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spettosa conoscenza delle lettere dell'alfabeto! O forse dei costumi? Ma quali costumi, se non si tratta che di mandare all'ufficio elettorale una scheda? Non deve poter mandare la scheda una donna che ha un patrimonio, che ha la tutela dei suoi figli, che può tener in suo proprio nome un negozio, firmare cambiali, che viaggia sola, che può avere la laurea? Alla Camera fu detto che perfino l'Austria in una legge di questi ultimi anni aveva dato il diritto elettorale per l'amministrazione del comune alle donne. Ma che ultimi anni! Il § 4 del regolamento annesso alla sovrana patente del 12 febbraio 1816 concedeva alle donne, che entravano nei maggiori estimati del comune, il diritto di farsi rappresentare nel Consiglio comunale da un procuratore, e il § 68 le ammetteva perfino a far le parti di sindaco, esercitando però le funzioni per mezzo di persona da loro delegata. Non è curioso di trovarci noi Italiani del 1889, noi che ci vantiamo tanto del nostro liberalismo, così lontani dall'Austria del 1816!

Qui s'impedisce; altrove invece si interviene ad aiutare senza ragione. Una banca, pure di fare affari, presta il suo danaro a un nuvolo di costruttori improvvisati, che calano in Roma a tentar la fortuna col fabbricare. La domanda di tanta gente fa salire i terreni a prezzi favolosi, il che però non distoglie dal comperarli, perchè tanto e tanto la banca provvede e i rischi non fanno paura a chi non ha nulla da perdere. Si costruisce con una furia febbrile dieci volte più del bisogno; le case restano vuote e il capitale impiegato non rende nulla. Le costruzioni si arrestano; agli scioperi forzati succedono le grida, le minaccie, le devastazioni, ma queste non impediscono che molti dei costruttori vadano a rotoli. Il fallimento loro reagisce naturalmente poco dopo sopra la banca, la quale ha bensi l'ipoteca sulle case da finire, o anche se finite, disabitate ed inutili, ma non ha più danari. E allora che si fa? La si aiuta. Ma come? Come il solito, coll' intervento e la intercessione del Governo, il quale permette ad un'altra banca di dar fuori cinquanta nuovi milioni di carta con la condizione di prestarne trenta a quella che vacilla. Per la banca sovventrice il negozio non è cattivo, perchè coi venti milioni di sopravanzo si assicura un guadagno bastevole, senza dire che neppure gli altri andranno perduti. Ma chi ci perde davvero? Noi. Pare incredibile, ma è così. Più infatti l'emissione di carta già enorme cresce, e cresce con essa il discredito delle banche, più andiamo incontro al pericolo, che la carta continui a scemar di prezzo col

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l'effetto immancabilmente connesso di rendere sempre più cara la vita. Paghiamo dunque noi. E per chi? Per i disgraziati azionisti di quella povera banca. Ma lasciate che paghino loro, se sono loro, che condussero cosi i loro affari. Un'altra volta ed essi, e insieme con essi tutti gli altri che, in un tempo perseguitato dalla mania delle rapide fortune, si sentirebbero inclinati a imitarli, impareranno a diriger meglio le loro faccende, a non incoraggiare speculazioni avventate, e sarà tanto di guadagnato per la chiarezza di testa e la lealtà e la serietà di tutti. Che insegna invece il facile aiuto? Che condursi saviamente o al contrario porta sempre lo stesso effetto, che prevedere o non prevedere è tutt'uno, e giova sempre tentar la fortuna arrischiando senza misura, perchè se va bene, si intasca il profitto, e se va male, c'è sempre il Governo che s'inframmette e tutti sono chiamati a pagare per chi ha sbagliato.

