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Moftrimi almen, ch'io dica,

Amor, in guifa, che fe mai percuote Gli orecchi della dolce mia nemica ; Non mia, ma di pietà la faccia amica. Dico: Se'n quella etate

Ch'al vero onor fur gli animi si accefi,
L' induftria d' alquanti uomini s'avvolfe
Per diverf paefi

Poggi, ed onde paffando, e l' onorate
Cofe cercando, il più bel fior ne colfe:
Poi che Dio, e Natura, ed Amor volfe
Locar compitamente ogni virtute

In quei be lumi ond'io giojoso vivo;
Quefto e quell' altro rivo

Non conven ch'i' trapaffe, e terra mute :
A lor fempre ricorro,

Come a fontana d'ogni mia falute;
E quando a morte defiando corro,
Sol di lor vifta al mio ftato foccorro.
Come a forza di venti

Stanco nocchier di notte alza la tefta
A' duo lumi c'ha fempre il nostro polo;
Così nella tempefta.

Ch'i' foftengo d'amor, gli occhi lucenti
Sono il mio fegno, e'l mio conforto folo.
Laffo, ma troppo è più quel ch' io ne 'nvolo
Or quinci,or quindi; com'Amor m' informas
Che quel che vien da graziofe dono ;
E quel poco ch'i' fono,

Mi fa di loro una perpetua norma:
Poi ch'io li vidi in prima,

Senza lor a ben far non moffi un'orma: Così gli ho di me pofti in fu la cima Che 'I mio valor per fe falfo s'eftima. I'non poria giammai

Immaginar, non che narrar gli effetti
Che nel mio cor gli occhi foavi fanno
Tutti

v. I. al. Moftrami, v. 12. al. compiutamense 24. al. foftegno, v. 30, al fan ·

Tutti gli altri diletti

Di quefta vita ho per minori affai
E tutt' altre bellezze indietro vanno
Pace tranquilla fenz'alcun affanno,
Simile a quella che nel ciel' eterna,
Move dal lor' innamorato rifo,
Così vedefs'io fifo,

Com' Amor dolcemente gli governa,
Sol un giorno da preffo,

Senza volger giammai rota fuperna:
Nè penfaffi d'altrui, nè di me fteffo,
E1 batter gli occhi miei non foffe fpeffo,
Laffo, che defiando

Vo quel ch' effer non puote in alcun modo;
E vivo del defir fuor di fperanza.
Solamente quel nodo

Ch' Amor circonda alla mia lingua, quando
L'umana vifta il troppo lume avanza
Foffe difciolto; i' prenderei baldanza
Di dir parole in quel punto st nove
Che farien lagrimar chi le intendesse,
Ma le ferite impreffe

Volgon per forza il cor piagato altrove:
Ond' io divento fmorto,

El fangue fi nafconde i' non fo dove; Nè rimango qual era, e fommi accorto Che quefto è'l colpo di che Amor m'ha mor Canzone, i' fento già ftancar la penna (to. Del lungo e dolce ragionar con lei,

* Ma non di partar meco i genfieri miei,

21. farian

SONET TO

LIV.

O fon già ftanco di penfar, si come
I miei penfier in vor stanchi non fono:

E come vita ancor non abbandono
Per fuggir di fofpir sì gravi fome;
E come a dir del vifo e delle chiome,
E de begli occhi, ond' io fempre ragiono,
Non è mancata omai la lingua, e 'l fuono
Di e notte chiamando il vostro nome
ch'i piè mici non fon fiaccati, e laffi
A feguir l'orme voftre in ogni parte,
Perdendo inutilmente tanti paffi;
Ed onde vien l'inchiostro, onde le carte
Ch' i'vo empiendo di voi : fe'n ciò fallafii,
Colpa è d'amor, non già difetto d'arte.

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Begli occhi ond'i' fui percoffo in quifa Ch'i medefmi porian faldar la piaga; E non già vertù d'erbe, o d'arte maga, O di pietra dal mar noftro divifa ; M' hanno la via si d'altro amor precifa, Ch'un fol dolce penfier l'anima appaga : E fe la lingua di feguirlo è vaga,

La fcorta può, non ella, effer derifa. Quefti fon que' begli occhi che 1' imprefe Del mio Signor vittoriefe fanno

In ogni parte, e più fovra il mio fianco : Quefti fon que begli occhi che mi ftanno Sempre nel cor con le faville accefe: Perch'io di lor parlando non mi stanco..

*

SO

v. 4 dea al. più gravi . v. q. al. Rancati » V. 25» at. sopra

A

SONETTO LVI.

Mi riconduffe alla prigione antica, E diè le chiavi a quella mia nimica, Ch'ancor me di me fteffo tiene in bando a Non me n'avvidi, laffo, fe non quando Fu in loro forza, ed or con gran fatica (Chi'l crederà, perchè giurando il dica?) In libertà ritorno fofpirando

E come vero prigioniero afflitto,

Delle catene mie gran parte porto: El cor negli occhi, e nella fronte ho fcritto Quando fara del mio colore accorto, Dirai; S'i' guardo, e giudico ben dritto; Quefti avea poco andare ad effer motto

P

SONETTO

LVII.

ER mirar Policleto a prova fifo

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Con gli altri ch' ebber fama di quell' arte, Mill' anni, non vedrian la minor parte Della beltà, che m'ave il cor conquifo Ma certo il mio Simon fu in paradifo, Onde quefta gentil donna fi parte: Ivi la vide, e la ritraffe in carte Per far fede qua giù del fuo bel vifo. L'opra fu ben di quelle che nel cielo Si ponno immaginar, non qui fra noi Ove le membra fanno a l'alma velo. Cortefia fe: nè la potea far poi

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Che fu difcefo a provar caldo, e gielo,
E del mortal fentiron gli occhi fuoi

V. 4. tene

SQ

SONET TO

LVIII.

Uando giunse a Simon l'alto concetto Ch' a mio nome gli pofe in man lo ftile; Saveffe dato all' opera gentile

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Con la figura voce, ed intelletto;

Di fofpir molti mi fgrombrava il petto
Che ciò ch'altri han più caro, a me fan vile;
Però che 'n vifta ella fi moftra umile,
Promettendomi pace nell' afpetto.
Ma poi chio vengo a ragionar con lei;
Benignamente affai par che m' afcolte;
Se rifponder faveffe a' detti miei.
Pigmalion, quanto lodar ti dei

Dell' immagine tua, fe mille volte
N'avefti quel ch'io fol una vorrei !

S

SONET TO LIX.

Al principio rifponde il fine, e 'l mezzo
Del quartodecim anno ch'io fofpiro,
Più non mi può fcampar l'aura, nè l rezzo;
Sì crefcer fento il mio ardente defiro.
Amor, con cui penfier mai non amnezzo,
Sotto 'I cui giogo giammai non refpiro;
Tal mi governa, ch'i'non fon già mezzo,
Per gli occhi, ch'al mio mal sì fpeffo giro,
Così mancando vo di giorno in giorno,
Si chiufamente, ch'io fol me n'accorgo
E quella che guardando il cor mi strugge,
pena infin a qui l'anima fcorgo;

Nè fo quanto fe meco il fuo foggiorno,
Che la morte s' appreffa, e 'l viver fugge

CAN.

v. 6. ha . v. IX. al. fapesse, v, 19. han mez

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