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garizzator di cultura, del fine intenditore di poesia, se pur rozzo, del Tesoretto e della canzonetta amorosa: S' io son distretto.

Vorrebbe egli, forse, parlar d'altro ancóra Brunetto, e continuar con Dante, che piú mai non rivedrà, quella loro dolce conversazione, in cui si tocca del passato di lor due e del futuro di lui e di Fiorenza. Ma non può. Ecco nuovo nugolo, nuovo « fummo » surger su dal sabbione all'orizzonte. Sono altre masnade, ree d'altre colpe. Ed egli, non deve mescolarsi a loro. E a tagliar E a tagliar corto, poiché non gli resta piú il tempo, non con un convenzionale inutile saluto o altro convenevole, ma con l'idea di trattar cosa urgente, egli prende frettolosamente commiato da Dante:

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terzina a chiusa del Canto, e del colloquio con Dante, che per meriti suoi proprî d'arte o di poesia.

Onde, quando la dolorosa figura del Notaro si rivolge e riprende la corsa affannata lungo l'argine, e si sperde via dalla nostra vista nell'aria di color perso e di notte meschiata di falde di fuoco, via di qua dal vermiglio Flegetonte, noi invidiamo a quell'autore del Tesoro, che i posteri suoi conoscono e conosceranno solo di nome forse, e piú che per la vita e l'opera sua propria, per la seconda vita ch' egli immortale vive nella Commedia, poiché egli all'Alighieri è parso simile a coloro :

Che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quegli che vince, non colui che perde.

Non, dunque, simile all' ultimo arrivato, vincitor irriso di un gallo, che dalla campagna alla Porta veronese del Palio egli doveva per beffa arrecare, è apparso a Dante e appare oggi a noi ser Brunetto Latini, sul punto d'uscire dalla vista dell' ultimo uomo vivo; ma vincitore primo, conquistatore del drappo verde, drappo che ha il colore della speranza immortale.

Firenze, Orsammichele, 18 marzo, 1915.

ANTONIO CIPPICO.

« VENDETTA DI DIO NON TEME SUPPE »

Studio critico delle spiegazioni e nuova interpretazione
secondo la filologia e la storia.

Sino da quando, nella scuola secondaria, un dotto e venerato maestro spiegava ai miei condiscepoli e a me le parti più belle della Trilogia dantesca, io non restai convinto della interpretazione, che, dietro i commentatori allora piú in voga, ci faceva conoscere del verso 36 del Canto XXXIII del Purgatorio.

Un giorno, nel quale, adducendo con giovanile baldanza alcune ragioni, feci nota la mia miscredenza in quella spiegazione che il prelodato insegnante dichiarava la piú autorevole e comune, mi ebbi in risposta con un fare fra il dolce e il brusco: Studiate, escogitatene una migliore, se vi riescirà: io non saprei né potrei dirvi altro.

Cresciuto negli anni e nelle cognizioni, non dimenticai il consiglio del bravo e buon vecchio; studiai la Commedia del divino Poeta, la sua biografia, lessi piú commenti o altri consimili lavori mi fu possibile, esaminai molti dizionari della lingua italiana dal fascicoletto di Gasparino Bergomense al voluminoso dell'Accademia della Crusca, consultai molti

vocabolari etimologici, scórsi quanti lavori speciali sulle suppe dantesche mi venne fatto di avere, e mi convinsi maggiormente che neppure la interpretazione, che, in generale, si adotta, regge a una critica seria, ad un esame intrapreso, senza preconcetti, in modo non servile ai responsi di alcuno dei commentatori o dei dantofili, autorevoli in tanti altri punti della esegesi dantesca.

Dopo molte letture e un lungo studio fatto con amore, mi formai un' altra interpretazione, della quale il mio criterio si appagò. Pubblicando oggi il risultato di tutte le disamine e riflessioni fatte, e il modo col quale giunsi alla spiegazione, a mio avviso, giusta e compiuta dell'accennato verso e relativo terzetto, provo nondimeno una qualche titubanza all'idea che l'aver osato di contrastare, sia pure su un solo punto, l'opera più volte secolare di tante e tante elette intelligenze, possa apparire temerità, sfrontatezza piú che audacia. Mi rinfranca però d'altro canto il pensiero che quanti, competenti, onoreranno della loro attenzione il mio lavoro, si compiaceranno di giudicarlo, come loro parrà, dopo arrivati all' ultima linea. Un altro motivo m' incoraggia, ed è che su un'opera nazionale, retaggio sacro di tutti, la quale disgraziatamente racchiude tuttora qualche enimma che non si riescí a decifrare, qualche parola o locuzione di significato tuttora controverso, ognuno può, anzi deve, interloquíre, se vi si accinga con la debita cognizione e con amore. Del resto, la nuova soluzione che, dopo di aver dimostrato l'inconsistenza delle soluzioni altrui, rendo di pubblica ragione, si propone alla critica competente, com'è naturale, e non s' impone: domanda anch'essa il suo posticino modestamente al sole in un tempo di libera discussione, di critica multiforme e generale. Non avrà valore e ne sarà dimostrata la fal

Giornale dantesco, anno XXIII, quad. II.

