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di ripetere lo stimmatizzamento già con la debita efficacia inflitto dal Bellarmino a una

e alla scienza: del resto qualche padre Gesuita parlò di Dante piú saviamente di qualche laico che se ne diceva studioso ammi-interpretazione, che faceva di Dante, invece ratore !

Ma venendo a ciò che piú davvicino concerne al tema, dico che il p. Venturi si limitò a scrivere : « Non teme suppe. Il Daniello bruttamente aggrava il Poeta interpretando questa suppa per il sacrifizio della Messa, che si fa di pane e vino consecrandosi; e cosí ancóra l'interpreta, secondo la sua empietà, quel Calvinista rigettato dal Bellarmino, il quale prudentemente interpreta questa suppa conforme il Landino, l' Imolese e il figliuolo di Dante commentatore di suo padre. Egli è adunque da sapersi che di que' tempi in Firenze vi era questa sciocca superstizione onde la gente si persuadeva che chi in termine di nove giorni mangiasse la suppa sopra la sepoltura dell'ucciso, dopo commesso l'omicidio, non poteva poi per vendetta di quello essere da altri ucciso. Il senso è: Iddio non teme né cura questi impedimenti superstiziosi, sicché lo ritengano dal pigliarne giusta vendetta; e vien cosí a liberare quell'espressione dalla taccia d'irriverente che si meriterebbe posta in quel senso, e a giustificare il Poeta dall'accusa di temerario ». 1

Non comprendo la vera ragione di quello sciocca e di quel prudentemente, per nulla necessari, che il Venturi poteva lasciar nella penna, senza che il periodo e il concetto espressovi ne restassero minimamente alterati. Comunque però si pensi su ciò, il Venturi, che si era presentato come autore di nuove note, brevi, ma sufficienti, a bene spiegare Dante, e spesso diverse dalle antiche, non mostrò nel punto in questione novità alcuna, né vera sufficienza; accettando il commento degli antichi, come se in tutti e in tutto fosse interamente identico; falsò quel commento, scrivendo il generico altri invece di parenti o di parenti e consorti: piú e meglio, di quanto sino allora sulle suppe si diceva, nulla chiarí, come se avesse avuto principalmente in mira

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d'un cattolico di propositi e di studi austeri, un riprovevole miscredente. '

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L'opera del Venturi ebbe nondimeno, è dovere di giustizia il riconoscerlo, anche pel favore datole in generale dai componenti la Compagnia a cui apparteneva, un'importanza da non trascurarsi, in quanto modificò o menomò le prevenzioni contro la Divina Commedia e il suo autore, pur non annientando tutte quelle che il Foscolo poi chiamò (Discorso cit. pag. 470) imputazioni gesuitiche; il lavorío cui crudamente disse di eunuchi metastasiani e arcadici congiurati, a parer suo, a esporre Dante alla derisione del mondo: la ebbe pur a malgrado della qualunque efficacia delle lettere bettinelliane di Virgilio agli Arcadi.

Nel 1747 pubblicandosi (Matriti, in-fol.) l'Index librorum prohibitorum, non vi si lesse piú parola della censura del commento, né di mutilazione del Poema dell' Alighieri: piú tardi un Cardinale rifece con magnificenza l'avello di Dante, ch' era stato ristorato sullo scorcio del secolo XVII da due Legati fiorentini (v. Descrizione del sepolcro di Dante rifatto dal cardinale Valenti Gonzaga, Firenze, 1780); e Pio VI accoglieva benigno la proposta, che il suo nome, di capo supremo del cattolicesimo, si sotterrasse in Ravenna con l'ossa del Poeta, il cui lavoro (io pressoché riporto qui parole del Foscolo. Disc. cit., pag. 471) esaltato dall' Inquisitore, stava per stamparsi alle porte del sacro palazzo in Vaticano.

Pel famoso cantore dei Sepolcri, molte nuove opinioni si promovevano (pag. 470) per

1 È opportuno notare qui l'opinione manifestata nel secolo XVIII in proposito dal Cesarotti (Saggio sulla filosofia della lingua, ecc., pag. 113) nello squarcio seguente: « Chi perdonerà a Dante stesso che credé di rappresentar degnamente la giustizia infallibile dell'offesa Divinità coll' alludere a una sciocca superstizione della plebaglia di Firenze in quel verso singolare: La vendetta di Dio non teme suppe? » (In Padova 1802, presso Pietro Brandolese, ediz. V).

