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non è altro che trasformazione e trasposizione incessante della materia; con Virchow: non vi ha posto nè per Dio nel mondo nè nell'uomo per un'anima o per un principio immateriale della vita. Potremo facilmente moltiplicare le citazioni, ma le riferite ci paiono più che sufficienti che pel Cristianesimo è tutt'altro che indifferente la questione dell'origine del mondo e del modo di risolverla. Come poi non possa rimanere intatto il concetto religioso secondo il Cristianesimo a fronte della soluzione proposta dal Naturalismo così detto scientifico, anzi sia rilegato fra le chimere, non saremo noi che lo diciamo ma sarà Federico Strauss a cui niuno vorrà negare la competenza in tale materia.

È vero che nelle alte regioni, nelle quali ci portano i nostri poeti, e nell'oceano di armonie, che spargono i nostri compositori intorno a noi, sparisce e si dissolve ogni miseria terre stre, e come per incanto vediamo anche cancellate quelle macchie, che non ci riesce mai di levarci di dosso. Ma ciò dura pochi momenti, e non riesce che nel mondo della fantasia e subito ricadiamo nella rozza realtà, nell'angusta via e l'antico dolore ci riprende da ogni parte. Contro l'angoscia, che ci procurano il rimorso e la coscienza di quelle macchie, il cristianesimo ci offre la redenzione; contro il tormentoso sentimento di essere abbandonati nel mondo al brutale caso, esso ci apre le braccia soccorevoli della fede nella provvidenza, e illumina tutta la triste notte terrestre colla prospettiva della vita celeste. Che tutte queste consolazioni cadano irremissibilmente davanti al nostro punto di veduta (cioè davanti al naturalismo così detto scientifico), debbe essersene accorto e persuaso chiunque vi si sia messo fosse anche con un piede solo. Ma egli domanderà che cosa possiamo offrirgli in cambio. E risponde: come? dopo ciò che è stato detto non potrà egli stesso rispondere a questa domanda? E cosa sia

stato detto lo riassume egli stesso: la perdita della fede nella provvidenza appartiene davvero ad uno dei danni più sensibili che pervengono dall'abbandono del Cristianesimo. L'uomo si vede in mezzo all'immenso meccanismo dell'Universo colle sue ferree ruote dentate che girano rombando, co' suoi. pesanti martelli e magli che stordiscono cadendo; e in questo veramente formidabile meccanismo l'uomo si trova inerme e senza aiuto, mai nemmeno per un solo momento, sicuro di non essere pigliato e squarciato nell'inavvertito moto di una ruota, o schiacciato sotto un martello. Questo senso di assoluto abbandono è davvero terribile! Ma a che giova farsi illusione? Il nostro desiderio non può cambiare il mondo, e la nostra ragione ci fa conoscere che esso è davvero una macchina siffatta (l'antica e le nuova fede, conclusione). Questo per la vita presente, quanto allo avvenire il naturalismo, o monismo o uniteismo, ci consola colle parole di Fenerbach: non desidero in alcun modo di incontrarmi nelle sfere delle ombre con Socrate e S. Agostino! Il pensiero e la azione della vita hanno finito per affaticarmi. Lasciatemi dormire. Io scendo nel nulla, donde un altro uomo ascenderà alla vita. Che significa la parola, tu morrai! Significa tu perderai la tua Egoità. Egoisti andate a guarirvi della vostra malattia! Evviva la morte, adorate la morte (Inno alla morte). Dal che concludiamo che se l'elevata dottrina morale cristiana non sta da sè, ma è riverberazione dei dogmi delle verità divine teologiche, assolute che il Cristianesino proclama ed incarna; questo necessariamente non sorge nė sta da sè, ma deve trovare la sua solida base nella realtà Storica di Cristo e della sua divina missione.

R. BOBBA,

Il Nyaya e la logica aristotelica

Leggesi in un'opera d'un filosofo moderno (1) un passo, dove si cerca di connettere storicamente le dottrine esposte nell'Organo con le precedenti scuole greche.

Lo Stagirita non avrebbe fatto altro, che raccogliere ed ordinare il materiale apparecchiatogli da' suoi predecessori: e, quindi, sarebbe da prestarsi poca fede all'opinione, specialmente propugnata da Jones (2), che Callistene, trovata presso gl'Indiani una logica già compiuta, l'avesse comunicata a suo zio Aristotile.