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lacia, dovrà rientrare nelle tenebre donde uscí; ma se l'affetto per questo figlio ch'è costato fatiche non poche e qualche sacrificio, non fa velo al mio intelletto, mi si permetterà di sperare che qualche cosa varrà e che sarà preso in considerazione. Infatti, sebbene il prof. Bellezza abbia sentenziato nel 1913 che le zuppe dantesche sono << zuppe indigeste per gl' interpreti », ho, terminando questa prefazioncella, l'ardire quasi di credere che a me non abbiano fatto indigestione, e di potere quindi dire col divino Poeta :

se la voce mia sarà molesta
nel primo gusto, vital nutrimento
lascerà poi quando sarà digesta.

* **

L'esame delle opinioni manifestate sino ad oggi sul verso surricordato, comincia naturalmente dal sec. XIV. La ragione precipua per attenersi a quella interpretazione, che indubbiamente domina il campo e si accetta e segue dalla grande maggioranza dei dantofili e letterati, è stata ed è che sono dichiaratamente unanimi e concordi le risposte degli espositori contemporanei del divino Poeta. Anche se ciò fosse assolutamente vero, non sarebbe parmi una tal ragione di per sé sola sufficiente. Troppe risposte di contemporanei, in casi simili, sono state posteriormente dalla critica scientifica o letteraria riconosciute in tutto o in parte erronee o inesatte, pur prescindendo da ciò che è fuori del terreno letterario, delle scienze storiche e morali. Ma fra breve mostrerò che esaminando ben addentro le prericordate risposte, non sono, come si è affermato, tutte identiche, e anzi vi è, tra' commentatori, alcuno, il quale, dando un commento simile in parte ad altri, lo modifica in altre parti: vi ha chi aggiunge dei dati, chi ne tace, o li altera talmente da produrre qua e là come un concetto differente e nuovo, atto a portare la questione su una via altrettanto diversa.

Sotto il nome alquanto elastico di glossatori contemporanei di Dante, ma certamente del secolo XIV, si pongono come Toscani,

Pietro, uno de' figliuoli di lui, l'Anonimo Fiorentino, l'Autore del Commento chiamato l'Antico o l' Ottimo, l'Autore delle Chiose già attribuite al Boccaccio e Francesco da Buti. Fuori di Toscana lavorarono a commentare la Divina Commedia nel secolo XIV, e spesso si classificano come contemporanei del suo Autore immortale, Iacopo della Lana, Benvenuto Rambaldi, noto piú comunemente sotto il nome di Benvenuto da Imola, o l' Imolese, l'espositore Cassinese, cioè l'autore delle postille di un celebre codice del monastero di Montecassino, e l'autore delle Note Cagliari

tane.

Vediamo la spiegazione che tali commentatori danno del passo. Vedremo quindi quanto sieno concordi.

Pietro cosí chiosa (« Petri Allegherii commentarium super Dantis ipsius genitoris Comoediam, curante Vincentio Nannucci ». Fir., Angelo Garinei, 1846, pag. 532): « Qui hoc fecit, speret punitionem Dei, quæ non timet illam abusionem Florentinorum, quæ est, cum aliquis magnus occiditur, custoditur ejus sepulcrum die noctuque ne super ipsum infra novem dies offa sive suppa comedatur. Alii dicunt quod ultio de tali occisione fieri nequiret ».

Nel commento d'anonimo fiorentino edito a cura di Pietro Fanfani (Bol., Romagnoli, vol. 3, in-8, 1866, 1869, 1874), si legge (pagg. 529, v. 2) ove spiega la terza delle otto cose che dice toccate nel Canto da Dante: « Si è da sapere che la giustizia di Dio comporta un tempo oltraggio et persecutione, poi mette mano alla spada, vendicasi, giudica et punisce cotanto acerbo quanto è la misura della colpa: et fa queste vendette in diversi modi; e (pag. 531): « La punizione di Dio, la quale non teme zuppe. Solevasi anticamente, chi aveva fatto alcuno omicidio, acciò che non fosse vendetta, andare sopra la sepoltura dello ucciso, et mangiarvi suso una zuppa, dicendo et sperando che poi di tal morto non si farebbe vendetta; et per questa cagione i parenti del morto guardavono sopra la sepoltura nove di continui et nove notti, acciò che questo non intervenisse ».

