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tele (De fin., V, 7 e s. 14, 21, 23). Nel De natura deorum parla di hesterno die (II, 73) e nudius tertius (III, 18), quasi che il dialogo fosse diviso in tre giorni, mentre al principio e del secondo libro e del terzo rannoda la conversazione, come se questa si fingesse avvenire nel termine di uno solo.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare, se la mancanza di spazio nol vietasse. Questi, che ho addotti, sono fatti che debbono essere presi in giusta considerazione, per formarci un'idea adeguata del valore di Cicerone come storico della filosofia; ma da essi appunto, perchè fatti, dobbiamo trarre quelle conclusioni che la logica ci autorizza, senza esagerarne, nè diminuirne l'importanza; oltre Alpi invece molti critici, non tenendosi nei giusti limiti, dalla scoperta concordanza di alcuni passi coi testi greci inferirono che Cicerone non fu un filosofo, ma uno scrivano di filosofia e che dello scrivano ebbe tutti i difetti e

commise tutti gli errori. È un esagerare il valore della trovata e giudicare un uomo non in relazione al tempo in cui visse, ma al nostro.

Con una proposizione generale non si può determinare il rapporto di Cicerone alle sue fonti, essendo questo diverso nelle diverse discipline filosofiche.

Dal fatto che il Timeo non era una traduzione, ma la parte d'un lavoro più esteso di filosofia naturale, noi possiamo legittimamente inferire che Cicerone, nelle questioni metafisiche e dialettiche, si manteneva assai fedele alle fonti greche, possedendo poca potenza inventiva d'ingegno speculativo: per ciò ammettiamo che nell'esporre la filosofia teoretica della Nuova Accademia abbia conservato la sua dipendenza da Clitomaco, Filone e Antioco, e la sua testimonianza meriti in quella una fede maggiore che nei problemi risguardanti la filosofia pratica e la morale. La parzialità con cui espone e giudica l'Epicureismo, rifacendo in modo arbitrario la fonte, ci attesta ch'egli non pro

cedeva, neppure là dove dichiara di volere semplicemente delineare la dottrina di una data scuola, con intendimento sto. rico, bensì oratorio, cioè era interamente occupato dal fine propostosi di combattere le idee contrarie alle sue. Nell'esporre le dottrine accademiche, che avevano guadagnata l'approvazione sua assai più delle altre, avrà cercato di nasconderne le lacune, i mancamenti, i difetti, di toglierne le difficoltà e moderarne le esagerazioni, affine d'acquistare tra i Romani un buon numero di seguaci, non scrivendo egli per pura ostentazione, ma collo scopo di far sorgere nei suoi concittadini un interesse per la filosofia; non però per la filosofia in genere, sibbene per la forma ch'era a lui prediletta; il che è proprio di tutti i filosofi di quel tempo. E l'infedeltà sarà stata maggiore nell'etica, nella quale egli si allontanava dall'Accademia per inclinare ad uno Stoicismo moderato.

Per la storia dell'Accademia al tempo di Arcesilao e dei suoi discepoli immediati è d'uopo concedere a Cicerone minore fiducia che per quella di Carneade e de' suoi successori, perchè egli conosce Arcesilao unicamente per mezzo degli scolari di Carneade, i quali, avendo il loro maestro, ed essi stessi, assunta una posizione in parte nuova, erano interessati a presentare Arcesilao da un punto di vista diverso dal vero. In generale si deve fare assegnamento assai più sull'estensione e il numero delle informazioni ch'egli può fornire per la fi losofia greca, che non sulla loro esattezza storica. Non si possono quindi accettare tutte senza beneficio d'inventario (1).

Roma, 1° aprile 1889.

Prof. LUIGI CREDARO
del R. Liceo Umberto I.

(1) Da un libro d'imminente pubblicazione intitolato: Lo Scetticismo degli Accademici, Roma, Tipografia alle Terme Diocleziane di Balbi Giovanni,

Le nozioni del Diritto e dello Stato

nella civiltà e nella filosofia dei Greci prima di Socrate

II.

