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progrediti del nostro, per esempio in Inghilterra? Il dire che i partiti son morti è dire ch'è morta la vita costituzionale e morta con essa la libertà, perchè, quando non vi son partiti che l'adoperino per farsi valere, anche la libertà diventa inutile. È cessata la ragione di partiti, che si dividano sul modo di far l'Italia, perchè l'Italia grazie al cielo è fatta, ma resta e resterà sempre quello che riguarda il modo di costituirla meglio e di governarla. Perciò questioni ce ne furono, ce ne sono e ce ne saranno fino a che ci sarà un paese che viva, ossia abbia faccende pubbliche, dalle quali dipendono la sua sicurezza, la sua prosperità, il suo miglioramento civile, e sopra di esse sia lecito a ognuno di adoperare la propria testa. Ma per intanto ce n'è una, che le domina e abbraccia tutte, quella di rendere la libertà innegabilmente utile, e di riguadagnarle con questa utilità evidente un amore e una fede, che ormai vacilla. Più che negare il fatto, giova riconoscerlo e finchè c'è tempo cercare di rimediarvi. È un fatto che avvenne in Francia nel 1830, che si rinnovò nel 1848, ed ora si riproduce a distanza di tempo e attenuato dall'apatia nostra fra noi. E noi dobbiamo, non già aspettare indifferenti le stesse sorti, o peggio continuare a inocularci i fattori, che contribuirebbero ad affrettarcele, ma deviare in tempo da noi la corrente minacciosa, che involge e trascina più o meno rapidamente tutte le nazioni latine, e anche senza imitare più oltre gli esempi della Francia, trasporterebbe noi pure al punto a cui vediamo fatalmente appressarsi la Francia stessa, malgrado la sua prosperità e la sua grandezza. Non indugiando ad intendere dove siamo e dove andiamo, proposito nostro dev'essere di correggere le nostre istituzioni e le nostre leggi, ma insieme anche i nostri modi di governo, secondo un concetto della libertà più temperato, più sobrio e più pratico, ma in pari tempo meno ristretto e meno esclusivo. Poichè manifestamente la libertà in Italia è tutta o quasi costipata e racchiusa in una parte sola della vita civile, i fatti e le condizioni del paese consigliano da un lato di ricondurla ne' suoi giusti termini, dall'altro di equilibrarla. Circoscrivere quello che sopravanza e aggiungere senza grettezza e senza timori dove a un esame imparziale si rivela il difetto, dando una vera omogeneità a tutta la vita della nazione, dev'essere il duplice intento di chiunque, non lasciandosi distrarre dai piccoli interessi e dalle piccole passioni del momento, contempla con occhio da storico e cuore di patriota l'andare delle cose nel nostro paese.

Nè circoscrivere vuol dire levare. In materia di allargamenti politici, si può a volte benissimo non fare, ma difficilmente si può disfare ciò che fu fatto. Trattasi dunque per la prima parte, diremo così, negativa, di rientrare innanzi tutto nella legalità, prendendo per fondamento alla libertà la giustizia. Ma insieme, se non trattasi di disfare ciò che fu fatto, trattasi però di non continuar a fare ciò che si comprende essere stato fatto temerariamente, vale a dire di far sosta con riforme politiche, che prevenendo i tempi si riducono a sconvolgimenti, e con la sterilità stessa, cui sono condannate, disamorano e stancano sempre più le popolazioni. Non di allargare ancora le libertà politiche; ciò che importa è di imparare a farne uso, di comprenderne i benefici, di avvezzarci a valercene e a goderne i vantaggi, di digerirle, di mutarcele in sangue, che porti dovunque una vita sana e rigogliosa, se vogliamo riuscire ad essere quello che ci siamo sforzati tanto di parere. Ma per ciò è necessario, che lo spirito delle istituzioni politiche penetri in tutte le altre e dalla corrispondenza di tutte nasca in tutti quel complesso di disposizioni di mente e di animo, che rendono la libertà feconda, permettendole di distendere le sue radici nei costumi. Dobbiamo quindi arrivare a un sistema di lealtà cui ripugni di porgere con una mano ciò che si ritira con l'altra, o di cercar contrapesi nascosti a larghezze destinate a illudere. Dobbiamo raggiungere un ragionevole decentramento nell'amministrazione, una graduata responsabilità degli impiegati e, per effetto dell'uno e dell'altra, una restrizione proporzionata dell'arbitrio ministeriale; ma in pari tempo dobbiamo provveder meglio all'indipendenza e alla dignità della magistratura, che in un paese libero dev'essere sovrana, sottraendola a vigilanze indecorose, liberandola da uffici, che non le spettano, rendendola autonoma col farla dipendere soltanto da sè medesima, e in pari tempo a guarentire in modo più efficace la libertà personale. Dobbiamo insomma coordinare tutta intera la cosa pubblica a un concetto omogeneo, alto e degno, e con istituzioni e leggi, che insegnino il rispetto, cominciando dal professarlo, leali, franche, pratiche ed utili, far intendere che questa libertà non è un nome, non è un sipario, nè un frontispizio, non è neppure una scala alle ambizioni, o un solletico alle vanità dei pochi, ma una cosa salda e vera, preziosa per tutti e a tutti cara, che il cittadino d'Italia si porta con sè dovunque, in cui vede il suo usbergo, e sente la sua forza, e da cui impara a inchinarsi ossequente ai diritti degli altri, ma appunto perciò anche