La chiosa del commento detto l' Ottimo, edito a cura di Alessandro Torri (Pisa, Ca

purro) è la seguente: << Nota che questo è tratto da una falsa opinione che le genti aveano, le quali credeano che se lo micidiale potesse mangiare infra certi di una suppa in sulla sepoltura dello ucciso che di quella morte non sarebbe mai vendetta. Onde l'autore dice: Iddio non ne cura di tali suppe ».

Le chiose sopra Dante, date già del Boccaccio, hanno, e ricopio l'anonimo testo come fu pubblicato (Firenze, Piatti, 1846, pagg. 514515) laltore fa che Beatricie gli narri la vendetta che in brieve tempo sara fatta de pastori di santa chiesa e che iddio non teme suppe questo dicie pertanto cherano cierte gienti erroniche che credevano e credono e chosí si dicie per loro che quando uno a morto un altro e poi faccia la suppa e mangi sopra quel corpo morto che mai poscia non se ne fa vendetta e questa usanza arrecho charlo sanza terra di francia che quando egli isconfisse e prese churradino chogli altri baroni della magnia e fecie tagliare loro la testa inapoli e poi dicie che feciono fare le suppe e mangiarolle sopra que corpi morti coe (cioè) charlo chogli altri suoi baroni diciendo che mai non se ne farebbe vendetta e pero dicie che iddio non teme queste suppe chessue vendette rimanghono affare maindugiare puote ».

Il da Buti glossò il noto verso nel modo seguente nel suo commento pubblicato per cura di Crescentino Giannini (Pisa, fratelli Nistri, 1860, II-813): « Questo dice perché è vulgare opinione dei Fiorentini, non credo di quelli che senteno, ma forsi di contadini, O vero che sia d'altra gente strana: unde l'autore lo cavò non so; non de' essere che non sia dacché l'à posto; che se alcuno fusse ucciso, et infra li nove dí dal dí de l' uccisione l'omicida mangi suppa di vino in su la sepoltura, li offesi non ne possano mai fare vendetta; e però quando alcuno vi fusse morto, stanno li parenti del morto nove dí a guardare la sepoltura, acciò che li nimici non. vi vegnino o di dí o di notte a mangiarvi suso la suppa; e però dice l'autore che la vendetta di Dio non à paura d'essere impe

dita ch'ella pur verrà ad effetto, che chi arà divisa la chiesa ne patirà la pena per la iustizia di Dio ».

Cosí opinarono interpreti Toscani passiamo ai non toscani. Tolgo la glossa d' Iacopo della Lana nei termini che seguono dall'edizione di Bologna del 1866 (Regia Tipografia), t. II, pagg, 395: « Qui il Poeta in- . tromette una usanza ch'era anticamente nelle parti di Grecia in questo modo, se uno uccidea un altro ed elli potea andare nove dí continui a mangiare una suppa per die suso la sepoltura del defunto; né '1 Comune, né i parenti del morto non faceano piú alcuna vendetta. Or vuole dire l'autore che perché li mali pastori e li stupratori della Chiesa continuóno per molto tempo lo peccato e la colpa, che la vendetta di Dio non teme suppe; cioè non perdona, s'ella non cominisura tanta pena quanta avviene alla colpa commessa ».

Deve notarsi che l'editore, prof. Scarabelli dichiarò in una nota: « La prima parte della chiosa è Lanea ma corretta dal codice LVI marciano, in che gli altri non mi chiarivano », che pur dichiarò avere il detto Codice introduce invece d' intromette (e poteva senza alcun disutile tacerlo) e che conteneva di séguito alla parola vendetta il seguente brano ch' egli ripudiò come glossema : « E usasi a Firenze di guardare per nove di la sepoltura di uno (pag. 396) che fosse ucciso acciò non vi sia suso mangiato suppe ».

Aggiungo, rimandando il vedere e giudicare la causa di quel ripudio, ciò che lo Scarabelli dà in proposito di suppe, senz' alcuna sua osservazione, traendolo da altro Codice Marciano (IX, 31): Era questa una persecuzione del VIIII di che lo offenditore aveva si fato suolo ofesa che altri non li aveva per lui a fare, né poteva reputare tale offesa esser sua», e poi « continuò per molto tempo cioè fuzando non prescriveno che Dio non è sotto quella legge greca sí che sua vendetta non teme suppe». Lo Scarabelli, dopo citata, Dio solo può sapere come, questa roba, credé senz'altro aggiungere : << Fra questo Codice

e i lanei chiaro si vede che si riferisce Dante a una superstizione greca».

