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Venne Cephas, e venne il gran vasello
Dello Spirito Santo, magri e scalzi,
Prendendo 'l cibo di qualunque ostello:
Or voglion quinci, e quindi chi rincalzi
Gli moderni pastori, e chi gli meni,
Tanto son gravi, e chi dirietro gli alzi.
Cuopron de' manti lor gli palafreni,

Sì che duo bestie van sott' una pelle:
O pazienzia, che tanto sostieni !

Non altrimente nel canto appresso, attaccando il Poeta la depravazion dei Monaci Benedettini, mette in bocca al solitario lor fondatore le seguenti parole: La regola mia

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Rimasa è giù per danno delle carte:

Le mura, che soleano esser badia,
Fatte sono spelonche, e le cocolle
Sacca son piene di farina rìa

Ma tra tutti questi satirici pezzi della Divina Comme dia, che gli abusi attaccano delle sagre cose, altamente grandeggia nel canto XXVII. del Paradiso l'energico e fortissimo slancio contro Bonifazio VIII., e quelli altri successori di Pietro, che da esso, e dalla Religione tanto degenerarono; quando finge Dante che il Principe degli Apostoli, dopo averlo esaminato sulla sua credenza, seco lui prorompa nell' appresso invettiva:

Quegli, ch' usurpa in terra il luogo mio,
Il luogo mio, il luogo mio, che vasa
Nella presenza del Figliuol di Dio,
Fatto ha del cimiterio mio cloaca

Del sangue, e della puzza, onde 'I perverso,
Che cadde di quassù, laggiù si placa:

e poco dopo S. Pietro stesso soggiunge:
Non fu la sposa di Cristo allevata

Del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,

Rer

Per essere ad acquisto d'oro usata;
Ma per acquisto d'esto viver lieto
E Sisto, e Pio, e Calisto, ed Urbano
Sparser lo sangue dopo molto fleto.
Non fu nostra intenzion ch'a destra mano
De' nostri suocessor parte sedesse
Parte dall'altra del popol Cristiano, neque
Nè che le chiavi, che mi fur concessede fa
Divenisser segnacolo in vessillo,

Che contra i battezzati combattesse;

Nè ch'io fossi figura di sigillo
A' privilegj venduti e mendaci,
Ond' io sovente arrosso, e disfavillo.
In vesta di pastor lupi rapaci

Si veggion di quassù per tutti i paschi
O difesa di Dio perchè pur giacidoze

E finalmente, nel canto XXIX. dell' ultima cantica, pungendo acremente il Poeta i cattivi predicatori, che al suo tempo in Firenze abbondavano, come pur troppo in Firenze (13) ed in altri luoghi del Cristianesimo anche oggigiorno abbondano tanto che più istrioni che espositori di una morale pura e santa posson essi chiamarsi, immagina egli che dalla sua Beatrice detto gli sia:

,

Voi non andate giù per un sentiero ogobellosenqua
Filosofando; tanto vi trasporta: Hono
L'amor dell'apparenza, e'l suo pensiero.
Ed ancor questo quassù si comporta

Con men disdegno, che quando è posposta

colo on nimatinio len of of La

(13) Nella Quaresima del 1806. un ignorante Francescano, per nome il Padre Latini, non arrossì di apostrofare colle più alte ingiurie Galileo, Macchiavelli, ed altri uomini insigni dell' Italia, che per mu nificenza del Gran Leopoldo hanno onorevol tomba nella Chiesa di S. Croce di Firenze, ove quel frate predicava nel detto anno.

La Divina Scrittura, e quando è torta
Non vi si pensa quanto sangue costa
Seminarla nel Mondo, e quanto piace
Chi umilmente con essa s' accosta.
Per apparer ciascun s'ingegna, e face
Sue invenzioni, e quelle son trascorse
Da' predicanti, e'l Vangelio si tace.
Quindi Beatrice stessa poco dopo soggiunge:
Non ha Firenze tanti Lapi, e Bindi, (14)
Quante sì fatte favole per anno
In pergamo si gridan quinci, e quindi,
Sicchè le pecorelle, che non sanno,
Tornan dal pasco pasciute di vento,
E non le scusa non veder lor danno
Non disse Cristo al suo primo convento:
Andate, e predicate al Mondo ciance;
Ma diede lor verace fondamento:
E quel tanto sond nelle sue guance,
Si ch'a pugnar per accender la fede,
Dell' Evangelio fero scudi e lance.
Ora si va con motti, e con iscede
A predicare, e pur che ben si rida,

Gonfia 'l cappuccio, e più non si richiede.

