Slike stranica
PDF
ePub

psichico-somatici che si designano coi medesimi nomi e del pari il riferimento delle nostre sensazioni alle varie località del nostro corpo fenomenico. Ma il godere e soffrire, per sè considerati, non sono nient'altro che godere e soffrire ed è uno svisarli il volerli trasformare in percezioni. L'errore è nato, crediamo, dall'uso delle voci fühlen, empfinden, sentire e simili, che per l'uso della lingua si adoperano transitivamente, quasi avessero un oggetto e significassero la coscienza o percezione di qualche cosa, mentre sono ciò che v'ha di più intransitivo; sono lo stato nostro e non già la coscienza di questo. L'espressione vera, per mio avviso, sarebbe stata questa, che ogni contenuto della coscienza, in quanto contenuto (e non solo in quanto è un contenerlo, in quanto atto percipiente) è necessariamente reale.

Un'altra cosa. Dopo essere venuto alla conclusione che l'essere consiste nell'aver coscienza di sè, l'A. ha dovuto attenuare quanto più poteva questo concetto per poterlo attribuire agli elementi del mondo corporeo. E in fatti lo ha ridotto, come s'è visto, ad un'autocoscienza oscura e povera di contenuto, tale da parago narsi a quella che abbiamo noi stessi nel sonno senza sogni e nel deliquio. Ora una luce così buia che non illumina più nulla, si può ella ancora chiamar luce? Certo non è possibile di segnare con esattezza matematica il limite ove finisce la coscienza e comincia l'assoluta incoscienza e ci possono essere delle buone ragioni per sostenere che in noi la coscienza non resta mai del tutto sospesa; ma gli è certo del pari che se noi abbiamo modo di formarci un concetto dell'incoscienza,

gli è per appunto riferendosi al nostro stato durante il sonno senza sogni e il deliquio.

Nella lezione XVII l'A. insegna che ogni ente deve per natura sua essere percepibile, non importando poi se sia effettivamente percepito o no. A noi pare che codesta dottrina non s'accordi troppo bene con quell'altra da lui sostenuta, che nessun ente possa essere percepito da altri che da se stesso; perocchè codesta percepibilità accenna ad una relazione verso un percipiente possibile qualsiasi, quindi esterno alla cosa stessa.

L'A. scrive ancora che nulla vieta che il numero degli enti ossia delle monadi sia infinito. Al che non possiamo del sicuro sottoscriverci, essendo numero e infinità due concetti che si escludono; anzi, come bene ha dimostrato il Galilei, il numero, quanto più cresce, tanto più si allontana dall'infinità.

Gravissimo poi è un asserto che si legge alla pag. 410, ove dopo aver dimostrato la necessità d'ammettere un ente, che, senza essere la somma o l'insieme dei singoli enti, li faccia esistere ed esistere insieme, aggiunge che a codesto ente può darsi anche il nome di mondo (Welt) od universo (Weltganzes) e che le cose in esso comprese possono chiamarsi parti di lui. Vero è che soggiunge: « Solo non si deve identificare il rapporto del tutto verso le parti con quello del composto verso gli elementi onde risulta e de' quali è la somma o l'aggregato. A me, lo confesso, fa qui l'effetto di togliere con una mano ciò che dà con l'altra. É verissimo che un tutto può essere più che il puro aggregato delle sue parti; ma questo di più non toglie che sia sempre anche un aggregato.

Tra le cose discusse nella lezione XVIII e che riguardano le determinazioni formali della sostanza, noto un'affermazione che credo inesatta. L'A. dice (pag. 421-2) che da un concetto, il quale abbia per oggetto un ente reale, non si può per via d'astrazione salire a un concetto più generale omettendo addirittura una sua determinazione, ma che bisogna sostituirvene una più generale essa medesima. Così dal concetto d'un cavallo bruno non si può levar via addirittura la nota bruno, ma bensi fa d'uopo sostituirvi la nota più generale colorato. Ciò è vero, ma solamente degli accidenti necessari, non degli accidenti in genere.