a farsi vigile e geloso custode dei propri. La vera libertà insegna a trovare nella coscienza del dovere la forza del diritto. Quando quest'idea sia diventata un sentimento comune, allora, ma allora soltanto, saremo liberi.

Per ora, continuando, come abbiamo fatto fino ad oggi, a campare di condiscendenze, di transazioni, di più o meno furbeschi e dissimulati soprusi, coltiviamo dentro di noi tutte le contraddizioni; raccogliamo e condensiamo nelle istituzioni nostre e quindi nella nostra vita lontani tempi, facendone una mistura, da cui non possono venir che guai. Bisogna risolversi ad essere o del tutto vecchi, o del tutto nuovi. Andando a precipizio con una parte della vita civile, e restando indietro con tutte le altre, esagerando cioè le libertà politiche e tollerando che per quanto larghe vengano oltrepassate, per rifugiarci poi, consapevoli o istintivamente, nelle idee di ordini civili pervenuteci in eredità da altri secoli, accumuleremo sopra di noi i mali di una gioventù forzata e convulsa con quelli della senilità. Avremo quindi sempre più un paese di convenzione modernissimo alla superficie, e di sotto, malcoperto da esso, un fondo vecchio persistente e immutabile. Quindi necessariamente, per effetto delle istituzioni rappresentative, due partiti estremi; l'uno dispettosamente risolto a una angosciata e ai salti mortali; l'altro ostinato, non solo a resistere, ma a retrocedere; l'uno assorto nelle idealità più nebbiose e più incerte dell'avvenire; l'altro fermo a sollevargli contro un passato seppellito dai secoli; due partiti del pari accesi, che rappresentano due età storiche, due civiltà, due mondi, con tutto il fascino che per il maggior numero hanno sempre le esagerazioni e tra i quali resterà un posto via via più angusto per la temperanza e il buon senso. Allora i liberali avranno un bell'illudersi, confondendo, come già cominciarono, la libertà coi privilegi della democrazia e cogli abusi di potere del socialismo di Stato, due fenomeni nei quali essa muore. Di eccesso in eccesso, di convulsione in convulsione, dovremo pure prima o dopo avvederci di avere nel nostro viaggio perduto la bussola, poichè, coll'intenzione di veleggiar sempre verso l'Inghilterra, ci troveremo approdati in Spagna.

A. GABELLi.

IL DISDEGNO DI GUIDO

I.

