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interna apparizione: ma li socchiudiamo per vederla meglio. Ella scende dal suo trono paradisiaco per salvare l'amante dai traviamenti folli.

<< Io era tra color che son sospesi

e donna mi chiamò beata e bella,

tal che di comandar io la richiesi »

È l'ancella di Maria: non avvelena e corrompe l'umanità, ma la redime: è Beatrice.

<< Io son Beatrice, che ti faccio andare;

Vegno di loco ove tornar disio;

Amor mi mosse, che mi fa parlare

È Beatrice, «loda di Dio vera ».

E cosí, se nella Vita Nova Dante ha ritolto la donna a Lucifero per restituirla all'amore degli uomini, nella Commedia egli fa di piú, assegna alla donna una missione,, fonde l'idea dell'amore con quella della grazia di Dio. Il cuore dell' uomo può essere devastato da tremende passioni: l'ambizione delusa, l'orgoglio umiliato, la speranza stroncata, possono trascinarlo fino al segno di bramare e compiere il male anche quando la ragione, nei suoi momenti di calma, ne sente orrore profondo. La donna deve essere la buona scorta lungo il pericoloso sentiero, vigilare i pensieri del suo compagno, aiutarlo nelle ore di sconforto, lenire l'amarezza delle sue disgrazie, allontanare da lui le tentazioni della vendetta e della disperazione.

Questa esaltazione dell'amore il poeta l'ha compiuta forse inconsapevolmente, poiché fu occupato da piú vasti disegni. Egli si proponeva di fare un poema allegorico: Vergilio doveva essere il simbolo della scienza umana, e Beatrice quello della scienza divina. Ma Dante era scolastico soltanto superficialmente; portava la veste dei tempi. Dante era nato poeta: ecco perché ora noi, che piú non siamo stretti dalle pastoie del suo abito scolastico, vediamo immensamente crescere di giorno in giorno il valore di quella materia che egli, trascinato dal suo fervore, plasmò cosí bella che di sotto al colore del tempo trasparisce e trionfa come nuda carne vivente. Ecco perché per noi Beatrice non è filosofia e non è teologia, ma è la Beatrice della Vita Nuova e, piú ancora, è la donna ispiratrice del pensiero e dell'arte, quella che aveva aperto alle prime dolci canzoni il cuore del giovine amante.

E come in Beatrice, cosí in tutte le sue creature, la Commedia è l'esaltazione di ogni nobile forma di vita. Dante guarda la realtà in faccia. Sul margine del sabbione infernale è costretto a gridare all'ombra di Iacopo Rusticucci che

<< La gente nova e i subiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata »

nel seno della sua guasta Firenze, ma non per questo sente scemare nel cuore la nostalgia del suo bel << San Giovanni ». Il suo amore è sempre là, nel luogo dove ha respirato il profumo della prima poesia, dove ha imparato à parlare la dolcissima lingua.

Egli ha l'animo carico di sdegno,

«ché le città d'Italia tutte piene
son di tiranni ed un Marcel diventa
ogni villan che parteggiando viene ».

Ma la nausea delle discordie fratricide, il disgusto dell'arrogante montar della plebe, sfumano per incanto quando egli vede Vergilio e Sordello abbracciarsi teneramente al solo nome della terra natia. La Patria è più in alto. Si può scagliare la scomunica contro coloro che la tagliano a brani e ne barattano le mutilazioni, e in nome suo delinquono in mille modi: ma non la si può maledire.

Egli ha sofferto sotto i colpi dell'umana ingiustizia; l'hanno cacciato, l'hanno condannato

e nessuno si è alzato a difenderlo a viso aperto. Marco Lombardo, tra la fastidiosa fumea degli iracondi, gli dice con amarissima voce:

<< Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? »

Ma il poeta alza il viso allo splendore del sesto cielo e sente come le luci dell'Aquila santa cantano le lodi dell'eterna giustizia.

Cacciaguida gli annunzia le angosce dell'esilio.

<< Questo si vuole, questo già si cerca,

e tosto verrà fatto a chi ciò pensa

là dove Cristo tutto dí si merca »,

ma l'esule, come non ha maledetto la Patria, cosí non maledice la Chiesa che è più in alto degli uomini che la contaminano.

