante, lo reduce a ca', a casa sua, cioè, nella vita serena, per questo calle, verso salvazione.

Ma il notaro profetizza a Dante, un po' piú chiaramente che Farinata non avesse già fatto, e meno assai lucidamente di quanto farà più tardi Cacciaguida, la trista sorte che a lui si spetterà di subire per opera di quell' ingrato suo popolo maligno, orbo, avaro, invidioso e superbo, che, disceso di Fiesole al piano, tiene tuttavia del monte e del macigno. Ma a malgrado della mala sorte, che gli spetta, egli il poeta non può fallire a glorioso porto, ché la sua fortuna gli serba tanto onore, che l' una parte e l'altra, che gli è e gli sarà nemica, avrà fame di lui. E questo egli non soltanto, Brunetto, la cara e buona imagine paterna », lo sa dal passato della sua propria vita :

Se ben m'accorsi nella vita bella;

ma lo sa dal fatto che Dante è pianta,
In cui rivive la sementa santa
di quei Roman,

e con Ciacco. Con Brunetto, invece, che pur che fondarono con quei Fiesolani la città d'Arno.

Grato è Dante di questa dolorosa e gloriosa profezia. Tanto che a Brunetto, oltre a esprimere la sua gratitudine per l'insegnamento che ad ora ad ora gli aveva dato nel mondo, promette di ricordarsi per sempre di quanto gli ha detto:

Ciò che narrate di mio corso scrivo,

e serbolo a chiosar con altro testo

a donna che il saprà, s' a lei arrivo.

E per rassicurare il povero vecchio, aggiunge:

Tanto vogl' io che vi sia manifesto
pur che mia coscienza non mi garra
che alla Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova agli orecchi miei tale arra.
Però giri Fortuna la sua rota

come le piace, e il villan la sua marra! Magnifico gesto di superbia, rivelatore della magnanimità naturale del Poeta. Un'alzata di spalle, tutt'altro che retorica e convenzionale, che ben egli è animo da tanto. Più tardi al suo avo crociato egli domandando spiegazione ulteriore perché << saetta previsa vien piú lenta» affermerà:

Dette mi fur di mia vita futura parole gravi; avvegna ch'io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura.

Onde Cacciaguida, altro « amor paterno », con chiare parole e con preciso latin, gli svela il futuro imminente. E Dante se ne consola con questo maschio proposito:

Ben veggio, padre mio, sí come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi

tal, ch' è più grave a chi piú s'abbandona ;
per che di provvedenza vuol ch'io m'armi,
sí che, se loco m'è tolto più caro,
io non perdessi gli altri per miei carmi.

Propositi, questi, di un' alta e salda volontà, pronta a dominare l'ostile destino, con la coscienza certa d'infuturare la vita vie piú là che la perfidia dei contemporanei. E come Cacciaguida conchiuderà la sua profezia con un ammonimento morale:

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gota destra, dopo il protratto silenzio, lo riguarda e gli dice corto: << Bene ascolta chi la nota ». Poiché l'esperienza del mondo defunto sarebbe meno che vana, se Dante non avesse a trarne la morale e l'insegnamento.

མ.

Sino a questo momento, tuttavia, né da Dante né da Brunetto abbiamo udito ragionare in alcun modo e pur accennar della colpa, che fa quest' ultimo andare con la sua greggia continuamente sul sabbion caldo. Reticenza rispettosa, discretezza ammirabile, per la quale la misera figura del Notaro sbalza viva e quasi senza macchia su dalla gratitudine devota del superstite poeta. E se non fosse per l'aspetto suo doloroso, per il paesaggio tragico che lo circonda e per quanto egli verrà ora dicendo, noi non potremmo, in verità, scorgere nella figura di Brunetto quella di un colpevole di colpa infame, quella di un dannato senza speranza.

Ma come Dante suole sapere i più noti e più sommi suoi compagni, Brunetto dice: Saper d'alcuno è buono,

degli altri fia laudabile tacerci,

ché il tempo saría corto a tanto suono.

Una infinita turba di gente, insomma, e tutta compresa in quella definizione generica: << tutti fur cherci »>,

E letterati grandi e di gran fama, d'un medesmo peccato al mondo lerci. Ecco, finalmente, nota a noi la turpe colpa. E tre di loro ci sono svelati nei nomi: un grammatico, un giureconsulto, un teologo, Prisciano di Cesarea o Prisciliano, come altri vorrebbe, Francesco d'Accursio bolognese e il vescovo fiorentino e vicentino, Andrea de' Mozzi. Dell' infame peccato Brunetto fa due allusioni: l' una, quando lo definisce tigna, servendosi d'un tropo, l'altra, quando, con una scurrile imagine a proposito del Vescovo, parla del Bacchiglione,

Dove lasciò li mal protesi nervi.

Tutto il Canto, dunque, è casto. E sola v' emerge in altorilievo notissimo la paterna dolce figura del digrossatore Notaro, del vol

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