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certa gentilezza e temperanza tutta toscana, anzi senese che ritrovi anche là in quel popolo, sveglio e vivacissimo ma buono e, direi, civile per indole propria sebbene nato in quei monti così fuori di mano. Era più che altro in un sentimento come di rispetto e di riguardo garbato che tutta quella gente provava, senza rendersene conto, a veder riaperte dopo molto tempo le finestre di quel palazzo, nel cui nome sta quasi tutta la storia del paese. Per la famiglia che lo possedeva è rimasto in Santafiora, dopo abolito sulla fine del secolo scorso il feudo, una specie di culto tradizionale e di sudditanza, che, come sa chi conosce bene le plebi toscane così istintivamente democratiche, non ha nulla del servile. È un attaccamento come poteva esser quello di molti fratelli cadetti a un fratello maggiore erede dei titoli e della dignità della casa. E alle memorie non ancora spente della sovranità degli Sforza si riconnette anche oggi in Santafiora, oltre più di un diritto di patronato e di nomine che essi vi serbano, per esempio nella elezione del parroco e su alcune istituzioni pie e collegiate, tutta quasi la forma esterna e quel che ha in sè di più caratteristico la fisonomia del paese.

Al primo entrarci per un ampio arco, aperto nel mezzo del severo palazzo, a cui fanno larga base a scarpa, verdeggianti d'ellera, minacciosi per feritoie, gli spalti di una vecchia fortezza degli Aldobrandeschi, senti subito venirti incontro come un'aura di feudalità. L'orlo del terrapieno per cui dalla strada innanzi al palazzo, fiancheggiata d'alberi giganteschi, si giunge fino all'arco, sovrasta di parecchie braccia al fondo di una rupe, tagliata qua e là a picco, su cui posa la fortezza, e se ne solleva ancora, mezzo rósa dal tempo e da erbe rampicanti, una larga torre quadrata. Quel terrapieno occupa il luogo dell'antico ponte levatoio. Il palazzo sta là minaccioso, cupo a guardia del paese, che gli si rannicchia dietro, fitto di povere case, di strade angustissime, e digrada, scendendo in più luoghi quasi a precipizio sino alle sorgenti della Fiora. Questa, prina di perdersi tra le foci della maremma, serpeggia in una valle arida, bruciata dal sole, stretta da colli macchiosi e un po' tristi, a cui sovrasta, dominando la campagna dall'alto di Monte Labbro, la torre di David Lazzaretti. Ma giù a' piedi del paese sotto il convento delle Cappuccine, dove la Fiora spiccia da vene profonde e perenni, Sofocle le chiamerebbe insonni, l'acqua si allarga limpida in peschiere piene di trote sotto l'ombra perpetua di grandi

castagni e con intorno una fresca distesa di musco e di erbe smaltate di fiori. Anche quelle peschiere sono da secoli proprietà degli Sforza. La casa sovrana del paese veniva così a tenerlo in mano sua, a cuoprirlo della sua tutela potente, dall'altipiano della rupe da cui lo dominava, contando, se avesse voluto, ogni passo dei sudditi, sin giù alle sorgenti del bel fiume, che nasceva vassallo di lei e correva, senza poterne mai varcare i dominii, là sino al mare, lungo un vasto tratto della desolata maremma toscana che i Conti signoreggiavano quasi tutta e contesero ai Senesi per secoli. A Siena v'era nel trecento un proverbio che diceva: «i Conti di Santafiora (allora erano gli Aldobrandeschi, a cui successero nel secolo dopo gli Sforza) hanno tante castella quanti l'anno ha dì. » Lo riporta nei suoi Assempri fra Filippo da Siena, una specie di Hoffmann o un Edgardo Poe del buon secolo della nostra lingua, scrittore rozzo, ma di fantasia potente, tutta penetrata da sacri terrori mistici in quelle sue vive pitture di tentazioni, di ossessi, di peccatori portati via a volo dai diavoli. Ai quali, se senti il buon frate, che scrive solo per assicurare la salute eterna dei suoi lettori, pare che i vassalli dei signori Conti di Santafiora fornissero allora, non si sa perchè, un contingente di dannati assai rispettabile.