Quanto Dante debba a' suoi tempi; cioè, quanto l'uomo in sè ne ritragga, quanto ne rappresenti il poeta; si è venuto e si viene ricercando per studi pazienti e, sia lecito sperare, fruttuosi. I quali, tutt'altro che detrarre alla grandezza sua, si anzi l'accrescono perchè, se da un lato limitano la giurisdizione, a così esprimerci, del trovato da lui per potenza sua propria; limite che la critica tradizionale, e spesse volte retorica, aveva spinto di là dal giusto e dal ragionevole; ci dimostrano non meno evidentemente, come in poche altre umane nature la età vissuta si riflettè con tanta rispondenza delle qualità soggettive alla realtà storica esteriore; e che in nessun altro forse dei grandi poeti la rappresentazione di cotesta realtà toccò un grado di efficacia si alto. Di quelli uomini fra il Due e il Trecento le fisionomie che la psicologia storica ci è andata rivelando, tutte hanno, dal più al meno e dentro ai rispettivi contorni e proporzioni, di quello che si è corso troppe volte a chiamare dantesco. Con che era detto tutto. La nativa gagliardia di quel sentire, di quel pensare, di quel parlare, dantesca: tutto quello che di atteggiamenti, di colorito, di suoni, l'occhio e l'orecchio nostri, a distanza di secoli, non possono più riafferrare, ma debbono indagare e scoprire, dantesco; onde poi imitazioni di locuzione dantesca in certi fraseggiamenti e costrutti che di dantesco avevano soltanto lo appartenere ancor essi ad un trecentista: i personaggi più fedelmente ritratti dal vero, danteschi, pressappoco, come de' tiranni dell'Alfieri diciamo, e non in tutto con lode, alfieriani: dantesco, insomma, in un senso arbitrario e fatuo

tutto quello del quale si sarebbe invece dovuto rintracciare il tipo, dall'Alighieri con potenza meravigliosa, e dicasi pure unica, effigiato o riprodotto nel libro immortale. E come per l'artista, così quanto all'uomo, il confronto coi Fiorentini d'allora, agevolato dall'abbondanza e qualità dei documenti di questo nostro il più democratico Comune della penisola, non consente più lo atteggiarsi di un Dante scultorio, fra mezzo a una turba di piccoletti, a' quali non altra parte quasi tocchi che di essere stati i contemporanei di Dante Alighieri; ed egli camminare spacciatamente sulle loro teste, con quel ridicolo sproloquio in bocca: « Se vado, chi rimane? se rimango, chi va?» No: la forte, la eletta, la sdegnosa, natura di Dante, non teme il confronto di altrettali nature; fra le quali nato e fattosi, e combattuto con esse, e molto contro di esse, la vita, sopra quelle poi librò le ali poderose alle inaccesse regioni della grandezza intellettuale.

Imperocchè ciascuno bene intende, come ala a quelle regioni sufficiente non fossero la fierezza e la nobiltà del sentire, la gagliardia del concepire, il risoluto operare, e, fido istrumento di tali energie, la schietta, incisiva, parola del giovine idioma toscano. Se della vita affettiva le operazioni e le vicende sono, grandi e piccoli, comuni a tutti, il genio solo attinge le ardue cime, penetra e percorre le vie misteriose, della idealità. E Dante, il quale da quella vita reale vuol derivata la parola del cuore, il « dolce stil nuovo, » e che « Amore spiri e detti dentro » alle facoltà del poeta nelle manifestazioni del sentimento più gentili e soavi (1); alla meditazione, invece, e all'effigiamento delle idealità supreme ed eterne, si sente spinto e sollevato per ben altra e più possente virtù, « per altezza d'ingegno. » (2) E su queste vie dello spirito, in questo viaggio a sè predestinato, a questo « suo andare fatale, > (3) uno solo degli uomini co'quali visse riconosce degno di farglisi compagno ed << essere seco; » (4) uno solo, che come artefice di stile poetico giudica, forse, inferiore, (5) ma in « altezza d'ingegno » accetta suo eguale. Invidiabile testimonianza, la cui luce superba investe una

(1) Purg., XXIV, 49-60.

(2) Inf., x, 58-59.

(3) Inf., v, 22.

(4) Inf., x, 58-60.

(5) Purg., x1, 97–99:

Così ha tolto l'uno all'altro Guido
La gloria della lingua; e forse è nato
Chi l'uno e l'altro caccerà di nido.

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