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Non furono lavoro facile le ricerche che egli dovette proseguire per illustrare i documenti Veneti; esse durarono oltre quattro anni e si raggirarono su tutti i fatti rammentati dai documenti, su tutti i luoghi in quelli accennati, su tutte le persone con le quali il Bruno era stato in relazione o che aveva semplicemente conosciute. In lavoro si lungo e complesso lo scrittore seppe mantenere la giusta proporzione degli uomini e delle cose col suo protagonista. A Corte, nelle case dei grandi, nelle Università, davanti ai giudici, nel carcere, la figura del Bruno, è sempre quella che ci sta davanti in modo spiccato e distinto; la principale sopra una tela popolata da molti e vari personaggi. L'armonia e la proporzione delle parti, la naturalezza e forbitezza del dettato, danno a questo scritto un alto valore letterario. Il Berti seppe essere facile senza cadere nel volgare; elegante e nobile senza dare nel ricercato: la sua elocuzione è sempre propria, ed egli ha l'arte, assai rara ai nostri tempi, di rendere chiari ed intelligibili i concetti astratti e metafisici.

G. M. D.

RASSEGNA DELLA LETTERATURA ITALIANA

ROMANZI E NOVELLE

LUIGI ZINI, Carbonari e Sanfedisti, romanzo storico. (Ditta Paravia, Torino, 1889). FRANCESCO MORDENTI, I Democratici. (Ragusa, Piccitto e Antoci, 1889). UGO VALCARENGHI, I Rétori - Fumo e Cenere, romanzo. (Milano, Galli, 1889) F. DI GIORGI, L'Avvocato Danieli. (Catania, Giannotta, 1889). — Avv. GIUSEPPE PROTOMASTRO, Ostacolo! romanzo sociale. (Trani, Vecchi, 1889). S. LAZZARO, Crux. (Messina, Saja e Anastasi, 1889). BRUCENI e CARENA, Dilemma crudele, romanzo. (Milano, Brigola, 1889). — CARLO DEL BALZO, I Deviati Studi di Costumi contemporanei Eredità illegittime, romanzo. (Milano, Galli, 1889). EDOARDO CALANDRA, La Contessa Irene, romanzo. (Torino, Casanova, 1889). F. DE ROBERTO, Ermanno Raeli, racconto. (Milano, Galli, 1889). LUIGI CAPUANA, Fumando novelle. (Catania, Giannotta, 1889). IDA BACCINI, Dal Salotto alla Chiesa, racconti. (Milano, Galli, 1889). BRUNO SPERANI, Nella Nebbia. (Milano, Civelli, 1889). — GIULIA TURRINELLI--Comelli, Mi avrebbe sposato. (Milano, Dumolard, 1889).

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Paragonando l'opera poetica e le idee critiche del Manzoni vedesi che niuno l'ha giudicato meglio di Gino Capponi in quella lettera a Giovanni Morelli, dove narrando dei suoi colloqui col gran poeta, stato suo ospite a Varramista nell'autunno del 1852, gli scrive: « Sentirlo discorrere e pensare ch'egli è l'uomo stesso, il quale ha fatto gli Inni e i Promessi Sposi; e mettere insieme tutto quell'essere intellettuale, che pare così oppostamente duplice...! In molte cose, a prima vista, non so essere con lui... ma credo vi sia in tutte forse un'ultima ratio,

ch'egli vede più degli altri, e vede solo quella,... tirannescamente rinnegando anche una parte di sè medesimo. » Di fatto il Manzoni nel colmo della gloria procacciatagli dai Promessi Sposi scrive il discorso sul Romanzo storico per dimostrare essere questo un componimento, <<< nel quale deve entrare e la storia e la favola senza che si posza nè stabilire, nè indicare in qual proporzione, in quali relazioni ci devono entrare; un componimento insomma che non c'è il verso giusto di farlo, perchè il suo assunto è intrinsecamente contradditorio. »

