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POETI E CONFERENZIERI

AI TEMPI DI DOMIZIANO

L'età veramente aurea della poesia latina si chiude con Fedro, il quale, benchè morto sotto Nerone, fu contemporaneo d'Augusto, e senti la feconda influenza dei modelli greci, che ispirarono Virgilio, Orazio e Tibullo. Tra le sue favole e le tragedie di Seneca, tra Augusto e Nerone, corre un mezzo secolo di tramonto e quasi notte letteraria, dopo la quale la decadenza, portata da non so qual malefico soffio venuto di Spagna, poichè i Seneca erano di Cordova, incomincia subito, repentinamente. È questo un fatto senz'esempio nella storia delle altre letterature.

Oltre Seneca appartengono alla decadenza Persio, Stazio, Marziale, Silio Italico, Lucano e Giovenale. Scrittori insigni dunque, e chi più chi meno, chi per certe doti chi per certe altre, degni di quella immortalità, di cui gli fa partecipi il gran nome di Roma. Ma io non mi propongo qui di parlare singolarmente di loro, e de' loro pregii e difetti, e intendo solo dare un'idea generale, spigolando e riportando aneddoti, del gusto che in fatto di lettere, e di poesia in particolar modo, prevalse a quel tempo, e che solo potrebbe giudicarsi buono se il valore letterario d'un popolo stesse in ragione diretta della quantità dei versi, che produce.

I poeti augustei furono letterarii e aristocratici, come i poeti del secolo di Pericle, del secolo dei Medici, del secolo di Luigi XIV; poeti, cioè, che scrissero meno per ispirazione che per arte, e più vogliosi di rinomanza e di onori che appassionati e sinceri. Ma poichè in costoro avevano alitati gli alti spiriti della libertà Vol. XXIV, Serie III 16 Novembre 1889.

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recentemente sepolta, cantando il mondo pacificato e l'età novella non iscordarono punto il passato, e alla gloria sanguinosa di quel passato nobilmente ambirono di aggiungere quella delle lettere, e di vincere anche negli studii l'invidiata Grecia, che aveano già vinta con le armi. Furono, è vero, cortigiani, ma non adulatori vili, accettarono doni, ma non mendicarono; vollero la eternità della fama, ma non le acclamazioni venderecce del volgo profano.

Dopo quei sommi la poesia divenne moda e mestiere. E divenne moda e mestiere appunto perchè era caduta la libertà. Durante la vita d'un uomo (di Giovenale) undici imperatori si succedettero al governo del mondo, e di questi soli quattro buoni o mediocri, gli altri tutti pessimi. Claudio, pauroso e indolente, sotto cui regnarono i liberti e le male femmine; Nerone, carnefice in costume di brillante da farsa; Galba, che sul trono converti in vizii le virtù, che avea da privato; Ottone, effemminato, che si lavava la faccia con midolla di pane inzuppato nel latte; Vitellio, goloso e avaro, che uscendo da tavola si pigliava il gusto di fare sgozzare lentamente davanti a sè i suoi creditori; Vespasiano, anche più avaro di Vitellio, che mise un'imposta su tal materia, che non è lecito nominare; Domiziano infine, Nerone calvo, assassino coronato, che pur trovò Tacito per servirlo, Marziale per adularlo e Quintiliano per assisterlo nel consolato.

La letteratura latina sotto quei mostri si perverti, si corruppe. Roma, che nessuna tirannia nè imperiale nè papale riusci ad atterrire o a fare ammutolire completamente mai, erasi data all'ozio spensierato e ciarliero, e amava di divertirsi. E poichè il felice costume d'intrattener la gente intorno a un pianforte volle la bontà divina riserbato soltanto al tempo nostro, la letteratura, derogando a'suoi alti fini, divenne il comune trastullo e quasi l'unico passatempo delle conversazioni nei tablini marmorei e suntuosi. Le donne in ispecie si dilettavano di versi, come ora si dilettano di balli e di romanze. Perciò i nipoti degli Scipioni pr ottenere i sorrisi delle superbe matrone, e conquistare insieme la benevolenza imperiale e i favori del patriziato, noleggiarOLO l'ingegno ed il ventre a chiunque avesse bisogno di lodi o di compianti poetici. A chi avesse perduta un'amante, fecero versi per quest'amante; a chi avesse perduto il cane o il pappagallo, fecero versi per questi animali (1); a chi avesse fabbricato un palazzo,