Nessun dolore, nessuna offesa è capace di flettere il coraggio di quest' uomo meraviglioso, a cui l'ira non offusca mai il discernimento, e la disperazione non spegne mai la carità latina. Le grandi opere d'arte nascono dal dolore, come dal marmo percosso fioriscono le statue. Per liberarsi dalla dura eredità del pianto, l'artista moltiplica in sé il martirio che la sorte gli ha destinato, e in questa intima rinnovazione della sofferenza trova per sé l'ebbrezza e per il mondo crea il fantasma in cui l'ebbrezza s'incarna. E cosí Dante, dopo che gli fu vietato il ritorno in Firenze, se già dalla chiusa della Vita Nova aveva promesso di fare cosa che mai avrebbe veduto oscurata la sua bellezza nei secoli, vide venir su il poema dalle quotidiane amarezze della sua inattesa sventura, lo sentí scaturire da un dolore che ben era piú forte e profondo di quello che la morte della sua gentilissima gli aveva cagionato. Egli non era piú soltanto il vedovo amante: ma era l' uomo diseredato; non era piú soltanto il cantore del dolce stil novo, ma era tutto l'antico spirito italico, quello che si era miracolosamente salvato attraverso le bufere longobarde, franche e germaniche, per restituire al mondo le leggi e le glorie di Atene e di Roma. La patria lo aveva messo al bando, poiché ormai la libertà comunale aveva cessato di trionfare. Leggiamo le tristi parole con le quali egli stesso, nel Convivio, ci parla del suo esilio e della sua nostalgia.

<< Poiché fu piacere dei cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuor del suo dolcissimo seno (nel quale nato e nudrito fui fino al colmo della mia vita e nel quale con buona pace di quelli desidero con tutto il cuore di riposare l'animo stanco e di terminare il tempo che mi è dato) per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando sono andato, mostrando contro a mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno senza vela e senza governo portato a diversi porti, e foci, e lidi, dal vento secco che vapora la dolorosa povertà. E sono vile apparito agli occhi a molti che forse per alcuna fama in altra forma mi aveano imaginato; nel cospetto dei quali non solamente mia persona invilío, ma di minor pregio si fece ogni opera sí già fatta come quella che fosse a fare ».

Quanta composta e tragica amarezza in queste sue parole. Come vanno diritte al cuore quelle frasi ove piú egli parla dell' invilimento del suo nome, della sua persona e dell' opera sua, quasi che lo spregio dei ricchi, e l'oscurità della sua vita vagabonda avessero potuto contaminare il lavoro faticoso del suo pensiero con l'ombra della sua tristezza. Andò povero, di porta in porta: quasi come un cieco girovago, tese agli amici ed ai potenti quella sua mano scarna che portava tra ruga e ruga il peso eterno dei secoli, che nascondeva tra vena e vena la fiamma delle stelle. Andò povero e solo, di paese in paese, ed ebbe la sua ombra e i cani randagi per compagni su per le petrose giogaie dell' Appennino, ed ebbe i sogni per lampada notturna lungo le dolci marine adriatiche, ed ebbe per gioia il suo misterioso silenzio sui ponti merlati dell' Adige. Quanto sia dura e pesa la rugginosa catena della povertà « intender non la può chi non la prova »: ma piú dura e piú grave è per gli spiriti forti che si sentono infinitamente più in alto di quelli a cui, per l'implacabile fame, sono costretti a domandare l'amaro pane quotidiano: piú dura e piú grave è la vergogna per quelle pallide fronti che stan

fiere e diritte anche quando si curvano, che, pur quando s'inchinano dinanzi al diadema d'un re, sentono intorno ai loro vasti pensieri una piú nobile corona.

E cosí Dante assaporò a goccia a goccia il fiele delle umiliazioni. Oh! il suo poema non è visione, è vita: non è fantasia, è realtà, è realtà di quella sua vita errante, di quel suo pellegrinaggio di nave senza vela e senza governo. Di rancore in rancore trascinò il suo petto sdegnoso, con la fatica dei tormentati alla spinta dei massi infernali; restrinse il suo animo e domò l'urlo delle sue superbe rivolte, imponendo alla sua cervice il macigno delle cariatidi; ebbe gli occhi trafitti dalla vista della sua solitudine, come quelli che la divina giustizia cucí col ferro alle anime affisse contro la roccia del secondo girone; sentí struggersi il corpo dal fuoco delle arche roventi, lo sentí assottigliarsi nel digiuno come quello di Forese; si sentí piú volte le palpebre gonfie di pianto, e gelò le sue lagrime tra ciglio e ciglio, e le inaridí per non vedere piú bieco lo scherno dei suoi persecutori, e le ribevve per non cessare un solo istante d'essere uomo.