impeto di fatalità: si approssimava la Rivoluzione e quest' ultima osservazione è assai nel vero, ma varie viete idee erano cadute, e l'ostinazione in altre nell' argomento aveva subito un crollo ben prima del citato rifacimento di tomba e della citata compiacenza pontificia, e molto prima della data del placet accordato all' edizione nella capitale del mondo cattolico. Non fu dunque, tutto, nella modificazione delle opinioni dovuto alla forza cieca e fatale delle cose: v' ebbe pur parte la volontà degli uomini che, mutando i tempi, si erano vòlti a nuovi e migliori pensieri, a studi a mano a mano men parziali, piú.profondi quanto piú sereni, che non pel passato, del Poema altissimo. Nei fatti suaccennati non fece tutto, ripeto, il fatale andare delle cose, ma un po' c' influí il merito personale di certi o certi altri individui, e cosí io almeno, penso pur sulla istituzione posteriormente fatta in Roma d'una cattedra dantesca per parte d'un altro papa; sull'aver aperto agli studiosi dell' universo gli archivi vaticani, sottoponendo la Chiesa al confronto dei documenti e al giudizio della storia. Quanto del resto a Dante, non per impeto di fatalità si mutò una parte della pubblica opinione: v' influí la stessa grandezza di lui, che s'impose sempre piú in chi seriamente, comunque pensasse in politica e in religione, ne fece assidua e sottile meditazione; in chi cercò davvero rinsanguare là propria erudizione dantesca, indagando opportunamente nel terreno della filologia e della storia senza opportunistici preconcetti come senza dilettantismo.

Comunque, nel 1791 si avverò il fatto, prima inaudito, dell'apparizione d'un'edizione in Roma della Divina Commedia, e di un Commento, tutt'altro che ottimo e perfetto, ma migliore in generale di tutti quelli del tempo passato.

L'edizione in tre volumi assai bella, usci dalle stampe Fulgoni, a cura d'un Liborio Angelucci, che la dedicò al cardinale D. Diomede Casimiro Caraffa dei principi di Colobrano. Il nuovo commento che ebbe chiose abbondanti, ben più ampie di quelle del Venturi, e che riepilogava delle controversie, per

tali motivi e perché lo si diceva, ignoro se veramente, e in tal caso in quale misura, riveduto dal celebre Ennio Quirino Visconti, (era però opera del frate minore conventuale p. Bonaventura Lombardi) andò, come suol dirsi a ruba, e le edizioni spesseggiarono, tostoché fu diffusa ed esaminata questa nuova correzione, spiegazione e difesa del testo della Divina Commedia. E cominciò allora un movimento di studi danteschi che non si interruppe piú, sebbene, a parlare con verità, i resultati generali siano stati forse inferiori a quelli che farebbero supporre la quantità ingente delle pubblicazioni di ogni fatta, lo strabocchevole numero degli scrittori, cultori di Dante, non certo tutti produttori di grano gentile; ma, astraendo da alcuni, meri disseminatori di loglio, di gramigna e ortica, in buon novero dotati gli altri di altezza d'ingegno, di vastità e profondità indiscutibile di dottrina, di valore metodico d'indagini, accoppiato in buona misura a quel senso storico che è oggi carattere spiccato della scienza.

Dei giudizi che sono stati espressi sull'opera del Lombardi mi sia concesso ricordare quello del Foscolo, prima di esaminare ciò, che nel commento del 1891 si opinò sulle suppe. Io trovo non poca veridicità in quel giudizio (Discorso cit., pag. 472), quantunque viga l'idea che il Foscolo batté il Lombardi aspramente. Il Foscolo scrisse : « Il Lombardi, opponendo fatti veri, perseveranza di metodo, e senso comune, redense il Poema dalle imputazioni gesuitiche, e dall' autorità conceduta sovr'esso alla critica della Crusca. Se non che, o non vedendo, o piú veramente non potendo, più in là, tenne le allusioni alla religione fra' termini degli antichi. Non migliorò il modo usato d'esposizione, ma ne scemò la verbosità e sciolse nodi spesso intricati dagli altri. Era anzi temprato ad intendere che a sentire la Poesia, o forse a non potere esprimere . quant' ei sentiva. Scrive duro ed inelegante; per non dire plebeo: e non giureresti che fosse dotto ».