Nulla più facile del continuare cogli esempi, ma non è necessario. Le osservazioni precedenti bastano per conchiudere che in Italia in generale, benchè non manchino i casi di un lasciar fare, che va oltre la legge, dovunque si teme di incontrare difficoltà, di regola, e quando non costa rischio nè incomodo, si governa troppo. Colla formula di Romagnosi, è troppo grande la tutela, ma non è grande l'educazione. È troppo il gusto del governare, dell'intervenire, dell'immischiarsi, del darsi a credere che tutto andrebbe a rifascio senza la propria ingerenza diretta e personale. Per mancanza di esperienza e di tradizioni governative, non si crede agli effetti dell'organizzazione e della responsabilità lasciata a chi tocca. Quindi uno zelo eccessivo, la voglia di parere, il desiderio di popolarità in un paese avvezzo ad attendere tutto dal Governo, inducono a inframmettersi in ogni cosa, a tutelare affannosamente, a moltiplicare le guardie, i riscontri, le ispezioni, le inquisizioni, a darsi l'aria di ottenere con comandi imperiosi ciò che da quelli che li ricevono sarebbe stato fatto spontaneamente, a mantenere l'ordine con grandi apparati di forza, dove si manterrebbe da sè, a offendere colla diffidenza e coi sospetti, a trapassare impetuosamente dall'uno in altro eccesso. Mancando un concetto chiaro del fine, manca anche quello dei limiti; o, se non manca il concetto, manca la tranquillità di spirito e il dominio di sè necessario a conseguire l'uno e a contenersi negli altri. Tutto considerato, come dicevamo, un fare paterno, ma di un padre che avendo pure buone intenzioni, si travaglia e con

suma con scarso frutto; di un padre affannato, sospettoso e debole, che si lascia tirare di quà e di là da un figlio irrequieto; che non sapendo farsi rispettare coi modi tranquilli e un contegno sicuro di sè medesimo e sempre eguale, si ricatta colle sfuriate e lo spia dal buco, e sia che ceda, sia che resista, non fa che perdere l'autorità coi pentimenti e i litigi, tanto che il figlio gli prende la mano e si abitua ad abusare di una libertà, che gli sembra di conquistarsi di volta in volta da sè, in luogo di avvezzarsi a usare ragionevolmente di quella che gli appartiene.

VI.

Dall'insieme delle premesse osservazioni apparisce chiaro, che in Italia, se c'è troppa libertà da un lato, ce n'è troppo poca da alcuni altri. Ce n'è troppa, in quanto di frequente non si osserva la legge, ciò che illude non pochi, benchè in vero ciò non dovesse essere messo in conto di libertà, ma di abuso di libertà e di licenza; ce n'è troppo poca, in quanto parecchie leggi e parecchie pratiche di governo non si convengono ai tempi, non si accordano colle libertà pubbliche, non mirano a preparar loro un ambiente omogeneo nelle opinioni e nei costumi. In fine c'è quella libertà che non ci dovrebbe essere, ma non c'è quella che importerebbe ci fosse.

Le nostre libertà politiche, non nacquero sul nostro suolo in lontani tempi, non crebbero modificandosi via via colla nostra civiltà, a somiglianza di quelle dell'Inghilterra, nè furono precedute e preparate di lontano da un rinnovamento della coscienza, che costitui libero l'uomo interiore, come quelle della Germania. Vagheggiate e ammirate per lunghi anni di oppressione quale unico rimedio ai mali di un assolutismo o violento o corruttore, furono importate nel nostro paese da un punto all'altro con un decreto. Siccome però con un decreto non si cangiano le tradizioni, le abitudini, la vita secolare di un paese, ne seguì una specie di salto nella storia, o in altri termini, una lacuna si aperse fra le istituzioni e i costumi. Inosservate, inconsapevoli di sè stesse, antiche opinioni e antiche usanze protrassero la loro esistenza accanto alla nuova libertà.

Non era colpa di nessuno, se le istituzioni prevenivano in molta parte d'Italia le condizioni sociali e civili del paese. Ma poichè gli avvenimenti non avevano consentito di adattare le istituzioni agli uomini, si sarebbe dovuto fino da allora veder chiaramente

la necessità, che gli uomini si adattassero lentamente alle istituzioni. Fino da allora alcune di queste avrebbero potuto essere indugiate a tempo più opportuno, come p. e. i giurati, restringendoli per allora ai delitti di stampa, come aveva fatto il Piemonte. Ma intanto si sarebbe dovuto por mano a un lavoro ricostituente, diretto a sostituire nuove abitudini a quelle ereditate dai governi di prima e a rinnovare il modo di pensare e di vivere quanto intendevamo di rinnovarci per quello di essere governati; un lavoro certamente non facile, ma non impossibile, quando l'avesse guidato il convincimento sincero dei danni, cui senza di esso sarebbe andato incontro il paese. Ci sarebbe quindi voluto un governo atto a dominare con imparzialità storica gli avvenimenti contemporanei, a rendersi conto senza idee preconcette del grado di civiltà cui era giunta la maggior parte d'Italia, consapevole dei difetti, ch'essa aveva ereditato dalle sue lunghe sventure e risoluto, non a nasconderli, nè a blandirli, ma a rimediarvi; un governo in fine, bensì lealmente devoto alla libertà, ma in pari tempo convinto, ch'essa non è che retorica, se non ha per base l'esatta osservanza della legge, giusto, fermo, sicuro di sè medesimo, con tutti i pensieri nell'intento di dare alle istituzioni costituzionali un fondamento solido in quelle disposizioni delle menti e degli animi, priva delle quali la libertà resta una pianta senza radici.