(1) STAZIO, libro II. Selva IV.

lodarono il palazzo; a chi avesse mangiato uno storione pescato ad Ostia, magnificarono l'eccellenza dello storione. I Tedeschi pensano che certe idee vengono nella mente prima dei segni che le rappresentano. Or nel cervello di quei letterati il ritmo, il numero, la cadenza venivano nella mente prima delle idee; il verso era innato in loro, come il gran nervo simpatico o la borsa dello stomaco.

Io non so se fra i miei lettori vi sia qualcuno che non sia mai andato fuori di porta Salaria. Io lo consiglierei ad andarvi nonostante il pericolo di affogare nel fango o nella polvere degli eroi, per la quale i nostri edili hanno un rispetto pieno di religione. Fuori appena del grand'arco di quella porta, per la quale passarono le prime orde barbariche a incendiare quella stupenda villa di Salustio, i cui avanzi sono stati indegnamente oltraggiati dai più barbari costruttori moderni, egli vedrebbe subito a destra un sepolcro di travertino. Su questo sepolcro sono incisi 43 esametri greci sul tema: Giove, che rimprovera Elio d'avere affidato il carro a Fetonte. Gl'improvvisò nell'agone capitolino un giovinetto di 13 anni, che si chiamava Quintiliano Sulpicio Massimo, ed ecco perchè gli fu eretto quel monumento nell'anno 94.

Or questo dimostra in quale onore fosse allora tenuta la poesia, o meglio la follia del verso Prendeva l'uomo dalle fascie e lo accompagnava sul rogo. Era insieme balia e becchino dei romani. Infatti a quel ragazzo, che parve degno d'un monumento fa riscontro Vestricio Spurina, anch'esso onorato di statue, il quale a 77 anni dedicava tutti i giorni gl'intervalli fra il passeggio ed il bagno a scrivere un'ode o un epigramma. Un tempo la romana gioventù si educava nel campo di Marte alla lotta faticosa; non le si dava che un povero insegnamento di grammatica e uno più ricco di giurisprudenza. Ma così imparava l'arte di fronteggiare i nemici e l'arte di combattere le battaglie del foro.

La poesia, che è quasi divina necessità, non s'insegna, non devesi insegnare nelle scuole. Val più una fabbrica di pentole, che anche fesse possono servire, d'una fabbrica di poeti impastati di regole e di prosodia. Eppure anche adesso la poesia è un gran solletico di amor proprio specialmente alle mamme, le quali vanno in estasi di contentezza, se il loro bambino con gli occhi bassi e alzando alternamente i braccini borbotta il famoso sonetto: quando Gesù con l'ultimo lamento. E le amiche, che vanno loro a far vi

sita, sono costrette a prenderselo in collo il fanciullo fenomeno, sono costrette a sbaciucchiarselo il bebé piagnoloso. O non sarebbe meglio farli saltare i ragazzi e insegnare ad essi poche e chiare massime sul dovere e l'onore, vera poesia o meglio religione in cui si affratella tutta l'umanità, qualunque sia il culto, con cui si adora e si prega Dio? Perchè insomma sebbene anche il dovere e l'onore siano valori in ribasso, alla borsa un pochino ci credono ancora e gli quotano più d'un sonetto.

La moda del verseggiare era tale in Roma che alla fine dell'anno si faceva il bilancio delle poesie pubblicate, e se erano state molte, si usava comunemente questa espressione: annata fertile annata buona. Come chi ora dicesse: bella raccolta di rape o di cetriuoli. Per le nozze dell'imperatore Gallieno furono scritti più di 100 epitalamii, di cui un terzo di poeti di professione e due terzi di poeti dilettanti. Poichè il dilettantismo poetico era quasi obbligatorio come le regole del Galateo, nè pareva persona bene educata e stimabile chi non sapeva mettere insieme o almeno citare dei versi. Racconta Seneca che un tale Calvisio Sabino ricchissimo e ignorantissimo aveva con lunghi sforzi procurato di cacciarsi in mente degli squarci di Virgilio e di Omero. Ma poichè, quando gli abbisognava di servirsene, imbrogliava il latino col greco e il principio con la fine, gli aveva pur fatti apprendere a un suo schiavo, che sempre gli stava appresso e gli faceva da suggeritore.