Prescindendo da qualche esagerazione nelle parole della parte critica, da qualche soverchia crudità di certe dizioni, e mutando religione

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in papato, e, se piace, anche in chiesa, è, ri peto, molto vero nel riferito giudizio foscoliano; e che il nuovo commento fosse superiore ai precedenti, sotto piú riguardi, si pare ancóra da varî commenti posteriori, che qua e là furono del lombardesco rifrittura, o ricamatura più o meno abile e compendiosa. Relativamente però al nostro passo, il p. Lombardi fu anzichenò meschino. Non seppe e non poté nulla far di meglio che riportare la chiosa del p. Venturi, facendole seguire le parole seguenti: Aggiungasi anche il Buti. Vedilo nel Vocabolario della Crusca alla voce suppa » (ediz. di Padova 1822, parte 2a. pagg. 778-80, ediz. di Prato 1847-52, pag. 426). A conferma maggiore, a parere del Lombardi, della interpretazione Venturi stimò efficace il ricordare i versi 115 e s. del cosí detto Credo di Dante sul corpo confitto e sul sangue sparso dimostrato all'altare, del Cristo, per l'umana denzione, concludendo: non potersi combinare con tal fede << la rea pretesa espressione ». In sostanza la questione delle suppe, salvo l'aver ribadito le ragioni già esposte a sufficienza dal Bellarmino contro l' interpretazione del Daniello e del Calvinista, fece tutt'altro che un passo, col Lombardi stesso, verso una definitiva e soddisfacente soluzione.

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Passo al secolo XIX.

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Dopo il Daniello, in tal guisa, niuno né laico né ecclesiastico, osò innovare, commentando la dantesca trilogia, in proposito alle suppe. Avrò torto, ma io credo di vederne per gli scrittori ecclesiastici la precipua causa nella formidabile autorità del Bellarmino, e per gli altri letterati nell' autorità non meno imponente del Borghini, anzi in materia di lingua volgare, cioè letterariamente a quella del cardinale, teologo insuperabile soprattutto, ben superiore; due autorità alle quali non cosí di leggieri dové parere di potersi ribellare, dando comunque la stura a conati d'innovazione sulla cosí detta uniforme vecchia chiosa.

Non si ebbero infatti, per un certo numero di anni, lavori nuovi, che richiamassero effica

cemente l'attenzione pubblica, dopo la pubblicazione del Lombardi. All' aprirsi del nuovo secolo fece impressione sugli studiosi della Divina Commedia, la Lettera, da me già ricordata, diretta a un Angelio Sidicino, scritta da Montecassino ai 15 luglio 1800, da un Eustazio Dicearcheo, che fu edita, come indicai, << pel Fulgoni» in Roma, ma che è ora da me riletta nel Dante detto di Padova, o altrimenti della Minerva (ediz. del 1822, vol. V). Sotto quella mascheratura onomastica si celava, e tosto si seppe, don Giuseppe Giustino di Costanzo, padre abate dei monaci benedettini di S. Paolo, morto poi nel 1813, uomo assai dotto e di Dante studioso. Dopo aver data (pagg. 235-236: nella stampa Fulgoni è a pag. 79) la chiosa latina che a suo luogo riportai sul non teme suppe, il prenominato Dicearcheo, cioè il Di Costanzo, scrisse: « sebbene di questa strana costumanza ne parlino gli antichi e i moderni Comentatori, ho voluto trascriverne il racconto per due ragioni: prima, perché ci fa sapere che tale usanza non era soltanto in Firenze, ma anche in non modicis locis; laddove Benvenuto coi susseguenti Comentatori ne ragionano come di usanza semplicemente fiorentina; e cosí pare prima di costoro ne ragionasse Francesco, figliuolo e comentatore di Dante. In secondo luogo, perché il nostro Postillatore ne parla come di costumanza sussistente quando scriveva; e all'incontro i sopra allegati Espositori la riportano come cosa già disusata ai tempi loro; dal che si può dedurre che l'autore del nostro COmento è molto antico ».

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Senza dubbio la nuova chiosa era d'importanza, ma anche in parte portava qualche stonatura all' armonia vantata del coro.

Nel 1804 la Società Tipografica, Classici Italiani, a Milano pubblicava in tre volumi la Divina Commedia « illustrata di note da Luigi

1 Per comodo di chi possedesse l'opera « Le principali cose appartenenti alla Divina Commedia, Roma, De Romanis, 1817 », ov'è anche una erudita lettera del Bottari, noterò che troverà pure ivi la lettera del Di Costanzo, e a pag. 81 la chiosa su suppe, e a pagg. 81-82 il passo che ho ritrascritto.