Ma, appunto quando sarebbe diventato necessario un governo di questo genere, sorgevano le condizioni meno propizie a poterlo avere. Da un lato infatti era inevitabile di lasciar da parte, se si levano i Piemontesi, tutti gli uomini, che avevano esperienza dell'arte di governare, un'arte che non s'improvvisa, perchè legati di memorie o di affetto agli Stati, o alle dinastie di prima e in generale poco favorevoli alla libertà, sostituendone loro altri, nei quali l'esperienza non andava del pari col patriotismo. D'altro lato i nuovi ordini contribuivano, per necessità della loro natura, a rendere l'opera loro anche più incerta e confusa. Per effetto di questi ordini sorgeva infatti un governo mutabile, malsicuro del domani, costretto dalla necessità delle cose a pensare sopra tutto all'arte di reggersi in piedi, a campar quindi, se non sempre di condiscendenze e di favori, certo sempre di transazioni, venendo a patti cogli interessi, colle passioni, a volte anche coi pregiudizi, che salivano fino al potere dal basso, e che il potere, in luogo di correggere, doveva subire.

Fra i pregiudizi infatti non era l'ultimo, nè il meno pericoloso,

per quanto fosse il più scusabile, quello di credere, malgrado le ripetute esperienze della Francia e i suoi disinganni, che le libertà politiche bastassero da sole a tutto, facessero cioè, senza bisogno di altri aiuti, il miracolo di formarsi intorno le condizioni di una esistenza durevolmente prospera, rinnovando da sè ogni cosa. Secondo quest'idea, esse non avrebbero assunto il colore dell'ambiente, in cui venivano trasferite, ma l'ambiente, supposto che ce ne fosse stato il bisogno, sarebbe sorto pronto e spontaneo da loro. Con questo culto superstizioso, che i più portavano alle libertà politiche senza averne un concetto chiaro, doveva seguire che, non soltanto non si sentisse la necessità di quel tal lavoro previdente diretto a mettere in maggiore accordo con esse le altre istituzioni, ma tutto lo sforzo fosse rivolto di continuo ad accrescere e allargare con una fretta febbrile le libertà politiche stesse, dalle quali s'aspettava ogni bene. In quest'unico sforzo si raccolse quindi tutto il liberalismo a tal segno, che essere liberale non venne a voler dir altro; e a poco a poco anche i meno persuasi, che non fosse un rischio il prevenire così i tempi e i bisogni del paese, si lasciarono trascinar dagli altri e o non osarono, o credettero inutile il contrastarvi. In tal modo si faceva percorrere all'Italia in trent'anni lo spazio, che l'Inghilterra aveva percorso in seicento, ingrandendo sempre quella tal lacuna fra le istituzioni e i costumi, che fino dai primi tempi si sarebbe dovuto pensare a diminuire. Più infatti le riforme politiche si accavallarono, più rimasero alla superficie in luogo di penetrare nella vita, diventarono una specie di intonaco destinato a coprire i crepacci del muro e campeggiarono solitarie in un mondo a parte lasciando dietro di sè il paese. Quindi fu presa per libertà quella che non meritava questo nome e quella che l'avrebbe meritato non fu intesa, nè apprezzata; onde in fine, apparendo in modo sempre più manifesto gli scarsi frutti, ai facili ed entusiastici amori di altri tempi sottentrarono in un numero via via più grande lo scetticismo e l'indifferenza, se non anche talvolta una mal dissimulata contrarietà.

Fra i canti funebri con cui si celebrarono le esequie agli avanzi di un partito, che senza dubbio non seppe preservarsi da errori, ma ebbe pure i suoi meriti verso l'Italia, si udi anche questo, che ormai i partiti non erano più possibili, essendo state risolte tutte le grandi questioni, che avevano servito a farli nascere e ad alimentarli. Or com'è che i partiti vivono in paesi più Vol. XXIV, Serie III

- 1 Novembre 1889.

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