Però se il grande filosofo debba risguardarsi nella logica come continuatore di dottrine di già germogliate nel suolo ellenico, o pure se le radici delle medesime si debbano rintracciare nella filosofia brâhmanica, resta ancora indeciso, e sarebbe buona cosa mettere in sodo. Perchè poco certamente si può concludere dalla breve disamina dello sviluppo della dialettica greca, che fa lo Schopenhauer (3); e, d'altra parte, anche le ipotesi proposte dai moderni indianisti non poggiano su basi troppo sicure, perchè, salve alcune somiglianze e la possibilità di uno scambio d'idee e di cognizioni fra il mondo greco e l'indiano

(1) SCHOPENHAUER. Die Welt als Wille und Vorstellung, ed. Frauenstädt. Lipsia Brockhaus 1882. Vol I. pag. 57.

(2) JONES. Asiatic researches: on the philosophy of the Asiatics. Vol. IV, pag. 163.

(3) D'opinione contraria allo Schopenhauer è lo Zeller, che dice Aristotele fondatore della logica e inventore del sillogismo. Così anche il Prantl nella sua Storia della logica. (Vol. I., pag. 264).

al tempo delle spedizioni di Alessandro Magno, non adducono altri argomenti a confortare il loro asserto.

Ora che la paziente critica dell'opere greche e gli studii degl'indianisti hanno fatto tanti progressi, sarebbe desiderabile che un poco almeno di luce venisse gittata su tale questione. Lo che certo io non pretendo fare: mi propongo solo d'esporre lo stato attuale delle cose, ed alcune notizie, che, col consiglio del mio venerato maestro, l'illustre prof. Zimmermann, ho potuto raccogliere.

Già prima di Aristotile si possono notare nella filosofia greca delle sorprendenti analogie colla filosofia indiana.

L'epov di Anassimandro è un'immagine di Brahma; da lui ogni cosa ha origine e tutto in lui ritorna. Empedocle e gli atomisti ricordano il Vaiçeshika di Kanada, Anassagora il Sânkhya; ma più ancora la metempsicosi di Pitagora e l'idealismo di Platone, le dottrine analoghe delle religioni brahmanica e buddhistica. Questo indurrebbe ad ammettere, che la filosofia sanscrita si sia estesa per tempo oltre i confini naturali, e, direttamente o indirettamente, abbia esercitata una influenza sulla Grecia. In ogni caso risulta una parità di condizioni ed un'affinità dell'ambiente intellettuale, che facilita e rende verosimile un trapianto di nozioni da un campo all'altro.

Ora, meravigliosa è l'analogia fra le dottrine logiche d'Aristotile e le indiane. Si presso i Greci che nell'India la logica, sôrta nelle disputazioni accademiche, nelle scuole, si venne mano a mano perfezionando collo stabilire alcuni principii generali, come fondamenti della discussione (sitri). Tanto i Veda che gli Scolastici comandano lo stesso procedimento dello studio: cioè pongono la questione, definiscono, dimostrano. Ma la somiglianza di questi sistemi si mostra ancor più grande, quando si rifletta che come le prime dottrine dialettiche indian si svilupparono nei commenti (upanishad) dei Vedi, così la logica

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scolastica si adattò poi allo studio della Bibbia: l'Organo di Aristotile per l'Aquinate come il sistema Nyâya per il Erahmino è un mezzo per esercitare la mente al pensare e all'interpretazione delle Sacre Carte.

La priorità del Nyaya parmi indiscutibile.

Sotto questo nome (che vuol dire raziocinio) si compren. dono i due ultimi dei sei sistemi filosofici indiani: cioè il Nyâya propriamente detto, che si attribuisce a Gotama, e il sistema di Kanada, Vaiçeshika.

Ambi furono resi noti agli Europei da Colebrooke, che li pubblicò assieme, nel 1842, negli atti della Società asiatica. Vi si legge questo sillogismo:

1° Questa collina arde;

2o perchè fuma.

3o Ciò che fuma arde;

4 ora la collina fuma;

5o dunque arde.

E qui si trova lo schema del raziocinio aristotelico prendendo gli ultimi tre membri; oppure i primi tre, ma in ordine inverso. Questo raddoppiamento dei termini, questa esuberanza orientale nella forma del discorso, Aristotile, posto che l'avesse conosciuta, l'avrebbe tolta, e col suo fine accorgimento, avrebbe serrato il ragionamento nel numero necessario e sufficiente delle proposizioni.

Ma resta a decidersi se l'abbia conosciuto.

Il suddetto Colebrooke, che aveva nella sua biblioteca ben cento opere di filosofia nyâya, da raffronti fatti, opina di si: asserisce il contrario Barthélemy Sainte Hilaire, in una memoria letta nel luglio del 1846 all'Accademia di Francia, pure giud cando da prove interne.

Si disse, come vedemmo prima, che Callistene, il quale accompagnava Alessandro, gli avesse mandato un sistema indiano

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