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L'Energia morale nella storia. Discorso del Prof. Iginio Gentile, letto nell'inaugurazione dell'anno Accademico della R. Università di Pavia addi 3 Novembre 1888. — Milano, Ulrico Hoepli, 1889 (Pag. 48).

In questo notevolissimo discorso di Iginio Gentile di Pavia si discorre di un tema, la cui importanza e opportunità non può sfuggire a chi mediti sulle condizioni morali del nostro tempo; nel quale i costumi, le massime di condotta e la scienza stessa sembrano cospirare coll'andamento generale delle cose umane, per deprimere la forza del carattere e diminuire il sentimento della energia individuale, della responsabilità morale e di tutto ciò che innalza la personalità. Giovandosi, nel trattare il suo argomento sotto molteplici aspetti, ora della psicologia, ora della storia propriamente detta, ora delle teorie filosofiche relative alla storia, l'autore dimostra con osservazioni fondate nei fatti sociali e nella biografia, l'ufficio proprio e la natura speciale del libero volere, ne verifica e pone in luce le differenze e connessioni coll'intelligenza e col sentimento. Le tesi parziali del Bukle e dello Spencer sono da lui discusse con imparzialità. Egli toglie all'intelligenza e alla scienza il vanto esclusivo di esser causa del progresso generale dell'umanità, e insiste sulla parte che è dovuta al sentimento, e in ispecie al sentimento come morale promotore della volontà. Nè l'ambiente fisico nè l'ambiente sociale gli sembrano sufficienti a render conto dello sviluppo morale e civile dei popoli, e con felici osservazioni tratte dalla storia chiarisce che non si può render conto della loro missione dell'andamento e degli effetti delle forme di civiltà e di coltura di cui furono autori, senza un'energia propria di ciascuno, senza il sentimento di essa. Anche nella trasmissione dei frutti che ne derivarono all'umanità, si trova l'impronta di questa speciale energia, la quale si spiega tanto per fecondare e svolgere i semi che racchiude, quanto per resistere agl'impedimenti che le contrastano, cosicchè lungi dal vedere nelle forze psicologiche dell'uomo un semplice prodotto della esterna natura e nell'individuo umano un impasto passivo della forza collettiva della società, l'autore vi ritrova una potenza personale, un fattore di individualismo, che sempre unito di fatto al fattore collettivo, ora è dominato da questo, ora lo domina, ora coopera con esso, ora gli contrasta causa di dissoluzione o di progresso, secondo le condizioni armoniche dei tempi, le crisi e i rivolgimenti.

Molto bene l'A. fa notare il contrasto fra la coscienza della personalità dell'uomo antico e quella del moderno perduto nella vastità e uniformità dell'ambiente sociale, come anche quello della scienza e della coscienza in conflitto tra loro nel tempo nostro, diviso fra il determinismo

scientifico generalmente dominante e il bisogno della libertà sentito dagli individui. Lo spazio ci manca per seguire l'A. in tutte le parti di questo discorso, nel quale sono notevoli la forza del pensiero non meno che l'efficacia della forma.

L. F.

Le facoltà dell'anima in sè stesse considerate secondo i principii posti da Platone nella Repubblica. Nota del professore Luigi Rossi da Lucca. (Estr. dai Rendiconti della Settembre 1888.)

R. Accademia dei Lincei.

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Per quanto sia stato scritto intorno alla vita, alle opere, alla dottrina di Platone questo filosofo appellato per antonomasia il divino egli presenta ancora oggi nuovi lati da studiare, nuovi punti da chiarire, nuovi principî da applicare si direbbe una miniera inesauribile, che offre sempre nuovi tesori a chiunque voglia approfittarne.

Il prof. Rossi in una interessantissima Nota fa oggetto di studio accurato e diligente la dottrina platonica circa le potenze dell'anima, presentando un'esposizione ragionata di tutti quei luoghi della Repubblica, nei quali Platone ha trattato scientificamente di questo soggetto. Come apparisce poi dal titolo stesso della Nota, il Rossi non si occupa delle potenze dell'anima, in quanto sono mezzi, co' quali possiamo procurarci varie maniere di coscienza; ma le studia esclusivamente in sè stesse, in quanto al numero, alla distinzione, all'essenza, ai caratteri loro.

