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luce elettrica disposti in serie, che permettevano di adoperare la luce elettrica per l'illuminazione delle vie: invenzione recentissima, geniale, era quella delle cosidette candele elettriche di Jablock of, in cui l'arco elettrico si accendeva all'estremità di una specie di candela fatta di due asticelle di carbone imprigionate in un viluppo di sostanza cattiva conduttrice dell'elettricità. Con queste candele era soppresso il regolatore e si potevano introdurre in un piccolo. globo tre o quattro di queste candele; quando una era finita, un commutatore automatico inviava l'elettricità in un' altra, che si accendeva istantaneamente. Così si potevano adoperare apparecchi alti appena 30 o 40 centimetri, mentre i regolatori abbisogna no ancora di un'altezza di almeno 75 centimetri.

Due anni più tardi si videro le prime lampade ad incandescenza, in cui la luce è prodotta dall' arroventirsi d'un filamento di carbone racchiuso entro una palla di vetro vuota d'aria o ripiena di un gas non combustibile.

Delle candele elettriche tutti erano entusiasmati; dalle lampade ad incandescenza pochi si ripromettevano utili applicazioni. Avvenne quello che si verificò nella metallurgia per lo zinco e per l'alluminio. Dell'alluminio, appena fu scoperto, tutti dissero bene; ma è ancora nel campo delle teorie: invece tutti sorrisero quando, collo zinco, si annunziò un metallo che si polverizzava sotto il martello, che si sublimava in un polviglio bianco sotto l'influenza di temperature elevate, che si rompeva solamente a piegarlo. Lo zinco intanto si diffuse e già si pensa come ad una calamità industriale al probabile esaurimento dei minerali di questo metallo.

Le candele elettriche non ebbero fortuna. Continuano a servirsene alcuni, ma dal 1882 l'Avenue dell' Opera di Parigi, dove per la prima volta furono adoperate, è illuminata con altri sistemi. E dopo il giudizio di mille critici che avevano intraveduto mille difetti nelle lampadine ad incandescenza, quest'oggi sono universalmente adoperate.

Anche per l'illuminazione elettrica la Francia fu la prima; ma oggi gli Stati Uniti ne consumano una quantità eguale a quella di tutta l'Europa. Nel 1878 l'illuminazione elettrica era appena un tentativo scientifico; oggidì è un'industria. Si consuma ogni giorno la forza di un milione di cavalli-vapore per convertirla nell'onda luminosa che ci illumina le serate, spandendo una luce equivalente a 200 milioni di candele normali. Le officine elettriche

produttrici di luce sono 1,500; quelle piccole, dirò così, private, ascendono a diecimila. Un miliardo di lire è impiegato in tale industria. Non è forse questo un grande progresso, affermato dall'esposizione?

La galvanoplastica rimase quella che era all'ultima esposizione di elettricità; ma l'estrazione del rame col mezzo della corrente, questa galvanoplastica veramente industriale, si presenta come una nuova scoperta che avrà importanti conseguenze, come quella che sostituisce alla vampa dei forni, alle lunghissime operazioni chimiche la semplice azione di una corrente. Spesso, come in questo caso, progresso significa semplifica- zione.

Anche la trasmissione della forza a grandi distanze col mezzo dell'elettricità è una scoperta recente. Convertire la forza che si sviluppa da una cascata in una corrente elettrica; inviare questa corrente col mezzo di corde metalliche dove abbisogna la forza motrice e là, col mezzo di macchine, riconvertire l'elettricità in forza viva: ecco un risultato che prometteva già dieci anni or un grande impulso, una vera rivoluzione in tuttele industrie

Ma in Europa questo economico impiego delle forze naturali in sostituzione del carbone, quest'invenzione che può trasmettere la forza là dove abbisogna senza grandi perdite in attriti, non incontrò ancora il favore degli industriali.

Negli Stati Uniti sono ferrovie e tramways elettrici, ed il trasporto col mezzo dell'elettricità è stato adottato in quasi tutte le miniere. All' Esposizione evvi appena un ascensore elettrico nella galleria delle macchine, un piccolo tramways elettrico ed una distribuzione di forza motrice alle macchine per cucire fatta dal l'Edison.