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Anche quella mattina era, l'ho già detto, il giorno di San Rocco patrono del paese, la festa, cominciata allora, aveva già mostrato in mezzo al carattere sacro che domina sempre in coteste solennità di villaggio, qualcosa del vecchio cerimoniale dei tempi feudali, rimasto nella tradizione e in tutta la vita e, sto per dire, nel sangue dei Santafioresi. La banda prima di andare in chiesa a suonare per la messa cantata, aveva percorso due o tre volte la piazza davanti al palazzo in segno di saluto e come di omaggio, preceduta dai soliti monelli che saltano e si urtano e schiamazzano innanzi a tutte le bande di questo mondo, e seguita da un'onda di gente, ove vedevi centinaia di teste scoperte voltarsi in su verso le finestre del palazzo. Dietro la banda, al momento che era per uscir di piazza, aveva sfilato il clero in cotta bianchissima, con avanti un po' discosto dagli altri preti, fra due abatini, l'arciprete, un uomo di mezza età, dal volto terreo, olivastro, con due grossi cigli, che spiccavano nerissimi sotto il nero della berretta, abbassata su due piccoli occhi mobili, inquieti, sempre all'erta. E quando era passato sotto al balcone dove stavano le signore e i loro ospiti,

io avevo sorpreso in quei due piccoli occhi, che non volevan parere di guardare in su e intanto guardavano, un lampo che saliva verso di noi e andava dritto dritto all'onorevole Bonghi. Ma egli stava sul davanti del balcone in atto esemplare, a capo scoperto. S'era alzato allora da tavolino dopo aver finito di scrivere un capitolo sul vangelo di San Giovanni. E della sua Vita di Cristo l'arciprete mi aveva parlato poco prima, quella stessa mattina, ma premettendo di non averla letta. E sapeva che l'autore aveva avuto il proposito di scriverla in senso rigorosamente ortodosso; aveva però soggiunto, chiudendo un po' gli occhi e con una pausa che interrogava e ammoniva - «è molto probabile che sia libro erroneo e damn indo. »

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Nel tempo della messa cantata s'era fatto sulla piazza un poco di vuoto; poi da capo un riflusso, una folla sempre crescente, che a poco a poco aveva cominciato ad animarsi e a dividersi in crocchi, in circoli, in mezzo ai quali gesticolavano venditori ambulanti, ciarlatani, e suonavano il violino e l'organetto poveri ciechi e storpi, portati per mano dalla moglie e dai figli elemosinanti. Sul brusio confuso della folla quelle voci alte e fioche, quelle esclamazioni enfatiche mettevano, accompagnate dall' infernale segare di quei violini e dal miagolar di quelli organetti, una nota, a momenti, straziante. Ma, a guardarla in vece, l'aspetto della piazza dava piacere all'occhio; non aveva nulla della monotona e funebre uniformità dei colori delle nostre folle cittadine. Era un immenso caleidoscopio vivente, dove tutte le tinte, dalle più accese alle più sbiadite, si rimescolavano a ogni poco in una ricchezza di accozzi e di contrasti inesauribile.

Accanto alle piume color pisello verdissimo o rosso fiammeggiante del cappello di una Santafiorese spiccava il fazzoletto giallo di qualche bionda contadina dalle gote accese sull'incarnato abbronzito dal sole. Il largo grembiule di rigatino nuovo che un'altra portava sul vestito di bordato turchino cupo, faceva risaltare il bianco della gonnella di una bambina che le stava stretta ai fianchi e si apriva a mala pena con le piccole mani una strada nella calca, dove la vedevi apparire e sparire, come uno che nuoti col capo a pena a fior d'acqua in un mare agitato. Tra il vivo e il chiassoso dei colori delle donne si mescolavano e prevalevano, facendo all'occhio l'effetto di larghe macchie d'ombra, mobili sullo sfondo di quel gran quadro vivente, le giacchette e i cappelli color mar

rone scuro che la maggioranza de'contadini porta anche là nel Montamiata. Qua e là vedevi a qualcuno di quei cappelli, specie ai più nuovi e comprati d'allora, una penna di cappone, un fiore, una frasca. Erano gli sgargianti, gl'innamorati, i promessi sposi, i venuti là in cerca di una moglie, capaci anche di fissarla, magari, lì per lì in piazza a proposta dello stesso sensale che pochi minuti prima li aveva, con grandi strappate di mano, messi d'accordo con qualche cliente sul contratto di una vacca o di un paio di bovi.