Le prime riflessioni sopra i grandi problemi della vita morale e politica non cominciarono in Grecia che al VI° secolo. av. Cr. coi così detti sette sapienti. Il VI secolo av. Cr. fu, senza dubbio, un'epoca della più alta importanza per lo svolgimento della umanità. In questo secolo infatti Budda aveva riformato la religione indiana; Confucio la chinese; presso gli ebrei si manifestava la tendenza verso il più puro monotei smo; ed anche in Grecia si fece sentire lo stimolo verso una particolare considerazione della vita della quale furono preparatori i sette sapienti. Questi uomini comparvero nel momento più grande del fermento della vita politica dei greci che aveva avuto principio coll'ingrandirsi della classe del popolo (us) che fino allora era stata dominata dalla classe aristocratica. In questo fermento il popolo lottava per il suo riscatto; per una maggiore protezione da parte del diritto in vantaggio della classe inferiore; per la rimozione della troppo grande sproporzione nella ripartizione della proprietà fondiaria tra la classe del popolo e quella dei signori; per la sicurezza della indipendenza personale. In questo tempo in cui per

tante cagioni si faceva sentire in modo certo e positivo il bisogno di una bene ordinata associazione ed amministrazione civile comparvero questi uomini, che, istruiti per esperienza e per riflessione, dettero alle città della Grecia nuovi indirizzi e leggi.

In questi primi sapienti della Grecia, noi non troviamo certamente dei moralisti alla maniera di Socrate, ma uomini che si occuparono dei lavori della vita pratica, furono essi, in una parola, veri uomini di Stato con seguaci politici. Solone, Pittaco, Cleobulo, Periandro furono o legislatori o guerrieri o capi di governo della loro patria (1). Essi infatti non si occuparono nè poco nè tanto di scrutare il fondamento della morale, nè di dividerla in parti distinte. La loro sapienza consiste in un complesso di sentenze (yvuz) che sono per lo più senza legame e senza ordine, e che raramente si elevano al disopra del livello di regole di prudenza. Sebbene da questi sapienti non si abbia un sistema d'idee astratte, legate e concatenate per rapporti logici; nulla in una parola che si rassomigli ad un sistema di filosofia, nelle loro sentenze noi troviamo però l'espressione elementare e primitiva di quelle scienze che più tardi si dissero la morale e la politica. Nelle loro sentenze infatti noi troviamo il riconoscimento di una legge che potrà e sarà poi meglio approfondita e meglio appli cata, ma mai sconfessata, una sicurezza di risultati, ed una affermazione incrollabile di obbligazioni morali, infine una prepotente idea del giusto, che onora l'infanzia della riflessione. Per rispetto alle vedute politiche di questi saggi, sebbene le sentenze che vengono loro attribuite non siano storicamente molto sicure; pure si può ritenere che essi mirarono alla con

(1) οὔτε σοφοὺς οὔτε φιλοσόφους συνετοὺς δὲ τινας καὶ νομοθετικούς Diog. Laer., I, 40.

ciliazione dei partiti, la cui lotta così profondamente agitava la vita greca in quel tempo. Essi combatterono l'indirizzo egoistico che cominciava a manifestarsi nella vita di Stato, come conseguenza legittima della nuova tendenza subbiettiva, e lodarono e magnificarono lo spontaneo sacrifizio dell'individuo verso lo Stato.

La prima vera speculazione filosofica dei greci si manifestò appunto in quest'epoca quando per l'alto grado di sviluppo intellettuale e politico che aveva raggiunto la vita greca, fu sentito il bisogno di un sapere più profondo, e di vedute più larghe sulla natura delle cose. Il punto di partenza pertanto di questa filosofia non fu il mondo interno o subbiettivo che in parte si manifesta nella coscienza ed in parte si estrinseca nelle istituzioni sociali e nella storia; ma la considerazione e lo studio del mondo esterno o sensibile. E il problema fondamentale di questa prima speculazione fu quello della ricerca di un principio che in mezzo alla vicenda continua delle cose spiegasse il sorgere del mondo e l'insieme delle sue manifestazioni.

Lo spirito greco fu per altro troppo occupato negli stati della vita morale e politica del presente, perchè per esso potesse la filosofia rimanere semplice teoria, semplice contemplazione o semplice dottrina. Il filosofare fu sempre per i greci qualche cosa di pratico, cioè discussione della verità e della sapienza per la vita, e la maggior parte dei più celebri filosofi naturalisti furono ancora etici pensatori, che si compiacquero cioè di indagare le cose sociali ed umane (1).

(1) Carle G. La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Cap. II. Torino 1880.

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