Portirelli ». Tale annotatore parlò di suppe nel vol. II a pag. 424. Spiegò il passo « Tenga per certo che la vendetta di Dio non man. cherà di fare il suo corso »; diede quindi la spiegazione dell' origine della frase non teme suppe, secondo il testo d' Iacopo della Lana, quale era e quale si citava, prima del rimaneggiamento critico fattone poi per la Commissione dei Testi di Lingua, dallo Scarabelli. La citazione fu fatta dal Portirelli nei termini seguenti: « Qui 'l Poeta intromette un'usanza ch' era anticamente nelle parti della Grecia, che se uno uccidea un altro, ed egli potea andare nove di continui a mangiare una suppa suso la sepoltura del defunto nel Comune, i parenti del morto non faceano piú nissuna (pag. 425) vendetta. E usasi a Firenze di guardare per nove di la sepoltura d'uno che fosse ucciso, acciò non vi sia suso mangiato suppa ». Dopo ciò il Portirelli che, nella prefazione al primo volume, aveva largamente lodato il padre Lombardi e notata la lettera da lui data, nel 1801, sul Codice Cassinese da lui scoperto, avente postille marginali e interlineari, dichiarò: « L'autore delle postille al Codice Montecassinese fa una nota uguale a questa, se non che egli omette di trarre di Grecia una tale usanza, e non solo l'attribuisce a Firenze, ma anche ad altri non piccoli luoghi. Del resto anch' egli ne parla in modo come se ancora fosse praticata a' suoi tempi ». Il prof. Portirelli, è da notare che fece conto solameute del Della Lana al riguardo, e del postillatore Cassinese, per la sua convinzione che il Della Lana fosse coetaneo di Dante, e le postille Cassinesi più antiche del commento dell' Imolese, che pur era dei primi, precedessero al 1368 (Purg., XX, 69) e avessero con le chiose lanee frequentemente somiglianza, cose non tutte certe né esatte com' egli credeva, tanto da fondare solo su esse un serio argomento.

Si arriva cosí al 1818, senza che nei commenti danteschi, si abbandonasse il sistema ordinario di ogni maniera di commentatori, sempre e per tutto, di più o meno ripetere il già detto dai predecessori, specialmente nei passi meno perspicui; di dare una prosecu

zione di arie o ariette, a dire cosí, tradizionali ormai, sui medesimi motivi, appena qua e là ritoccando o ricamando leggermente un punto o un altro, senza però variare il concetto principale e fondamentale quasi fosse stereotipato. Ciò è particolarmente vero per le suppe, discorrendo o scrivendo delle quali, solamente da taluno, si è aggiunto talvolta qualche riflessioncella, agevole anche a critici non valenti, addentante il Daniello o chi, se anche non per le stampe, in privati letterari colloqui, si mostrasse in modo piú o men reciso disposto a seguirlo, dimenticandosi del dotto lucchese e ciò pur dopo i tempi di cui parlo i non pochi meriti interpretativi che, da una strambería non potevano esser ridotti al nulla, togliergli il diritto ad essere, nel complesso dell' opera sua, stimato, ricercato e sfruttato. Ma un bel dí dell' anno 1818 si cominciò fra noi a vociferare di una nuova interpretazione delle suppe di Dante, pubblicata a Parigi. Infatti Giosafatte Biagioli l'aveva data in un suo commento, che fini di uscire dai torchi nel 1819 (Dondey Dupré), iniziando una specie di ribellione al vecchio responso, il quale a malgrado che oggi i ribelli sieno una sequela non indifferente, è rimasto, presso la maggioranza dei dantisti e in generale dei letterati, trionfante e glorioso. Il Biagioli, persona invero cólta, d'ingegno vivace, non scarsa di acume, aveva esposta la nuova chiosa illustrativa, insieme con una beffa alle vantate < concordi testimonianze di tanti interpreti autorevoli ». Come ognuno può immaginare, tutti gli studiosi del poema dantesco, quelli anche che allora erano ciò che potrebbe dirsi la gramigna del dilettantismo, acquistarono l'opera, che conteneva la decantata scoperta, talché presto di quel commento intraprese una edizione nuova a Milano, una ditta accreditata (Silvestri), nel che non credo errare vedendovi pure un indizio che molti, senza dirlo spiattellatamente, taluni anche senz' averne piena coscienza, non stimavano, non sentivano evidente, soddisfacente in tutto e sicura, come lo è di tanti altri passi, la spiegazione dominante da secoli dei versi 35-36 del XXXIII del Purgatorio.

