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sebbene si facciano con altri fini, rivaleggiano degnamente con le antiche.

Affrettiamoci perciò e concludiamo. In Roma adunque, come già per l'avvenimento dell'impero erasi chiuso il foro dei liberi oratori, così, in poco meno di due secoli dopo, si chiusero pure le sale, gli auditorii dei verseggiatori servili. Le muse divine erano con gli altri Dei tornate all'Olimpo, e Roma tacente si preparava a morire, perchè nessuna gran voce le rammentava i suoi oracoli, e la letteratura avea mancato al compito suo. E vi aveva mancato, perchè nata fulgidamente dall'imitazione dei modelli greci, non fu mai del tutto nazionale, e in ogni modo con rapida rovina era divenuta tumida, venale, disonesta e anche ingenerosa. Ingenerosa, perchè i cristiani, i quali nel periodo di cui abbiamo discorso, morivano, non teatralmente segandosi le vene, ma fortemente resistendo e piamente perdonando, non uno solo trovarono fra tanti verseggiatori, che raccogliesse i loro oscuri combattimenti, che compatisse alle loro miserie. Eppure la poesia era li, la poesia era tra quegl'infami, come gli chiamò il gravissimo Tacito, era tra quei fanatici, come gli chiamò Giovenale, declamatore anch'esso, che prima di sdegnarsi aspettò prudentemente che i personaggi delle sue satire fossero distesi lungo la via Latina o la via Flaminia, e lasciò passare quarant'anni di delitti e di follie.

Fu detto e ripetuto che Roma cadde e si disfece per i suoi vizii. Ma se i vizii fossero sola e diretta causa di dissolvimento e di morte ai popoli, povero mondo! sarebbe già da un pezzo un cimitero e un deserto. Tuttavia, ed ove si ammetta almeno in gran parte la verità di quest' affermazione, io penso che del pervertimento morale dei romani debba tenersi responsabile la letteratura. Il che parrà pensiero ardito, e certo richiederebbe un lungo svolgimento. Ma solo si consideri quale influenza possa avere sui destini d'una nazione un' arte ammaliatrice, che estrinseca e dirige il pensiero umano. Quando la fede religiosa è spenta (e allora, come allora, era spenta) una letteratura che invece di ri specchiare la corruzione, fermamente prosegua, esalti, propugni qualche grande ideale di patriottismo e di virtù, non è ella forse un essenziale elemento di vita? Chi è se non lo scrittore, non mestierante, non accademico, che alla folla gaudente possa gridare: in alto?

La letteratura governa gli animi, guida la politica, domina i

poteri dello Stato, dà un organo a tutti i bisogni, un grido a tutti i lamenti. È perciò che non immeritamente nè enfaticamente la letteratura fu detta un sacerdozio. Diamo uno sguardo alla prima metà del nostro secolo. Anche l'Italia aveva despoti e martiri. Ma la letteratura non era codarda e solo rivolta alle frivolezze e al piacere, nè pareva assioma indiscutibile che la morale nulla ha che fare con l'arte. La poesia, la storia, la satira, il romanzo raccoglievano il sangue dei nuovi Trasea e lo gettavano in faccia ai nuovi Tiberiucci. Ed ecco perchè mentre la Roma latina dovè aprire le sacre porte a Genserico, la Roma italiana le apri a Vittorio Emanuele.

V. GIACHI.

Vol. XXIV, Serie III - 16 Novembre 1889.

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LA CHIESA E LA QUESTIONE SOCIALE

Ricordiamo di aver letto nell'Epistolario del Conte di Cavour una lettera importante sulla questione sociale. Esiste una questione sociale? domandava l'insigne uomo di Stato. E rispondeva negativamente. O più esattamente, egli soggiungeva, quella che ora noi denominiamo questione sociale, è antica quanto il mondo; è una condizione di cose inerente alla natura dell'uomo, il quale ha cercato, in ogni tempo, di accrescere il proprio benessere materiale. Chi è giunto ai più alti gradini della scala che conduce ai materiali godimenti, è guardato con occhio d'invidia dai meno fortunati che di quella scala non hanno oltrepassato i gradini inferiori. Il concetto del Conte di Cavour non può dirsi nuovo, ma potrebb'essere ampiamente illustrato e commentato. Non solamente è antica e sarà eterna la lotta del povero contro il ricco, ma la povertà, come la ricchezza, è relativa, e l'uomo è così fatto che non si contenta del proprio stato neppure quand'è tollerabile. Lo sospinge, lo tormenta di continuo il desiderio del meglio. Il corpo sociale è sempre stato travagliato da questa malattia. La storia registra, nel corso de' secoli, qualche breve periodo di sosta, ch'è tosto seguito da periodi di recrudescenza. E in uno di questi periodi ci troviamo appunto oggi; negando l'esistenza della questione il Conte di Cavour andava tropp'oltre; era nel vero invece quando affermava non trattarsi di un nuovo problema. Nella stessa lettera, l'illustre uomo dichiara empirici i rimedii immaginati dai socialisti non solo,