Due criteri, secondo Platone, si debbono seguire nel portar giudizio degli abiti e delle potenze dell'anima, e cioè la diversità dell'oggetto e la diversità intrinseca degli atti comparati gli uni con gli altri: criterf che, del resto, Platone non applica esplicitamente nel distinguere le varie potenze che ammette nell'anima; come non segue alcun ordine metodico nella trattazione di esse. Cominciando dai cinque sensi esterni, questi, per Platone, sono virtù (apetai), forme sopraggiunte ai cinque sensorf viventi, mezzi co' quali si percepiscono i sensibili esterni, potenze. Ora in virtù del principio di contraddizione, non potendo una medesima cosa operare e non operare nel medesimo tempo e considerata sotto lo stesso rispetto se in un ente si trovano due operazioni contrarie o due stati contrarf nello stesso tempo, è necessario ammettere due parti o principf, pe' quali quell'unico ente può, nel medesimo tempo; compire quelle due contrarie operazioni, o pe' quali in quell'unico ente possono, ad un tempo, trovarsi que' due differenti stati. Dunque poichè nell'anima, oltre gli atti de' cinque sensi," vi sono tre altre specie di passioni fra di loro diverse ed opposte, cioè una

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che comprende l'amor dell'apprendere e in generale le operazioni razionali (Móyoc); l'altra l'ardimento dell'anima, ossia il montare in isdegno, l'adirarsi (óprý, Juμóc); e la terza l'appetire cose basse, cioè l'avidità del guadagno, i piaceri veneri, ecc. (ἐπιθυμία, φιλοχρήματον) — segue che, secondo Platone, nell'anima, oltre i sensi esterni, vi sono pure altre facoltà o parti fra loro distinte e diverse. Quella con cui si compiono le operazioni razionali, è la forma o parte razionale dell'anima (τὸ λογιστικὸν εἶδος, τὸ φιλοσοφικὸν, τὸ φιλομαθές, ᾧ μανθάνει άvýρwños); quella, di cui sono atti lo sdegno e l'ira, cioè le passioni non sensuali, si dice la forma o la parte irascibile (tò Juμoɛidèc eidos); la terza, che è la sede delle passioni sensuali, è la forma o parte concupiscibile (τὸ ἐπιθυμητικόν εἶδος)

Quando la parte razionale è nello stato di conoscenza, cioè conosce attualmente, questo stato, secondo Platone, ha diversi gradi. Se la parte razionale conosce le cose direttamente usando dei sensi esterni, si ha lo stato di fede o di credenza, la niotis; se invece apprende le cose per mezzo delle loro immagini, si ha lo stato di congettura, la eixasia; se percepisce oggetti astratti dalle cose materiali, nasce lo stato di conoscenza avuta per via di ragionamento o discorso, la Stávota; se per contrario, nelle cose presenti all'animo, non vi ha nulla di ciò che viene dall'esperienza esterna, allora sorge lo stato d'intellezione, o intelligenza o conoscenza pura, la vóŋos. La congettura e la evidenza formano l'opinione (dóa); il discorso e la conoscenza pura costituiscono la scienza (inioτnun).

Con minuta analisi di parecchi passi delle opere di Platone, il professor Rossi dimostra assai chiaramente, a quanto sembraci, che i suindicati gradi di conoscenza sono, per Platone, non potenze o parti dell'anima, ma solo stati della parte razionale. Segnaliamo in modo particolare questa parte della Nota, come quella che attesta nell'A., una non comune coltura filologica, insieme a giustezza di osservazioni critiche e vigore di raziocinio.

Ma che cosa sono poi, secondo il pensiero platonico, le potenze dell'anima? Esse sono mezzi, pe' quali l'anima opera in maniere diverse. Non sono, quindi, l'essenza dell'anima, ma parti distinte per distinzione reale dall'anima, e realmente distinte fra loro. Questa distinzione non è però separazione; poichè quegli che ragiona, che si adira, ecc., è sempre un unico individuo, ossia è sempre l'anima, per usare la parola di Platone. La questione, agitata dai âlosofi posteriori, se cioè le potenze sono nell'anima, oltre che come in principio, anche come in soggetto, corrisponde a quella in cui Platone si domanda quali sono le relazioni delle potenze coll'anima e col corpo. Ora, avendo egli detto che i cinque

sensi risultano dall'anima di un sensorio vivo e di una speciale virtù di questo sensorio, segue che queste potenze sensitive sono come in soggetto, non nella sola anima, ma nell'anima e nel corpo insieme. Lo stesso si dica della parte irascibile e della parte concupiscibile; le quali per conseguenza, nell'anima separata dal corpo non saranno più, almeno come sono allorchè questa a quello si trova congiunta. Quanto alla parte razionale, parrebbe da un passo del Timeo che anch'essa dovesse risiedere come in soggetto, nell'anima e nel corpo insieme; ma dal complesso di tutta la dottrina di Platone apparisce che questa parte non ha bisogno del corpo per sussistere, sia perchè si trovava nell'anima prima che questa si congiungesse al preseute corpo, sia perchè quando l'anima si sarà divisa dal corpo, la parte razionale rimarrà tuttavia nell'anima, sia da ultimo perchè la vita dell'anima, dopo la morte del corpo, sarà una vita puramente razionale, quindi la parola dimora (oixeĩ), che si trova nel Timeo, va intesa nel senso che la parte razionale si trova in cima del nostro corpo (Eπ'äxρYTÿ owμαti) virtualmente, per estensione ad essa della sua virtù, in quanto la muove.