Del commento di Benvenuto da Imola si suole citare il passo seguente: «Nota etiam quod in Florentia solebat esse quaedam opinio, prava firma, quod si quis poterat comedere offam super corpus interfecti a se, numquam amplius fiebat vindicta de illo tali. Et hoc fecerunt multi famosi Florentini, sicut dominus Cursius Donatus ». Alcuni anche: « Modo ad propositum dicit Beatrix quod vindicta Dei non timet suppas, quasi dicat quod fraus vel malitia non valet contra Deum, qui est judex et vindex injuriarum ».

Questo è il commento completo al verso 36, ma cominciando: Nota etiam, parmi che gli si debba unire il commento pure del verso precedente: Chi n'ha colpa ecc. che è come segue: Heic nota, quod ista litera potest intelligi dupliciter, scilicet de Bonifacio secundum propriam expositionem, qui fraude adulteravit Ecclesiam, Et sic Bonifacius bene luit poenam dignam, quia rabida morte perdidit papatum. Potest intelligi de Philippo rege, scilicet secundum expositionem, qui fecit Ecclesiam servam pacificando turpiter cum Clemente. Et sic Philippus etiam in brevi luit poenam »

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Ecco ora la nota del Postillatore Cassinese, che estraggo dalla lettera di Eustazio Dicearcheo (padre abate di Costanzo) « Di un antico testo a penna della Divina Commedia di Dante con alcune annotazioni sulle varianti lezioni e sulle postille del medesimo», (Roma, Fulgoni, 1801); « Tangit auctor de quadam superstitiosa re, quæ fit in non modicis locis,

1 L'avv. GIOVANNI TAMBURINI, nel v. 2, pag. 636, del suo Benvenuto Rambaldi da Imola, illustrato nella vita e nelle opere e di lui commento latino sulla Divina Commedia di Dante Alighieri voltato in italiano, (Imola, Galeati, 1856), cosí diede il « Commento di Benvenuto » in volgare « ma chi n'ha colpa creda che vendetta di Dio non teme suppe. Filippo rese schiava la Chiesa, e fece vergognosa pace con papa Clemente, ma ne pagò il fio, come abbiamo nel Canto X del Paradiso. Correva poi in Fiorenza un' opinione, e ritenevano molti che se l'uccisore potesse mangiare in certi giorni una zuppa sulla sepoltura dell' ucciso, di quella morte non sarebbe mai vendetta. Ne fece esperimento Cursio de' Donati. E Beatrice, dice in tal senso, che la vendetta di Dio non teme zuppe ».

et præcipue Florentiæ; videlicet, ut attinentes alicujus occisi custodiant novem diebus ejus sepulchrum, ne suppa comedatur per partem adversam supereo in illud tempus, aliter credit, numquam vindictam de tali omicidio fieri debere ».

L'annotatore, col quale chiuderò questa esposizione di commenti di suppe del sec. XIV, è quello del Codice Cagliaritano. Esso cosí si esprime < El vaso che fu entendo la santa umile povera onesta fedele virtuosa de xpo apostolica evangelica xpiana bene ordenata santissima ghiesa no mo chi na colpa crede che vendecta dedio no teme suppe dicieno li antichi che la persona che uccideva un altro che colui chavia morto andava poi sopra la fossa dovera sepolto el corpo chelli avia morto et mangiava ivi una suppa che mai poi del deto morto no se poteva farne vendecta. Ma dio non teme queste suppe sí che de neciessità conviene che la vendecta sia de colui che fa contro el volere de colui che po ciò che vole ». 1

Ho riuniti cosí con esattezza i commenti del sec. XIV, cioè quelli che meritano di piú, propriamente parlando, nome di antichi, e dei quali conviene prima e maggiormente dei posteriori tenere conto, perché il raffrontarli accuratamente postili insieme sotto lo sguardo dei lettori, reputo che, per una possibile soluzione del problema, sia un punto fondamentale, rispetto al quale altri debbono passare in seconda linea.

Avanti d' imprendere il detto raffronto credo non superfluo dichiarare che avevo pensato di farlo precedere da uno studio che determinasse quale commento fu scritto cronologicamente piú dappresso alla morte di Dante e quale, nel secolo XIV, sia da lui piú remoto; che disquisisse e fissasse se più antichi com

1 Il Ferrazzi, dando tale squarcio nel suo Manuale (v. IV Bibliografia, 1871, pag. 412) dice che il Codice Cagliaritano è della prima metà del 300 e fu ignoto al De Batines. Nota poi che le Chiose sono guelfe e il copista, secondo lui, pare senese e non intelligente.

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