Il Kapferer adopera la corrente elettrica come forza motrice nella sua grande cartiera nei dintorni di Inspruk, adoperando la elettricità prodotta da una turbina che si trova distante quasi un chilometro dalla fabbrica e sono circa 60 cavalli a vapore che vengono così condotti dal flusso elettrico: il Glesinger, proprietario di una grande segheria meccanica vicina a Kremnitz ci narra che l'elettricità porta alla sua fabbrica la forza motrice e la luce dalla distanza di due chilometri e mezzo.

Come si vede, all'esposizione di Parigi non si trovano ancora numerosi esempi dei benefici che può recare l'elettricità come mezzo di trasmissione della forza motrice.

Vol. XXIV, Serie III 1 Novembre 1889.

10

Le esperienze di repulsione e di rotazione elettrodinamiche del professore Elihu Thomson, fatte qualche volta nella galleria delle macchine, impressionano il pubblico, più che altro, per una certa teatralità.

Una potentissima elettro-calamita verticale trovasi nascosta entro un mobiluccio alto 30 centimetri e largo 20. Allorchè il circuito elettrico viene chiuso e la corrente converte in cala mita un fascio di aste di ferro puro, un disco di rame del diametro di 12 centimetri, che sia posto sul mobiluccio, nel campo magnetico dell'elettro-calamita, viene lanciato per aria da una forza invisibile che per molti spettatori è inesplicabile. Con un po' di pazienza si riesce ad ottenere che il disco stia sospeso in aria, come per influenza magica di levitazione.

Così il Thomson ottiene di far rimanere per aria un anello di rame più largo della calamita. Che se, con uno sforzo, si vuole che l'anello venga ad attorniare la calamita, immediatamente questo si riscalda e conviene lasciarlo poichè finisce per iscottare le mani. Allora l'anello scatta, come se venisse risospinto da una spirale elastica di acciaio.

Nè meno strana è l'accensione di una lampada elettrica sotto l'acqua. Un vaso di vetro pieno d'acqua viene collocato sopra l'elettro calamita. Nell'acqua si introduce una lampada elettrica impiantata sopra un disco di sughero; ai due elettrodi della lampada si attaccano le due estremità di un filo di rame isolato avvolto attorno al sughero. Appena passa la corrente attorno all'elettro calamita, il galleggiante s'innalza a fior d'acqua e la lampada si accende. Ambulavit super aquas.

Una pallina vuota di rame è collocata sopra un disco di rame posto sull'elettro-calamita; ed ecco che la pallina comincia a roteare percorrendo la circonferenza del disco.

Queste esperienze, già note ai fisici da qualche anno, dimostrano ancora una volta che nell'ordine delle ricerche sperimentali non v'ha scoperta così astrusa che un giorno non sia per diventare utile. Il Thomson espone certe lampade ad arco dalla luce fissa, continua, senza le solite interruzioni, i soliti sussulti, il solito ammiccare dei comuni regolatori, senza il cosidetto à-coup che è un inconveniente serio per gli apparecchi od una sorpresa sgradita per gli occhi. In queste lampade masse di rame vengono respinte per effetto della corrente e questa repulsione è una funzione della dif

ferenza del potenziale e per conseguenza della lunghezza dell'arco luminoso. Se la differenza è soverchia, le masse di rame allontanate, per una specie di scappamento, lasciano avvicinarsi i due carboni.

Edison, in mezzo a non so quanti apparecchi, in cui trovate la grande invenzione proprio accanto a quella minuscola, ci fa ascoltare la voce del suo nuovo fonografo. L'avevamo sentito, all'esposizione del 1878, il primo fonografo che scriveva i suoni sopra una lastrina di stagnuola e li ripeteva poi con voce fessa, chioccia, metallica. Qui ecco il fonografo presentato come una invenzione pratica; ecco il fonografo in cui i suoni sono impressi sopra un cilindro di una composizione simile alla cera, che parla, canta, ride, motteggia, sternutisce come persona viva e fa di peggio, all'americana; vi fa sentire il suono d'una musica militare di Nuova-York, scherza sul generale Boulanger, fa l'elogio del presidente Carnot, letto in un giornale ufficioso, con una verità di timbro che vi meraviglia e vi lascia malcontenti quando l'impiegato ferma la macchinetta, e voi dovete lasciare il posto ad altri.