Il responso del nuovo commentatore fu: Suppe dal lat. supus, onde il franc. souple, pieghevole, cedevole, soffice, s'usa dal poeta in sentimento di blandimenti, lusinghe, parole, atti o fatti, lustre o soje, intese ad addolcire l'ira altrui o ad ingannare ricoprendo sotto quel velo la verità. Ecco il senso vero di questa frase la quale ha fatto dar nelle girelle tutti quanti gli spositori di Dante; e conosco un amico il quale per aver tanto riso quando lesse la prima volta quelle tantafere n' ha ancora le mascelle sghangherate ».

Si comprende a tutta prima, come tale spiegazione del Biagioli ebbe presso i lettori cólti d'ogni sorta, invece di plauso o di approvazione, riprensioni e specialmente dileggi. Quei che allora e poi coltivavano lo studio di Dante, commentandolo o no, trovarono anche in altri squarci del nuovo interprete un pascolo per risa, che più o meno beffarde e aperte sono durate sino agli ultimi tempi. Esempi ne capiteranno nel progresso di questa concisa rivista. Noterò qui che nel Dante di Padova, famoso sotto nome della Minerva, cui editori erano stati Giuseppe Campi, Fortunato Federici e Giuseppe Maffei, si legge nelle Giunte, dopo citato il Biagioli (io ho l'edizione Passigli di Prato 1847-52) a pag. 426, (e autori delle Giunte furono Urbano Lam

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predi e Dionigi Strocchi): Rida egli pure a tutta voglia coll' amico suo, ma sappia intanto che in Italia da piú d' uno si ride di lui Fu questa una critica delle piú moderate. In una delle meno temperate e urbane tenne a segnalarsi Pietro Fraticelli, il quale alludendo al commento del Biagioli (Studj ed osservazioni sopra il testo delle opere di Dante. Firenze 1873, pag. 125) lo qualificò « le sue buffonate » qualificando il Biagioli stesso di « caratterista» della Compagnia degli espositori danteschi. Peccato che uomini dotti non sieno

sempre, come dovrebbero, gentili! È ben vero che il Biagioli aveva già dato in ciò malo esempio, coll' essersi mostrato acerrimo oppositore e non raramente ingiusto, fra altri, del p. Lombardi. Si fece a lui ciò che egli aveva fatto, come se davvero qui gladio ferit, ecc. Tornando all' argomento delle suppe, devesi

riconoscere che il Biagioli, primo fra i commentatori, ebbe il merito d' intendere che per giungere a una retta interpretazione del passo, ove quella parola si trovava, bisognava ricorrere anche alla sua etimologia; cercar di coglierne, tra i vari, il significato piú opportuno, ma fu questo merito in lui unico e solo, memtre ebbe più d'un torto, non lieve né tenue, nel soddisfare al compito assuntosi: ebbe torto nel far l'etimologo senza la debita preparazione, per cui ignorò e non tenne conto di tutto quello che, a dritto o a rovescio, si era scritto sino allora etimologicamente, o meno, su quel vocabolo: torto nell'essere stato inurbanamente aggressivo dell' opinione altrui : torto infine di essersi data l'aria d'oracolo, e di avere, come Sibilla, di sul tripode, bandita a' quattro vènti come vera la nuova parola, invece di sottoporla con serena modestia all'attenzione e al giudizio dei competenti. Io ho talora pensato meco stesso che se quando, ex cathedra, come fosse stato l'infallibile pontefice del Dantismo, il Biagioli emise la sua trovata, si fosse saputo ciò che sto io per dire, non solo si sarebbe attirato addosso parole di satira e di spregio, quali gli piovvero da tante parti, ma avrebberlo dilaniato nell'onore, come letterato e come uomo: avrebbe servito egli stesso in quel riguardo da zuppa. Infatti la interpretazione del Biagioli non era sua, non era vera né nuova, e mi stupisco che niuno se n'accorgesse dei tanti eruditi del tempo, e non glielo rinfacciasse. Era vecchia fino alla decrepitezza, esistendo da più che 90 anni, poiché datava dal 1726! Anton Maria Salvini, stampando in quell'anno, in Firenze, le sue annotazioni alle Commedie di Michelangiolo Buonarroti iuniore (stamperia di S. A. R.) si era occupato, in cinque passi, della parola suppa, poi ortografata zuppa. Al passo della Fiera « A chi fa loro la zuppa », scriveva (pag. 423): « zuppa, lat panis ex

1 È indubitabile che il Biagioli attinse dal Salvini errò su souple dietro il Salvini, levando da supum ec. (mentre è da supplex col mutamento di u in ou). L'arrendevole poi della Fiera gli suggerí il pieghevole, cedevole, e.... tutto il resto.

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