Non incredulità, dunque, non dispregio del Cristiano Culto animarono il Poeta nostro; ma vero zelo, purita di fede, e indegnazione profonda contro quei malvagi, che dal manto di una Religione santa ricuoprono l'ambizione, l' avarizia, e gli altri vizj loro, e che tacciano di empietà quei coraggiosi Filosofi, amici dell' Uman Genere,

e

(14) Lapo, e Bindo erano nomi comuni in Firenze al tempo di Dante, e neppur oggi giorno vi son rari. Il primo è corrotto, vezzeggiativo di Jacopo il secondo ignorasi di qual nome lo sia; ma non lo credo originale, come alcuni pretendono.

1

che di smascherar tentano agli occhi del traviato volgo la nefanda loro impostura: Gerioni novelli, di ciascun dei quali dir si potrebbe collo stesso Alighieri:

N

La fac cia sua era faccia d' nom giusto,
Tanto benigna avea di fuor la pelle,
E d'un serpente tutto l'altro fusto.

CAPITOLO II.

Tratti filosofici relativi alla Politica.

Ato Dante in una Repubblica famosa per la sua potenza, per le magnanime gesta dei suoi cittadini, e per le sanguinose sue dissenzioni, amò la popolar costituzione della sua Patria, e valorosamente colle armi alla mano la difese nella battaglia di Campaldino. Testimone quindi, e vittima egli stesso dei mali dell'anarchia, che, a motivo dei corrotti costumi degli uomini, pur troppo fatalmente deselano tutti i democratici Stati, egli invocò la monarchia, come un sollievo ai mali della sua Patria ed a quei dell'Italia, ch'egli desiderò tutta intiera sotto il dominio degli Alemanni Imperadori. Ma filantropo qual egli era, e fautor delle idee liberali, se monarchista divenne, per ragione, e per amor di pace il divenne; e quindi sempre avverse mostrossi alle oppressioni, e alla tirannide; che tanto dalla vera monarchia differisce, quanto dalla libertà la licenza. Spiegato in tal modo il politico sistema dell' Alighieri, restan anche spiegate certe contradizioni apparenti, che nei varj tratti politici del suo Poema s'incontrano; i quali per conseguenza sempre dalla filosofia, e dalla ragione dettati si troveranno

Quanto il nostro gran Poeta amante fosse di libertà, veder si può da principio in quella sublime apostrofe, del canto I. del Purgatorio, allorchè Virgilio,

1

pre

pregando Catone Uticense di favorir l'ingresso di Dante in quell' espiatorio luogo, dice all' egregio Romano:

Or ti piaccia gradir la sua venuta;

Libertà va cercando, ch'è sì cara;
Come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu'l sai, chè non ti fu per lei amara
In Utica la morte, ove lasciasti

La

a

veste, ch'al gran dì sarà sì chiara. In egual modo quest' attaccamento dell' Alighieri alle libere forme di governo attestato ci viene da quell' altro bel pezzo del canto XV. del Paradiso, ove descrivendo egli il viver sobrio e felice della Fiorentina Repubblica, nei tempi in cui vivea il suo Antenato Cacciaguida, e ragonandolo alla corruzione in cui questa caduta era a' tempi suoi, mette in bocca al medesimo le seguenti pas

role:

Fiorenza dentro dalla cerchia antica,

Ond' ella toglie ancora e terza, e nona;
Si stava in pace sobria e pudica.

Non avea catenella, non corona,

Non donne contigiate, non cintura,
Che fosse a veder più che la persona. (15)

Non faceva, nascendo, ancor paura

La figlia al padre, chè'l tempo, e la dote
Non fuggian quinci, e quindi la misura. (16)

N

pa

Non

(15) Catenelle, e Corone son donneschi ornamenti, sul senso dei quali non cade verun dubbio. Contigie, secondo il Buti, si chiamavano alcune calze solate col cuojo, e stampate intorno al piede. Per quella cintura che fossa a veder più che la persona, vuol significare il Poeta, che i cinti usati dalle donne Fiorentine de' tempi suoi erano tanto belli, da dar più diletto alla vista della persona stessa che li portava.

(16) Allude l' Alighieri in questo luogo alle troppo ricche doti, che davansi alle ragazze Fiorentine, e alla troppo verde etade, in cui esse si maritavano.

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