Al pubblico, che aveva letto i Promessi Sposi, pareva invece, e pare anche oggi dopo più di sessant'anni, che il Manzoni avesse trovata un'equazione perfetta fra i due termini. Al pubblico, non a lui! Come il Cardinale Borromeo, di cui Don Abbondio pensava: « che sant'uomo! ma che tormento! purchè frughi, rimesti, critichi, inquisisca: anche sopra di sè; » o ancora, come Leonardo da Vinci, che, dopo i prodigi operati, si scusava colla posterità di non aver raggiunta quella symmetria prisca, in cui credeva consistere la perfezione dell'arte; cosi il Manzoni si travaglia esso pure dietro un ideale, « un' ultima ratio, ch'egli vede più degli altri e vede solo quella, » in cui favola e storia, poesia e realtà abbiano a confondersi insieme e comporre un'entità sola.

Queste esitazioni, questi scrupoli non ebbe di certo Luigi Zini pel suo romanzo storico: Carbonari e Sanfedisti.

Di questo libro la Nuova Antologia ha già dato notizia, encomiandolo di molte parti buone che ha, come pittura di costumi, figure caratteristiche del tempo, nobiltà d' intendimento storico, e non ne riparleremmo, se mentre il nostro romanzo contemporaneo va un po' a tastone per vie diverse e non sempre con prospera fortuna, una riscossa del romanzo storico non fosse per sè stessa importante e meritevole di tornarci sopra con qualche altra considerazione.

Si lasci pure solo in parte, come il Saladino di Dante, il romanzo del Manzoni; certo è che i tipi principali di parecchi nostri romanzi storici conquistarono subito una larga popolarità ed anche oggi, nel naufragio quotidiano di tanti altri tipi non storici, serbano una certa giovinezza relativa, sopravvissuta alle stesse teoriche letterarie e ai gusti artistici, ond' erano nati. La forma è dunque ancora vitale e trarla fuori dai suoi vecchi stagni medievali per rituffarla nelle acque agitate della storia contemporanea è un'altra idea buona e da lodarsi.

È molto facile per tal guisa fare opera di partito, come si vide già nell'Ebreo di Verona del Padre Bresciani, ma ciò sotto l'aspetto dell'arte importa poco, e del resto si può far opera di partito anche scri

vendo ex professo di storia. Non si tratta di questo. Dicevamo bensì che lo Zini non ebbe gli scrupoli e le esitazioni del Manzoni ed ecco perchè.

È egli il fondo del quadro, che deve essere storico, e sul quale s'ha ad atteggiare la favola inventata? Debbono essere storici i tempi od i personaggi? e questi si può farli agire e parlare d'invenzione o nel modo solo, che di essi si sa dalla storia? e storia e invenzione s'hanno a tenere distinte o mescolate insieme? Impossibile tutto, risponde il Manzoni. Noi non siamo del suo parere e per tutta risposta ci sembra che basti opporre al Manzoni critico il Manzoni romanziere.

Da questo però a mescolare non solo favola e storia, ma mescolare i tempi addirittura, d'un fatto accaduto in un dato tempo pigliare il principio e appiccargli la coda d'un altro accaduto in tempo diverso, di due farne uno od uno spezzare in due, scegliere un personaggio storico e attribuirgli le azioni d'un altro, da questo, diciamo, allo scrupoleggiare del Manzoni, troppo ci corre! « Poetis quidlibet audendum... » con quel che segue. Chi lo nega? Ma in tal caso inventino di sana pianta. Col libro dello Zini siamo invece nell'anno di grazia 1820 e in una delle vecchie capitali italiane, dove tiranneggia un principotto, schiavo dell'Austria e dei Gesuiti, e dove i sudditi s'ingegnano cospirando a cacciarsi dal collo la scellerata trimurti, argomento che, se ben ci ricorda, fu già trattato in romanzo col titolo di Vecchie Storie anche da Paolo Ferrari. Breve, e squarciando i veli, nei quali non sappiamo perchè lo Zini ha ravvolto luoghi e personaggi, siamo a Modena sotto Francesco IV; l'eroe del racconto dello Zini è senza dubbio Giuseppe Andreoli, nascosto sotto il nome di un Don Giannantonio Fortini, il quale Andreoli fu giustiziato come carbonaro il 17 ottobre 1822, ed il motivo principale di tutto l'intreccio del romanzo (anche questo si vede chiaro) non appartiene affatto alla vita dell'Andreoli, bensì a quella del Cavaliere Giuseppe Ricci, falsamente accusato di cospirazione dal Ministro Conte Riccini per vendetta privata, il qual Ricci, guardia nobile del Duca e marito d'una gentile signora, fu fatto morire, innocentissimo d'ogni colpa politica, il 19 luglio 1832.