La brevità dello spazio ci impedisce di dilungarci di più intorno a questo lavoro del Rossi; ciò che ne abbiamo accennato basterà, del resto, à farne comprendere i meriti e il valore.

A. MARTINI

Prof. di filosofia nel R. Liceo di Piacenza.

Alfredo Pioda F. T. S. - Baleni. - Firenze, Tipografia G. Barbéra, 1889.

In questo volume di versi intitolato Baleni, a cui è premessa una introduzione in prosa, il sig. Alfredo Pioda si ispira al concetto di un evoluzionismo spirituale che sposa bellamente la poesia alla filosofia. Informato della odierna teosofia orientale e delle credenze spiritiche diffuse in Europa, egli ha impresso ai suoi componimenti un carattere elevato e dato ad essi un indirizzo che li distingue tanto dallo spiri tualismo tradizionale quanto dal naturalismo materialistico. Ecco del resto le parole stesse dell'autore sulle fonti filosofiche del suo libro; << Ora le idee che l'Autore s'industria d'accennare nei Baleni sono benefiche, perchè rispondono ad un bisogno intimo della natura umana, alla sapienza larga e comprensiva, cui ci s'incammina uscendo dallo strettoio della teologia e del secolo XVIII, che per quanto si dica, impiglia ancora la nostra evoluzione, e prepariamo la fusione di due civiltà, l'orientale e d'occidentale Certo che tali parole suonano alte

e, se l'autore si reggesse ad una teoria propria, sarebbero ridicole. Ma quelle idee gli furono date dalla letteratura, già ricchissima, di sodalizi che dilatano improvvisamente il campo delle conoscenze officialmente riconosciute, che insorgono in oriente e in occidente contro pregiudizi d'ogni natura e che si chiamano le Società teosofiche. »>

Ernesto Passamonti. Porfirio

Isagoge o Introduzione

alle Categorie di Aristotele, tradotta per la prima volta in italiano e annotata. Pisa, Nistri 1889, p. XVI-90.

Della Isagoge che Porfirio scrisse alle Categorie d'Aristotele è ben nota quale fosse la reputazione nelle ultime scuole greche dei commentatori aristotelici e nell'antichità latina fino a Boezio, e come poi rimanesse come un manuale di dialettica per tutto il Medio Evo; e ognun sa come da un passo del commento di Boezio all'Isagoge porfiriana trasse origine la celebre questione degli Universali che divise le scuole dei Nominalisti e Realisti. La grande importanza storica di questo breve scritto ha suggerito al prof. Passamonti l'idea di renderlo più noto ai lettori italiani, offrendone ad essi una traduzione, e corredandola di note dichiarative. Per questo lavoro, oltre alle antiche edizioni e a quella accademica del Brandis, si è saputo giovare della recente del Busse (Commentaria in Arist. graeca, 1887), dalla cui prefazione alla Isagoge ha tratta la maggior parte di ciò che dice nella sua intorno alla storia dello scritto porfiriano, ai commentatori greci, latini, arabi, e ai codici più importanti che rimangono di esso. Alla Prefazione ha fatto seguire tradotta la vita di Porfirio scritta da Eunapio, con erudite note illustrative; poi la versione della Isagoge, alla quale tien dietro un esteso e diligente commentario.

Nel suo insieme il lavoro merita, senza dubbio, non poca lode, e fa fede della diligenza dell'A. e dell'amore che porta al suo soggetto. Al quale amore si deve attribuire la persuasione ch'egli mostra d'avere (Pref., p. VI) che lo scritto Porfiriano, oltre al suo grande valore storico, abbia anche un pregio grandissimo, mentre non è nel suo fondo che una assai ordinata compilazione della logica aristotelica, né mostra originalità di pensiero. Anche dove si discosta dalla tradizione di Aristotele, se non potremmo dirlo con mnemonica riproduzione di dottrine platoniche (nonostante p. 6, 15 ed Busse Phisleb. 16 C., rilevato anche dall'A. e qualche altro raffronto), mostra invece tracce non dubbie delle dottrine di Plotino (cf. Ennead. VI, 1-3), che l'A. ha tralasciato di notare.

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