È questo, per dirla alla francese, uno dei grandi successi dell'esposizione.

La penna elettrica di Edison del 1878 scriveva a puntolini, per mezzo di un rapidissimo interruttore elettrico, bucherellando. la carta così che potesse dare passaggio, come una negativa tipografica, all'inchiostro. Questa penna, pel suo peso e per l'abitudine che richiedeva in chi se ne serviva, non incontrò favore. Edison, da quell'uomo pratico che è, modificò la sua invenzione, e l'elettricità è abolita nella invenzione nuova. Si scrive con un semplice stilo d'acciaio sopra una carta preparata. La fibra della carta è rotta dalla punta adamantina e con un rullo nero ed un piccolo torchio, simili a quelli detti copialettere, si ottengono centinaia di discrete riproduzioni d'un disegno o di una lettera. Dico discrete e non ottime, perchè ottime mi parvero solamente quelle ottenute dall'Autocopiste noir.

La fotografia, quella che Arrigo Boito disse figliuola di un raggio e d'un veleno (e noi aggiungeremo anche di un pensiero) appartiene ad un tempo alla fisica ed alla chimica. È chimica nelle sue reazioni, fisica nei suoi apparecchi.

Undici anni fa la fotografia era ai suoi primi tentativi di fotografia istantanea; i dilettanti e gli scienziati si occupavano spe

cialmente della stampa delle fotografie coll'inchiostro grasso, indelebile, che non subisce le influenze attiniche e non si sbiadisce col tempo. Oggi troviamo che la fotografia all'inchiostro grasso si è perfezionata, tanto che si possono ottenere da 10 a 20 buone copie in un'ora collo stesso autocopista nero, che è una piccola ma uti lissima invenzione per la riproduzione degli scritti e dei disegni, senza i tradimenti nè le sbavature di tutti i policopigrafi fatti di pasta gelatinosa, della penna Edison, del papirografo Zuccato, che pure era una piccola meraviglia dell'esposizione del 1878. La fotografia serve oggi correntemente alla zincotipia, all'eliografia, a mille invenzioni buone che sono venute a soppiantare la vecchia incisione e che rendono più economica la pubblicazione di opere e di giornali illustrati.

Nel 1878 si ricercava ancora la quadratura del circolo della fotografia coi colori naturali, ed il Pétit era riuscito a qualche risultato presentabile colla sovrapposizione di tre laminette trasparenti che davano i tre colori fondamentali dello spettro luminoso.

Oggi queste ricerche sono abbandonate; ma non v'ha più un fotografo che si rispetti che non abbia abbandonato il vecchio procedimento del collodio umido per adottare le lastre ad emulsione sensibile, le lastre alla gelatina bromurata, che spesso hanno perfino una soverchia sensibilità.

Si dovettero modificare gli apparati per aprire e chiudere rapidissimamente l'adito alla luce nella camera oscura, ed oggi si fotografa con successo un bambino che strilla, un cavallo che galoppa, una cascata d'acqua, un fuoco artificiale.

Si diceva molto inopportunamente che la fotografia era il realismo dell'arte nella sua sublimazione, che la negativa era uno specchio in cui si suggellava il vero che è innanzi alla lente. Poteva essere così per i paesaggi; ma non lo era certamente per i ritratti.

Il pensiero che ci ritraggono è un'influenza contraria alla naturalezza dell'espressione e la durata della posa è un martirio. Cercate i primi ritratti in fotografia, ritratti sbiaditi che per un caso non sono andati a finire nelle mani dei bambini e che vi fanno sorridere colla ricchezza dei dettagli artistici del fondo, coi cappelli e colle mode che sono già cose archeologiche, e mi direte se quelle pose erano naturali. Secondo l'indole del posatore, ora vedete un sorriso di compiacenza sciocca, ora un tantino di noia, ora una sfumatura di vergogna.

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