Nerone, che più di tutti gli altri imperatori dette la spinta alla frenesia del poetare, erasi proposto di scrivere in versi nientemeno che tutta quanta la storia di Roma dalla nascita di Romolo al tempo suo. Un tale, un filosofo stoico, che si chiamava Cornuto, e già si capisce che portando siffatto nome non poteva essere che un filosofo, ebbe il coraggio di dirgli: « ma è un lavoro colossale << quello che ti proponi, o Cesare; non ti basteranno 400 libri, che << nessuno poi leggerà. » E Nerone rispose: « Crisippo ne ha scritti « il doppio. » « È vero, ribattè il filosofo, ma i libri di Crisippo sono << utili all'umanità.» Nerone dopo questo mise da parte il suo strambo divisamento, ma Cornuto fu mandato in esilio.

Orazio, parlando dei poetastri, che pur non si erano ancora moltiplicati all'infinito come avvenne dopo la sua morte, ne lasciò una descrizione paurosa. Egli dice che ghermivano e fermavano quanti incontravano per la via, nè c'era modo di sfuggire alla

noia di sentirsi leggere i loro manoscritti. Parevano orsi furibondi, a cui fosse riuscito di rompere le sbarre della gabbia; parevano sanguisughe, che non si staccano finchè non siano satolle. Marziale aggiunge che erano capaci di svegliare un amico durante la notte per obbligarlo a dare un giudizio sopra un nuovo parto della loro musa. Umbricio, amico di Giovenale, scappò da Roma in un accesso di disperazione per levarsi da dosso il brulicame dei poeti. Nel romanzo di Petronio un poeta trovandosi in una nave sbattuta dalla tempesta declamò i suoi versi coll'acqua alla gola e mentre stava già per dare l'ultimo tuffo.

E come ogni luogo era buono per recitare giambi, trocaici e asclepiadei, così ogni soggetto era buono per farvi sopra un idillio, una satira, un'epistola, un componimento qualsiasi sonoro di frasi e vacuo d'originalità. L'abitudine di adattar tutto a materia poetica divenne anzi regola e precetto, e questa regola s'insegnava ancora dai maestri di rettorica di 40 o 50 anni fa. Tanto è vero che il maestro mio, che era un frate scolopio, fece a me una volta comporre dei versi sulla lucerna, che egli teneva sul suo banco e accendeva nei giorni scuri dell' inverno. Il fondo inesauribile, a cui attingevano tutti, non esclusi Stazio e Lucano, che pur volano alto fra i contemporanei, erano l'allegoria e la mitologia. Un giorno a Stazio fu fatto vedere dall'amico Atedio Meliore un platano bellissimo in una sua villa. L'albero verde e frondoso si fletteva e specchiava nel terso cristallo d'un lago. Che leggiadro soggetto! -Scrivici un'ode, o poeta. E il poeta non se lo fa dire due volte, e inventa questa storiella. La ninfa Foloe era inseguita dal Dio Pane. Foloe corre per valli e per monti, e arrivata alla villa di Atedio Meliore si getta stanca a sedere sulla riva del laghetto e si addormenta. Ma Pane scopre il suo ritiro, e sta per islanciarsi sopra di lei, allorchè Diana discesa dal monte Aventino sveglia la fanciulla, che tuffatasi a capo fitto nell'acqua si nasconde in un canneto. Pane, che all'acqua preferisce il vino, si guarda bene dall'inseguire nel canneto la najade; ma per consolarsi svelle un giovine platano e lo pianta nel posto dove Foloe dormiva, raccomandandogli di ombreggiare l'asilo della ninfa crudele. Che sentimento di natura! In questa composizione artificiosa e pretenziosa, il platano, che pur doveva esserne il soggetto, c'entra, perchè il poeta ce lo fa entrare, non perchè sia necessario. Faceva lo stesso far piantare al satiro un corbezzolo o un fico.

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