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È quindi necessario procedere con ordine.

VI.

C'è una prima categoria di coloro, i quali nelle Furie inclinano a riconoscere il simbolo allegorico di uno stato d' animo o peccaminoso esso medesimo o radice di peccato, anteriore a ogni modo alla colpa. Concordi tuttavia su questo punto, cotesti comentatori dissentono poi, allorché si tratta invece di precisare la qualità e natura di cosí fatto stato. È però evidente, chi dia uno sguardo anche superficiale alla ventina di interpretazioni o semplicemente offerte e proposte o anche sostenute e convalidate con argomenti, che, per una o per un' altra guisa, il punto di partenza di ognuno si fu il rilievo del luogo nell' Inferno, ove le Furie apparvero a Dante per suo spavento ed ostacolo. Ora tale luogo appunto è di per sé ambiguo: come quello che, essendo situato sulle mura della città di Dite, su l'alta torre alla cima rovente, è, a cosí dire, nel mezzo e nella linea di confine tra il cerchio V, pur ora attraversato dai Poeti, ed il VI, che stan per percorrere; onde è lecita la opinione essere quei mostri infernali simbolo sí da un lato dei peccati puniti nella belletta negra e si dall' altro delle colpe per cui s' arde con l'anima in affocati sepolcri; tanto più e meglio, in quanto per un verso, a sostegno e argomento della prima tèsi, si può addurre l'emistichio stesso dantesco « riguardando in giuso, con che si potrebbe rilevare esser il pensiero e l'intento delle Erinni rivolto là dove sono i poeti ed essere perciò quelle simbolo ed espressione delle colpe aggiudicate nel cerchio che rimirano, non di quelle tormentate nel cerchio in cui si trovano; come pure sarebbe lecito, a rafforzare la medesima tèsi, far la considerazione non disdicevole che il vero dramma e il centro vero dell'azione sono tra i poeti e nei loro atti e nei loro sentimenti, o sia propriamente nel cerchio V; mentre, per l'altro verso, a base e sostegno dell' opposta tèsi, potrebbe qualcuno, e lo fecero pel passato e lo si fa pel presente, argomentare che Flegias (non le Furie) è nume nel pantano fumoso; che per contro l'Erinni son a punto a difesa del cerchio degli eretici, a quella maniera che lo sono, sul principio del cerchio proprio, Cerbero o Caronte; che infine la resistenza maggiore da loro opposta trova giu

stificazione nel fatto che con esse, finita la serie de' men feroci numi presenzianti e presidenti ai peccati men gravi d'incontinenza, si comincia quella nuova de' piú cattivi e malvagi governanti i peccatori di eresia violenza e malizia. E avrebbero tutti una grande parvenza di fondatissima ragione.

Difatti gli vediamo dividersi appunto su cosí fatto campo.

Gli uni veggono adunque nelle mostruose Erinni la sintesi di quel cerchio che ha dato materia al Canto VIII. Non sono tuttavia né meno costoro (ah, intelletti sani!...) concordi : e si capisce. Quattro, che si canzona!, peccati accoglie con braccia generosissime il cerchio V gl' invidi come gli accidiosi, i superbi come i rabidi; onde la domanda < di qual colpa son simbolo le Furie? » Che se fossero quattro non sarebbe difficile adattare a ciascuna un peccato; ma son tre.... e allora ?

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ché per l'appunto figurerebbero elle quella colpa su cui come non insisté il Poeta cosí non si fermò il lettore, di cui come non precisò Vergilio alcuna particolar figura, cosí nulla di vivo e perenne fu impresso nell' animo nostro perché una triplice forma di un peccato che non fu né meno discusso, sol tanto accennato? perché una figurazione simbolica d' un' umana debolezza, dopo la quale già un' altra piú grave fu affigurata, con copia maggiore di particolari, con vivacità piú drammatica di svolgimenti, con concretezza piú plastica di persone? perché??? O non s'adira più tosto Vergilio dinanzi alla tracotanza diabolica? Sí. O non fa il Messo cenno alcuno d' ira? No. Non è, dunque, ira, da scorgersi nelle Furie.

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detta; giacché l'invido brama il male altrui, teme per contro il bene, non per vendetta, si per innata stoltizia, sí per odio, come Dante Dante medesimo afferma : e se non fossero sdegnate piú per l'ardire, cui un vivo mostra varcando il regno della morta gente, che per il bene, il quale gliene verrebbe ma ignorano esse: e se non fossero, come dice il Poeta qual piú spiccato attributo, feroci; che non è l'invidioso: e se non fossero come soggiunge il Poeta qual notevole attributo, anche meschine della Regina dell' eterno pianto; da che non l'invidia, figlia della superbia, è ancella di Proserpina, piú che non sieno, allora, tutti gli altri peccati. Non è dunque, poiché non s' osservano tante, e altre che si potrebbero spigolare piú oltre, condizioni opportune e, piú, necessarie.