ma le dottrine, in generale, degli economisti che riguardano la cura di siffatte malattie sociali. Non c'è che un rimedio efficace facciano buon uso i ricchi delle loro ricchezze, porgano amorevolmente aiuto agl' infelici, si adoperino a diffondere in tutte le classi sociali una sana e solida istruzione fondata sui principii di una pura morale. Si riuscirà in tal guisa a mitigare il male e sarà tanto di guadagnato; ma nessuno speri di vincerlo, di dominarlo interamente, perchè è un male cronico incurabile, ereditario che risale alle origini dell'umanità e non finirà che con essa.

Queste considerazioni del Conte di Cavour ci ritornarono alla mente non ha guari, mentre leggevamo il discorso indirizzato da Sua Santità Leone XIII ai pellegrini francesi presentatigli il 20 ottobre dal Cardinale Langenieux. In molti punti il gran ministro che proclamò Roma capitale d'Italia, e il Pontefice si accordano, e specialmente nel respingere, come empiriche e funeste, le dottrine dei socialisti e in generale di coloro che vorrebbero applicare alla cura della così detta questione sociale un metodo rigorosamente scientifico. Entrambi fanno appello alla carità, la quale può manifestarsi in mille modi diversi. Il Conte di Cavour inoltre confida nell'istruzione e nella educazione morale; Leone XIII nella fede religiosa che insegna a cercare nella vita futura il compenso alle miserie della vita presente. Il Conte di Cavour però, non era un ateo nè un nemico della religione cattolica; visse e mori nella fede de' suoi padri, e probabilmente non riputava inutile la religione alla conservazione della pace sociale. Quindi neanche su questo punto si può asserire che vi sia dissidio tra le parole di lui e quelle pronunziate testè dal Santo Padre.

Ad ogni modo, dal tempo in cui scriveva il Conte di Cavour la questione se è rimasta sempre la stessa nella sostanza, ha però mutato aspetto, e quel ch'è peggio, si è straordinariamente aggravata. Si è anzi aggravata tanto, che alcuni governi, per tenere a freno il socialismo propriamente detto, hanno inventato il socialismo di Stato, che ha tolto ad imprestito da quell'altro socialismo un gran numero di formule e di ricette, e le viene applicando a mo' di empiastri e ne aspetta prodigi. Ora è certo che il non preoccuparsi di un tale stato di cose sarebbe follia o per lo meno cecità imperdonabile, e lo stesso Conte di Cavour se ritornasse in vita, terrebbe conto del mutamento avvenuto e del pericolo fattosi

maggiore e più prossimo. Sia pure che manchi il mezzo di guarire radicalmente la malattia e di estirparne le cause, ma non ne segue che all'appressarsi di una crisi violenta di essa non si debba e non si possa provvedere a prevenirne od allontanarne i danni immediati. E d'altronde sarebbe imprudente ed ingiusto l'attribuire in via assoluta al Conte di Cavour un'opinione da lui esposta sempli cemente e, per così dire, incidentalmente in una lettera ad un amico. Ripetiamo: se il Conte di Cavour si trovasse oggi a capo di un grande Stato, è assai probabile che non si atterrebbe esclusivamente alle cose scritte trent'anni addietro. Per dire il vero, quelle opinioni erano allora comuni a molti uomini ragguardevoli. L'opera dei socialisti era ancora mal nota e peggio apprezzata; l'importanza veramente minacciosa della questione sociale non si fece palese che più tardi.

Noi abbiamo posto a confronto le opinioni del Conte di Cavour con quelle di Leone XIII, per giungere alla seguente conclusione: che la Chiesa, e per essa il Pontefice, considera ancora quella questione come la si considerava prima che della questione stessa fossero avvenute le nuove manifestazioni. Il che si spiega: su questo, come sopra un gran numero di altri argomenti, la Chiesa professa ab initio opinioni immutabili. Forse, checchè se ne dica, la sua sollecitudine per i diseredati non si è ognora manifestata colla medesima intensità, ma si è sempre informata ai medesimi concetti, agli stessi principii. Rispondono questi concetti, questi principii alle condizioni presenti? Gli è ciò che ci accingiamo ad indagare. Esamineremo pertanto le cause che spingono, in questo momento, la Chiesa ad intervenire, misure remo gli effetti del suo intervento e vedremo se e come la soluzione del problema sociale possa cercarsi fuori dell'intervento stesso.

I.

Una delle principali conseguenze della caduta del potere temporale è stata quella di costringere il Papato a ricercar l'appog gio delle classi popolari. Il Papato ha sentito anch'esso il bisogno di democratizzarsi, come suol dirsi con barbara voce. Non dobbiamo giudicarlo da ciò che vediamo in Italia, dove la Curia ro

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