Chi avrebbe potuto resistere all'acerbo esilio senza imprecare contro la creazione e contro la fortuna che spesso assegna le gioie a chi non le merita e priva della patria chi piú l'adora? Quale altra mente avrebbe potuto vedere tanta somma di mali senza convincersi che tutto quello che esiste è male, che tutto quello che visse fu male, che sarà male e dolore anche tutto quello che domani verrà? Ma ogni sorso di fiele bevuto, ogni singhiozzo represso, ogni ingiuria non detta al destino, se scavarono nel suo cuore un solco sanguinoso, tracciarono però nella sua fantasia un arco di vivo splendore, uno di quegli archi prodigiosi che egli lanciò dall' una all'altra colonna del suo paradiso, facendo risonare ogni vibrazione di luce come fiato spiritale in canna d'organo. Invece di maledire, egli cantò il poema dell'eterna benedizione: invece di demolire ad uno ad uno gli antichi pilastri del mondo, egli li trasfigurò in purezza di cristallo e in ciascuno fece rifulgere un sole; invece di bestemmiare il seme dell' umana generazione, egli lo raccolse, piamente, lo baciò con venerazione e lo ripose nella zolla perché crescesse in spiga d'oro; invece di rinnegare Dio che agli uomini senza legge e senza cuore permette di vivere e di essere glorificati nelle vittorie, egli s' inginocchiò come San Francesco sul monte della Verna, s'inginocchiò sulla nuda terra, la buona madre di tutti, e tese le mani al cielo per avviluppare ogni astro coi veli di un angelo, per mettere nell'azzurro ogni anima d'uomo ben vissuto, metterla viva nell'azzurro come una stella nuova.

L'anima dell'esule, anche dove parla delle sue sciagure, è rivolta sempre alla luce dell'altezza; anche quando nella sua voce sentiamo il tremore dei singhiozzi, lo vediamo con la fronte alzata, nella positura di quei santi che Giotto affrescò in tanta semplicità nelle sue luminose dipinture.

Mentre in tutto il medioevo i Manichei avevano diffuso un pò dovunque l'eresia che l'uomo, in quanto è carne e materia, è opera dello spirito del male, Dante non si stanca di ripetere ad ogni occasione e sempre in modi nuovi che solo

<< la mala condotta

è la cagion che il mondo ha fatto reo,

e non natura che in voi sia corrotta »>.

Se dunque l'anima umana è essenza incorruttibile, deve tendere e giungere ad ottimo fine. Egli non si fa persuadere al pessimismo dall'esperienza dei mali veduti e patiti, ma conserva intatta la sua fede nella bontà della vita.

Le leggende di viaggi nei regni della morte erano sgorgate della fantasia e della superstizione delle moltitudini atterrite. Dante le raccoglie cou altra anima. Egli non vuole aumentare la paura dell'al di là ma distruggerla. L'esistenza è piena di tante vergogne e di tanti delitti che ognuno facilmente perderebbe la speranza di passare illeso tra le sue tempeste, se non potesse trionfare delle tentazioni mediante la coscienza della bruttura della colpa e della bellezza della virtú.

<< Temer si dee di sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
dell'altre no, ché non son paurose ».

Giornale dantesco, anno XXIV, quad. II.

12

Gli asceti si erano appartati dal mondo perché temevano di riceverne male; Dante non teme di essere offeso, ma pensa che la vera virtú cristiana sta nell'ardire della lotta contro gli assalti della perversità. L'uomo è libero e la sua libertà si concilia con l'onniscienza di Dio per un prodigioso mistero; se l'uomo è libero, è anche artefice della sua fortuna. Quindi ciò che nobilita la nostra vita è l'azione, nelle sue molteplici manifestazioni: è la filosofia, l'amore di ogni utile studio; quest'attività ci conduce al conseguimento della serenità terrena, cioè al paradiso terrestre, e, di là dalla vita, alla contemplazione eterna di Dio. Tutta questa ascensione è moto e gioia d'amore.

<< Come il foco movesi in altura

per la sua forma ch'è nata a salire
là dove piú in sua materia dura,

cosí l'animo preso entra in disire
ch'è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire ».

Leggendo il poema la volontà di ben fare cresce a mano a mano che ci avviciniamo al sommo Bene. Il nostro cuore si svincola da ogni impedimento d'ignavia, e sente che c'è qualche cosa di grande nella vita, qualche cosa che noi non sempre conosciamo con sicurezza, ma di cui sentiamo la presenza, come dal profumo ci accorgiamo della presenza dei fiori, anche quando i nostri occhi non vedono. Nella vita c'è qualche cosa di alto e di grande che infiamma gli uomini di buona volontà.