Ma quelle che aggiungevano i tratti più caratteristici a cotesta scena degna del pennello di Salvator Rosa, erano le coppie in amore. Ne vedevi più d'una entrare e uscir di piazza e gironzar qua e là a passo lento, cadenzato, un po' dondolante, sole, senza alcuna sorveglianza di vecchi, in quella grande libertà di atti che il codice degli usi contadineschi lascia anche là agli innamorati, e che, appunto perchè permessa in pubblico, ha per correttivo certe forme quasi di rito o di consuetudine. E naturalmente le più in pratica sono quelle che si potrebbero dire il simbolo esterno della massima effusione di due cuori e del loro proposito di unirsi per sempre. La contadina passa un braccio dietro al collo e sulle spalle all'innamorato, che fa lo stesso a lei, e tutt'e due camminano stretti, appiccicati fianco a fianco, con l'altro braccio teso in avanti e tenendosi per la mano, senza mai lasciarsi per ore e ore, per mezze giornate, spesso quant'è lunga la strada. Ne incontri di più al ritorno dalla fiera. E ce n'è di quelli e sono per solito promessi sposi, che non si dicono che poche e rare parole; si guardano ogni tanto negli occhi, canticchiando a mezza voce ciascuno per conto suo, e passano come se si sentissero soli fuori d'ogni occhio umano, tutti perduti nel loro sogno, traverso alla folla che si apre e li guarda. E c'è anche delle coppie rumorose, irruenti, che passan cantando, tempestando, correndo all' impazzata, e si aprono una via a furia di spinte, accompagnando la cadenza del canto con un continuo alzare e abbassare delle due braccia che urtano e fanno come da rostro per fender l'onda della gente. E la gente li lascia passare, talvolta senza nè anche guardarli, o al più sorridendo di quella furia di spinte, come della cosa più naturale al mondo.

Verso le cinque scesi a girare un po' in piazza. A quell'ora il grosso della folla contadina, attratta fuori dalla fiera che è al colmo, si dirada in paese. Dopo il pranzo cominciano già a uscire

e a mostrarsi le autorità, gli uomini di conto, e la loro presenza dà un colore di solennità alla parte laica della festa. Qua e là, tra i cappelli a cencio dei contadini e dei popolani, luccica il nero di qualche cilindro nuovo, cavato fuori per quel giorno. È il sindaco, è questo o quel consigliere comunale dei più influenti che gira a braccetto con qualche amico venuto dai paesi vicini, o sta fermo a parlare e a gesticolare, rosso in viso, in mezzo a un crocchio di contadini o di fattori tutti intenti a sentirlo. E non parla di politica o delle cose d'Africa, com'è solito gli altri giorni nella farmacia lì vicina. Tutte le spese dei discorsi di piazza in giorno di fiera le fanno anche là i contratti delle bestie, le cose di campagna, le raccolte recenti, le previsioni di quelle vicine, le lagnanze infinite sulla stagione, contraria quasi sempre ai lavori. Poichè il contadino si lamenta sempre del cielo, e Domineddio non ha in terra suddito che più di lui sia scontento del suo governo dell'universo.

Spesso in cotesti crocchi, accanto al padre o allo zio c'è qualche contadinotto, che sparisce mezzo nella rozza giacca di fustagno fatta per altre spalle e nei larghi calzoni tagliati a crescenza e rimboccati sopra le scarpe enormi. È il maggiore dei figli di casa, il futuro capoccia della famiglia. Fino a pochi mesi prima ha, in campagna, guardato le pecore o i maiali; ora è stato messo a guardare i bovi e se ne tiene molto. Comincia a volere anche lui imparar qualche cosa e impratichirsi di quello che fanno i più grandi, e per ciò li accompagna in paese, mentre i fratelli minori son rimasti con la madre e con le sorelline a dare un occhio alle bestie là nel campo della fiera. E il ragazzo se ne sta immobile, un po' a gambe larghe, guardando estatico, a bocca aperta, ora questo ora quello degli interlocutori senza perderne sillaba.

Nei paesi del Montamiata non trovi in piazza sui banchi posticci dei venditori ambulanti e nelle botteghe messe a festa quei soliti resti di magazzino che i fondachi delle città mandano a smerciare alle fiere dei paesi piccoli se non son troppo lontani, e che stuzzicano con le attrattive di mode, passate da un pezzo, l'ambizione delle belle terrazzane. A Santafiora, in piazza o sotto l'entrone del palazzo, dov'è la great attraction di tutta la fiera, non si vendeva quasi altro che roba da portare e da servire in campagna: pezze di panno a colori vivissimi, seggiole di legno bianco impagliate che si fabbricano all'Abbadia San Salvatore,

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