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Poichè infiammata l' ebbe

Rifpenfela virtù gelata, e bella:

Così più volte ha'l cor raccefo, e fpento: I'l fo, che 'l fento; e fpeffo me n'adiro. Fuor tutt'i noftri lidi

Nell' ifole famose di Fortuna
Due fonti ha: chi dell' una

Bee, muor ridendo;e chi dell' altra, fcampa.
Simil fortuna ftampa

Mia vita, che morir poria ridendo
Del gran piacer, ch' io prendo ;
Se nol tempraffen dolorofi ftridi.
Amor, ch'ancor mi guidi

Pur all'ombra di fama occulta, e bruna,
Tacerem quefta fonte, ch'ognor piena,
Ma con più larga vena

Veggiam, quando col Tauro il Sol s'aduna.
Così gli occhi miei piangon d'ogni tempo;
Ma più nel tempo che Madonna vidi.
Chi fpiaffe, Canzone,

Quel ch'i' fo; tu puo dir, fott'un gran fasso
In una chiufa valle, ond'efce Sorga,
Si fta: nè chi lo fcorga,

V'è,fe no'Amor,che mai nol lafcia un paffo, El'immagine d'una, che lo strugge * Che per se fugge tutt'altre perfone.

SO.

v. 8. mor. v. 14. al, ofcura. v. 2, tu poi,

SONET TO CV.

Iamma dal ciel fulle tue treccie piova, Malvagia, che dal fiume, e dalle ghiand Per l'altru'impoverir fe" ricca, e grande : Poichè di mal oprar tanto ti giova: Nido di tradimenti, in cui fi cova Quanto mal per lo mondo oggi fi fpande : Di vin ferva, di lett, e di vivande, In cui luffuria. fa l'ultima prova. Per le camere tue fanciulli, e vecchi Vanno trefcando, e Belzebub in mezzo Co' mantici, e col fuoco, e con gli fpecchi. Già non foftu nutrita in piume al rezzo; Ma nuda al vento, e fcalza fra gli ftecchi: Or vivi sì, ch'a Dio ne venga il lezzo a

SONETT O CVI.

L'A

'Avara Babilonia ha colmo il facco D'ira di Dio, e di vizj empi, e rei Tanto, che fcoppia, ed ha fatti fuoi Del Non Giove, e Palla, ma Venere,e Bacco. Afpettando ragion mi ftruggo, e fiasco: Ma pur nuovo Soldan veggio per lei, Lo qual farà, non già quand' io vorrei, Sol una fede, e quella fia in Baldacco. Gl'idoli fuoi faranno in terra fparfi, E le torri fuperbe al ciel nimiche, E i fuoi torrier di fuor, come dentr'arfi Anime belle, e di virtute amiche

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Terranno 'l mondo; e poi vedrem lui farfi
Aureo tutto, e pien dell' opre antiche.

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SONETTO CVII.

Ontana di dolore, albergo d'ira,

Foodland erori, ampio d'erefia,

Già Roma, or Babilonia falfa, e ria,
Per cui tanto fi piagne, e fi fofpira;
✪ fucina d'inganni, o prigion dira,
Ove'l ben muore, e 'l mal fi nutre, e cria
Di vivi inferno; un gran miracol fia,
Se CRISTO teco al fine non s'adira.
Fondata in cafta, ed umil povertate,
Contra i tuoi fondatori alzi le corna
Putta sfacciata; e dov' hai posto spene
Negli adulterj tuoi, nelle mal nate

Ricchezze tante? or Conftantin non torna;
Ma tolga il mondo trifto, che 'l foftene.

SONET TO

CVIII.

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Uanto più defiofe l'ali fpando Verfo di voi, dolce fchiera amica; Tanto Fortuna con più vifco intrica Il mio volare, e gir mi face errando. Il cor, che mal fuo grado attorno mando E' con voi fempre in quella valle aprica Ove il mar noftro più la terra implica: L'altr' ier da lui partimmi lagrimando. Io da man manca, ei tenne il cammin dritto: l' tratto a forza, ed ei d' Amore fcorto: Egli in Gierufalem, ed io in Egitto. Ma fofferenza è nel dolor conforto : Che per lungo uso già fra noi prescritto, Il noftro effer infieme è raro, e corto,

v. 2. al. templo. v. 15. al. difiofe.

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SONETTO XIC.

" e

E'l fuo feggio maggior nel mio cor tene, Talor armato nella fronte vene : Ivi fi loca, ed ivi pon fua 'ofegna. Quella ch' amare, e fofferir ne 'nfegna, E vuol che'l gran defio, l' accefa pene Ragion, vergogna, e reverenza aftrene; Di noftro ardir tra fe fteffa fi fdegna; Onde Amor paventofo fugge a core, Laffando ogni fua imprefa;e piange,e trema: Ivi s' afconde, e non appar più fore. Che pofs' io far, temendo il mio fignore, Se non ftar feco infin all' ora eftrema? Che bel fin fa chi ben amando more.

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Come talora al caldo tempo fole

Semplicetta farfalla al lume avvezza Wolar negli occhi altrui per fua vaghezza; 'Ond' avven ch' ella more, altri fi dole: Così fempr' io corro al fatal mio fole

Degli occhi, onde mi vien tanta dolcezza; Che 'l fren della ragion Amor non prezza, E chi difcerne è vinto da chi vole: E veggio ben, quant'elli a fchivo m' hanno; E fo, ch'i'ne morrò veracemente, Che mia vertù non può contra l'affanno; Ma si m'abbaglia Amor fuavemente; Ch'i' piango l'altrui noja,e no 'l mio danno; E cieca al fuo morir l' alma confente.

CAN.

v.z.al. m2 insegna. v. 6. E vol.v. 23. al. fchifox

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CANZONE XXXII.

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Corfi fuggendo un difpietato lume Che 'nfin quaggiù m' ardea dal terzo cielo, E difgombrava già di neve i poggi L'aura amorofa, che rinnova il tempo, E fiorian per la piagge l'erbe, e i rami. Non vide il mondo sì leggiadri rami, Ne moffe'l vento mai sì verdi frondi, Come a me fi moftrar quel primo tempo; Talche temendo dell' ardente lume Non volfi al mio refugio ombra di poggi Ma della pianta più gradita in cielo. Un Lauro mi difefe allor dal cielo, Onde più volte vago de' bei rami Da poi fon gito per felve, e per poggi Nè giammai ritrovai tronco, nè frondi Tant' onorate dal fuperno lume,

Che on cangiaffer qualitate a tempo. Però più ferma ognor di tempo in tempo Seguendo ove chiamar m' udia dal cielo y E fcorto d' un fuave, e chiaro lume Tornai fempre divoto ai primi rami; E quando a terra fon fparte le frondi, E quando 'I fol fa verdeggiar i poggi Selve, faffi, campagne, fiumi, e poggi, Quant'è creato, vince, e cangia il tempo: Ond' io chieggio perdono a quefte frondi, Se rivolgendo poi molt' anni il cielo Fuggir difpofi gl'invefcati rami Toto ch' incominciai di veder lume. Tanto mi piacque prima il dolce lume, Ch'i paffai con diletto affai gran poggi, Per poter appreffar gli amati rami: Ora la vita breve, e 'l loco, e 'l tempo

Mo.

Y. 18. al. in tempo. v. 19. ogni or.

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