Il prete Andreoli ed il Cavalier Ricci divengono così una sola persona; il 1822 ed il 1832 un medesimo tempo. Lasciamo stare altre di tali alterazioni. Dov'è ripreso il tema della Rome Souterraine del Didier, cioè gli accordi momentanei fra Carbonari e Sanfedisti, il racconto dello Zini (nonostante alcuni profili assai bene delineati) aggiunge, se mai, oscurità ad un fatto per sè stesso oscurissimo. Ma quanto al nodo del Vol. XXIV, Serie III 16 Novembre 1889.

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romanzo è possibile titolare romanzo storico un tale amalgama! Proponiamo il quesito allo Zini stesso, che è certamente uno dei più dotti cultori e scrittori di storia contemporanea. Quanto a noi, confermando le lodi già date al suo libro, pensiamo che nè la storia possa concedere, nè il romanzo prendersi di tali licenze, sia pure con la migliore intenzione di abbozzare all'ingrosso, condensando fatti diversi in un solo racconto, « una pittura sociale di quel tempo. »

Che se l'intenzione, la buona intenzione bastasse, quale romanzo meriterebbe maggior lode dei Democratici dell'avvocato Francesco Mordenti? Un uomo d'ordine, un liberale moderato e monarchico, il quale scrive un romanzo per rivelare in piena sincerità di spirito le brutture di tutto il presente carnevale di volti e maschere democratiche (un carnevale, che minaccia forte di non avere quaresima) meriterebbe non lodi soltanto, ma addirittura una corona civica. E pensare che se invece di questa tesi le convinzioni dell'avvocato Mordenti gli avessero permesso di sostenere la tesi opposta, non lodi e corone, ma, comunque avesse scritto il suo romanzo, il Panteon a quest'ora gli sarebbe già stato decretato e spalancato! Nel suo partito invece l'avvocato Mordenti queste mutue benignità non le trova di certo, e non già perchè nel suo partito sia il monopolio della schiettezza, ma perchè v'è un andazzo antico di mai sorreggersi un po' gli uni cogli altri. V'è anzi il costume opposto, e se per caso accarezza, preferisce accarezzare i nemici. Furbo il partito!...

Questa digressioncella dice abbastanza il nostro pensiero sul libro dell'avv. Mordenti, il cui fine è per noi lodevolissimo, i mezzi non altrettanto. Dio sa se Tommaso Grossi, quando Massimo d'Azeglio gli lesse i suoi versi era disposto a trovarli eccellenti! Ma quando gli ebbe letti, glieli restitui dicendo: « Hin propri minga bei! »

Consoliamoci di questa semisconfitta politica col Fumo e Cenere di Ugo Valcarenghi, romanziere del più spietato verismo e le cui teorie politiche, se, come apparisce da qualche accenno, somigliano alle letterarie, debbono proprio essere agli antipodi di quelle dell'avv. Mordenti. Fumo e Cenere è il secondo romanzo di una serie, il cui titolo generale è: 1 Rétori, tipo Zoliano, che arieggia la dinastia dei RougonMacquart, ma indica insieme una più immediata intenzione di guerra. Fosse pure! Guerra a tutte le rettoriche, che coprono falsità o assenza di idee, guerra ai parolai ciarlatani, guerra ai . . . . Ma qui i Retori chi sono? Fulvio Testi, non il poeta del ruscelletto orgoglioso, ma un Fulvio Testi purchessia, è il protagonista e, si può dire, il personaggio

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