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C

CANZONE

XXI.

HI è fermato di menar fua vita

Csu per l'onde fallaci, e per li fcogli

Scevro da morte con un picciol legno,
Non può molto lontan effer dal fine:
Però farebbe da ritrarfi in porto,
Mentre al governo ancor crede la vela,
L'aura foave a cui governo, e vela,
Commifi entrando all' amorofa vita,
E fperando venire a miglior porto,
Poi mi conduffe in più di mille fcogli;
E le cagion del mio dogliofo fine

Non pur d'intorno avea,ma dentro al legno. Chiufo gran tempo in quefto cieco legno, Errai fenza levar occhio alla vela,

Ch'anzi al mio dì mi trafportava al fine; Poi piacqui a lui, che mi produffe in vita, Chiamarmi tanto indietro dalli fcogli, Ch' almen da lunge m'appariffe il porto. Come lume di notte in alcun porto Vide mai d'alto mar nave, nè legno, Se non glie'l tolfe o tempeftate, o fcogli Così di fu dalla gonfiata vela

Vid' io le 'nfegne di quell' altra vita > Ed allor fofpirai verfo 'l mio fine. Non perch' io fia fecuro ancor del fine: Che volendo col giorno effere a porto, E' gran viaggio in così poca vita: Poi temo, che mi veggio in fragil legno, E più ch'i'non vorrei, piena la vela Del vento che mi pinfe in quefti fcogli. S'io efca vivo de' dubbiofi fcogli,

Ed

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v. 3. al. Secur. v. 5. al. riftarfi. v. 15. anzi mio. v.18. al. lungi.v.25. al. ficuro. .18 al frale. v. 30. al. [pinse

Ed arrivi il mio efilio ad un bel fine; Ch' fare' vago di voltar la vela, E l'ancore gittar in qualche porto ; Se non ch'' ardo, come accefo legno; Si m' è duro laffar l'ufata vita. Signor della mia fine, e della vita, Prima ch'i' fiacchi il legno tra li fcogli, Drizza a buon porto l'affannata vela.

SONETTO

LX.

Io fon si fianco fotto y falcio antico

Delle mie colpe, e dell' ufanza ria ; Ch' io temo forte di mancar tra via, E di cader in man del mio nimico. Ben venne a dilivrarmi un grand' amico Per fomma, ed ineffabil cortefia: Poi volo fuor della veduta mia,

Si, ch' a mirarlo indarno m' affatico: Ma la fua voce ancor quaggiù rimbomba: O voi che travagliate, ecco 'l cammino Venite a me, fe paffo altri non ferra Qual grazia, qual amore, o qual destino Mi darà penne a guifa di colomba Ch'i' mi ripofi, e levimi da terra?

SO.

4.3. al. l'ancora. v. 9. al. giogo. v. 13. al. liberarmi, v. 17. qua giù, v. 21. in guifa.

SONET TO

LXI.

O non fu' d'amar voi laffato unquanco, Madonna, ne farò, mentre ch' io viva Ma d'odiar me medefmo giunto a riva, E del continuo lagrimar fon stanco. E voglio anzi un fepolcro bello, e bianco, E'I vostro nome a mio danno fi fcriva In alcun marmo, ove di ípirto priva Sia la mia carne, che può ftar feco anco. Però s'un cor pien d'amorofa fede

Può contentarvi fenza farne strazio, Piacciavi omai di questo aver mercede : Se'n altro modo cerca d'effer fazio

Voftro sdegno,erra, e non fia quel che crede: Di che Amor, e me fteffo affai ringrazio.

SONET TO

LXII.Y

E bianche non son prima ambe le tempie,

Scha poco a poco pat, che 'l tempo mischi;

Secur non farò, benchè io non m' arrischi
Talor, ov' Amor l'arco tira, ed empie.
Non temo già, che più mi ftrazii, o fcempie,
Ne mi ritenga, perchè ancor m'invifchi
Nè m' apra il cor, perchè di fuor l' incifchi,
Con fue faette velenofe, ed empie.
Lagrime omai dagli occhi ufcir non ponno;
Ma di gir in fin là fanno il viaggio,
Sì, ch'a pena fia mai chi 'l paffo chiuda.
Ben mi può rifcaldar il fiero raggio,

Non sì, ch'i' arda, e può turbarmi il fonno,
Ma romper no l'immagine afpra e cruda.

So.

v.3. al. dell' odiar me fteffo. v. 14. al. onde v 17. al. Sicuro. v. 24. al. gire 'nfin là.

SONETTO

LXIII.

Cchi, piangete; e accompagnate il core Che'd voftro fallir morte foftene. Cosi fempre facciamo; e ne convene Lamentar più l' altrui, che 'I noftro errore. Già prima ebbe per voi l'entrata Amore Là onde ancor, come in fuo albergo, vene. Noi gli aprimmo la via per quella spene, Che moffe dentro da colui che more. Non fon, com' a voi par, le ragion pari: Che pur voi fofte nella prima vista

Del voftro, e del fuo mal cotanto avari, Or quefto è quel che più ch'altro m' attrifta: Che i perfetti giudicii fon sì rari;

E d'altrui colpa altrui biafmo s'acquista.

SONETTO

LXIV.

O amai fempre, ed amo forte ancora E fon per amar più di giorno in giorno Quel dolce loco ove piangendo torno Speffe fiate, quando Amor m' accora : E fon fermo d'amare il tempo, e l'ora Ch'ogni vil cura mi levar d' intorno; E più colei lo cui bel vifo adorno Di ben far co' fuoi efempj m' innamora Ma chi pensò veder mai tutti infieme Per affalirmi 'l cor or quindi, or quinci, Quefti dolci nemici ch' i' tant' amo? Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci ! E fe non ch'al defio crefca la speme ;; 10 cadrei morto ove più viver pramo. So.

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#. 6. al. dove. v. 22. al. con fuo efempli.

SONETTO LX V.

Iaved fempre in odio la mille

Onde Amor m'avventò già mille ftrali, Perch' alquanti di lor non fur mortali Ch'è bel morir mentre la vita è deftra. Ma fovraftar nella prigion terreftra Cagion m'è, laffo, d' infiniti mali: E più mi duol, che fien meco immortali; Poichè l'alma dal cor non fi fcapeftra. Mifera che dovrebbe effer accorta

Per lunga (perienza omai, che il tempo Non è chi ndietro volga, o chi l'affreni Più volte l'ho con tai parole fcorta : Vattene, trifta; che non va per tempo Chi dopo laffa i fuoi di più fereni

SONET TO LXVI.

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Buon fagittario di lontan difcerne, Qual colpo è da fprezzare, qual d'averne Fede ch' al deftinato fegno tocchi; Similemente il colpo de' voftri occhi, Donna, fentifte alle mie parti interne Dritto paffare; onde convien, ch' eterne Lagrime per la piaga il cor trabocchi. E certo fon, che voi dicefte allora :

Mifero amante a che vaghezza il mena Ecco lo ftrale ond'Amor vuol, ch' e' mora. Ora veggendo, come 'I duol n'affrena; Quel che mi fanno i miei nemici ancora, Non è per morte, ma per più mia pena.

Rime Petrarca.

D

So.

v. I. al. arò.feneftra. v.2. al. ben mille. v. 5. al. fopraftar. v. 20, al, Jame. v.25. val.·

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