Varie osservazioni potrebbero farsi anche sopra alcune teorie logico-metafisiche, che risguardano la mutua incompatibilità di due note in uno stesso concetto. É una questione questa irta di difficoltà e sulla quale nessuno finora, per quanto mi consta, è riuscito a dare una soluzione per ogni rispetto soddisfacente. Il nostro A. ricorre per quest'uopo a de' criteri che ci paiono insufficienti. Dice per es. (pag. 428-30) che due determinazioni subordinate a una più generica si escludono reciprocamente, quando esse medesime sono compiutamente determinate. Ma egli stesso cita dei casi che contraddicono a questo principio: così un determinato udire e un determinato vedere non si escludono tra loro, quantunque vedere e udire siano subordinati al concetto più generale percepire. E come crede di salvare il principio? Dicendo: se non si escludono, segno è che non sono determinati sotto ogni rispetto. Con un'argomentazione siffatta si dimostra quello che si vuole.

E così alla pag. 430 stabilisce un principio, che per nostro avviso è del tutto erroneo. « Se una sostanza S non ha la nota P, essa avrà la nota Q, che sta con la prima nel rapporto di disgiunzione. » Ciò non è vero, se non colla clausola, che ad S competa necessariamente una nota generica M, della quale Pe Q siano due particolarità disgiunte ed esaurienti, prese insieme, l'estensione di M.

La dimostrazione che l'A. ha dato di questo prin. cipio si fondamenta sul fals) supposto che se S non è P, debba possedere un carattere che vieta di attribuirle il carattere P. Ora basta l'assenza di P da S a giustificare il giudizio: S non è P. Il quale del resto non equivale punto a quest'altro: S non può essere P, con cui l'A. sembra averlo confuso.

Finalmente osserveremo rispetto all'ultima lezione, che il modo con cui l'A. studiasi di conciliare la tesi, che nulla esiste fuori dell'assoluto, colla pluralità degli enti mondiali e la immutabilità di quello col cangiamento attestato dall'esperienza, sembra condurre difilato al panteismo. Ma come questo punto è appena tocco di volo, così un giudizio riciso sarebbe precipitato e però ce ne astenghiamo.

In quanto al nostro parere sull'opera guardata nel suo complesso ci riportiamo a quello che abbiamo scritto nell'introduzione di questo articolo. Lo studio diligente che vi abbiamo posto è la testimonianza più sincera della stima e della simpatia che ci ha inspirato. Padova, 29 aprile 1889.

F. BONATELLI.

Il parlare, il leggere e lo scrivere nei bambini.

(Saggio di psicologia pedagogica)

I.

Il parlare, il leggere e lo scrivere sono tre funzioni, di cui la seconda è più complessa della prima, e la terza è più complessa della seconda e della prima. Per imparare perciò a parlare si richiedono minori condizioni fisio-psicologiche che non per imparare a leggere; e per imparare a scrivere si richiedono più condizioni funzionali che non per imparare a parlare ed a leggere. È necessario perciò che il bambino impari a parlare prima d'imparare a leggere; ed a leggere prima d'imparare a scrivere.

Come è noto, queste tre funzioni appartengono a quell'ordine dei fenomeni psichici che son detti di estrinsecazione e che presuppongono una certa organizzazione interiore dei fatti psichici, senza la quale non potrebbero prodursi; perchè mancherebbero di un qualcosa d'interno di cui sono la manifestazione. È noto ancora che questa organizzazione interiore dei fatti psichici non può darsi senza un altro ordine di fenomeni psichici, che è suo presupposto, e che è detto di recezione (sensazioni e percezioni) (1); e che questi tre ordini di fatti psichici, di recezione, di organizzazione interna e di estrinsecazione, si svolgono insieme solidalmente; per cui ad un dato grado di sviluppo delle funzioni interiori va connesso un dato

(1) V. il mio opuscolo Pensiero e Linguaggio: Torino, G. B. Paravia C., 1887.

ANNO IV. VOL. II.

-

DISP. II.

3.

« PrethodnaNastavi »