<< Lume è lassú che visibile face

lo Creatore a quella creatura

che solo in Lui vedere ha la sua pace ».

Colui che allenta lo sforzo di diventare migliore, cessa di essere buono. Ma gli uomini che sanno questa verità, non desistono mai di cercare dopo il buono il meglio: conseguito l'uno, si assetano dell'altro, come se ogni istante vissuto sia una rinascita, un principio di operosità in un mondo nuovo e vergine.

La Divina Commedia è poema di redenzione. Tutte le manifestazioni di pessimismo del medioevo sono superate e vinte. La religione non è piú solitudine, ma è riportata sulla sua vera base di umanità. L'ascensione verso il cielo non è più nell'astinenza, ma è nell'esperienza del male e del bene, è nel pellegrinaggio attraverso le sofferenze dei grandi peccatori e dei piccoli, e attraverso il regno di beatitudine di quegli spiriti che hanno bene operato.

Ed è meraviglia che un uomo provato da tante sventure, travolto da tanta tempesta, addolorato da tanti disinganni, dalla morte della sua donna, dall'odio dei suoi concittadini, dalla condanna infamante, dal perpetuo esilio, abbia avuto in sé tanta forza d'animo da non distogliere mai lo sguardo dall'altezza. Per questa sua fedele ascensione noi amiamo il suo canto e partecipiamo in anima e in carne alla sua visione, che è la visione eternamente attuale di tutti gli uomini illuminati, che è lo sforzo incessante che noi facciamo ogni giorno, con ogni nostra opera, volontariamente o inconsapevolmente, per attuare sulla terra una migliore civiltà. Le voci delle passioni più disparate, dall' urlo selvaggio d' Ugolino alla malinconia di Manfredi, dall'oscena imprecazione di Vanni Fucci alla soave preghiera di San Bernardo, le voci dell'odio e dell'amore, dell'entusiasmo e della nausea, della fede e della disperazione, si fondono in una sinfonia meravigliosa, come le note concordi di un organo nella sonorità di una cupola immensa.

Sei secoli sono trascorsi, tre civiltà si sono succedute. Abbiamo perduto il ricordo di grandissima parte di quegli uomini di cui Dante ha inciso i nomi nelle sue terzine. I sillogismi della scolastica suonano tediosi ai nostri orecchi. Che importa? La grandezza del poeta è piú in alto della materia sepolta. Achille ed Ettore bastano a rendere fulgido in eterno il vecchio Omero. A rendere eterno Dante basta il canto di Francesca da Rimini, basta l'alba che illu mina le azzurre rive del Purgatorio, bastano la musica di Casella e i fiori che Matelda va

cogliendo lungo il fiume del Paradiso Terrestre: a rendere eterno Dante basta il trionfo di Maria tra la circolata melodia lucente: basta la sua poesia.

Ma l'allegoria, il simbolismo, l'erudizione non uccidono questa poesia: come l'oro d'un anello acquista maggior prezzo e maggiore bellezza dai minutissimi frammenti di diamante che lo adornano, cosí la grandezza del poema dantesco emerge con piú viva luce dall'intricato ed armonico mosaico del sapere e degli intenti scolastici. Ogni sforzo che noi facciamo per raggiungere la verità nascosta « sotto il velame delli versi strani », ogni mistero che noi scopriamo, è una nuova pietra di marmo prezioso che noi aggiungiamo al piedistallo del poeta: egli sale piú in alto. Da secoli e secoli gli uomini lavorano a rendere intera la costruzione del suo monumento da secoli le menti si affaticano per penetrare fin dentro alle piú riposte viscere del suo sterminato pensiero, e ancora il monumento non è compiuto, e ancora numerosi tesori sono da mettere in luce.

Guelfi e ghibellini sono morti. Ma nell'animo nostro c'è un' urna di cristallo ove l'amor della bellezza custodisce la sua luce. Sta nell'eterna eredità di questo intelletto d'amore l'immortalità dei poeti. Oggi noi siamo agitati da nuovi tumulti civili: altre tempeste ci agiteranno domani ma sempre, ogni volta che udiremo il nome di Dante, ci sentiremo percossi da un fremito di religiosa venerazione, e metteremo le mani sul suo libro, guardando in alto, come guarda in alto colui che entra in chiesa, e mette la mano nell'acqua della purificazione.

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