Onde terzi ultimi, perché nessuno, e sarebbe illogico, vuol forzar la lettera a riconoscere perfino nelle furiosissime la placidissima accidia, nelle sanguinolente la dolcissima e lene ignavia aggiungono ancóra: E la superbia che s' asconde, dottrina proficua, sotto il velame degli versi strani. Coi quali io, come si vide, convengo. Ma solo fin qui. Dacché continuano, ahi, spropositando alquanto. Ve' Pietro di Dante asserire, derivando a suo modo, con strampalate etimologie, il valore di ciascuna delle tre femine malvagie, essere Aletto la superbia del pensiero, incessante giusta il nome; Tisifone, la superbia della voce; Megera, la superbia dell' atto. Ma prima di tutto: se è vero che Aletto equivale a incessante, non è cotesto troppo lato attributo, valevole per colpe, direi, infinite, perché lo si possa a cuor leggero ritener sufficiente a determinare una forma di peccato? non è incessante anche l'invidia, nel carattere dell' invidioso? e la lussuria, nel lussurioso? e la ira, nell'iroso? e via via via? Ancóra: non è vero affatto (e non è una scoperta mia, ché la sarebbe luminosa da vero) che pwvý sia radice di Tisifone, bensí lo è póvos, non voce ma delitto. E dopo ciò, ov'è la caratteristica della Furia, che ci permette di determinarla come superbia della parola? dove, se nulla ce ne appare se non il posto di mezzo? Da ultimo: non è Megera derivata da μéya-ěpyov; bensí (ih, fra che sottigliezze e peregrinità ci tocca brancicare!) da μɛyaípw, invidio. Or come l'invidia ha che fare insieme con la superbia dell' atto? Via, le son ciance. Ammetto,

adunque, la superbia e dissi sopra, a lungo, penetrando a mio modo nell' intimo dei due Canti, i motivi di tale asserzione. Nego la sua triplice differenza: e ho esposto pur ora il perché. Insisto sulla mia distinzione per contro ed è ovvio come e per qual causa e movente.

In contrapposto a costoro, di cui ho detto, stanno altri, ai quali ho piú sopra solo accennato, sostenitori di un diverso, anzi antitetico, concetto esser le Furie propri dèmoni del cerchio ove penano gli eretici, simboleggiar quindi l'eresía o almeno quello stato affettivo ch'è permotore e iniziatore di questa. Ma essi pure, al solito, si dividono poi, allorché tentano di dare un' espressione piú concreta alla loro teorica. Qui è facile distinguere, di prim' acchito, due classi di commentatori.

L'una è di quanti dell'eresía veggono effigiato, a mezzo delle furiose Erinni, un aspetto: la malizia, cioè, l'inganno, l'astuzia subdola dell' ingegno traviato, il quale si sforza di negare il solo e unico vero, che la religione insegna, di affermare i falsi asserti e le convinzioni errate, che l'eresía inculca, di resistere dinanzi agli argomenti buoni con pertinacia audace, di insistere sugli argomenti fallaci con protervia temeraria, di promuovere la diffusione dell'errore e arrestare quella della verità per contrario. Né v' ha chi neghi che sia questo pure notevole e spiccato carattere dell' eresía. Ma proviamoci ad adattare agli atteggiamenti, alle parole, alle doti, alla figura generica insomma delle Furie, cosí come da Dante è prima ritratta, com' è poi specificata da Vergilio, come anche (se si vuole) è tramandata dalla tradizione mitologica, proviamoci, dico, ad adattarvi il concetto della malizia, qual'è per converso più comune, quale Dante lo immagina e lo rappresenta di poi, nel piú basso Inferno, quale si fa concreto nei personaggi che ci presenta: e troviamo un' evidente incompatibilità, un contrasto palese; il quale sta tutto nel dissidio grossolano ed espressivo tra quelle movimentate Erinni, accese di mosse come di persone, anguicrinite e vocianti, e, di fronte, i frodolenti e i traditori, in cui il moto si fa, giusta osservò Francesco De Sanctis, sempre minore, sempre più lenta la vita, piú esigua la forza, piú fioca la voce, piú evane

1 A es.: Ottimo, Conc., Blanc e i tedeschi, Landino.

scente l'aspetto; consiste e sta in breve nel dissidio tra l'impeto, anche eccessivo, della forza vitale motrice e vocale, e l'assenza l'esaurimento l'inaridirsi di quella forza medesima. Or può il simbolo di un peccato presentare i caratteri opposti diametralmente a quelli del peccato? può questo, peggio, avvenire presso l'Autore medesimo? Né pur Capaneo è tanto fortemente agitato quanto le Furie; e Capaneo è un violento. E gli eretici stanno nelle lor tombe; e, maliziosi, son puniti per malizia, come quelli che, avendo fatta l'anima col corpo morta, giacciono con l'anima in un sepolcro. Non è quindi logico supporre nelle Furie figurazione di eresía, e piú specialmente di malizia eretica; cui sovra tutto disconviene quel furore che in primo luogo (non lo dimentichiamo) raffigurano le Furie.

1

L'altra classe ha un solo, ma valoroso, rappresentante: Filomusi-Guelfi. Il quale, attivo ricercatore dalla sottile indagine erudita, offrí, or non è molto, una spiegazione nuova del passo controverso, che pecca, a mio credere, di varie colpe. Anzi tutto é troppo complessa: a volerla ridurre nel suo svolgimento piú semplice ci è da fare un discorso: parte dall'eresía, vi distingue colpa d'ignoranza, colpa di passione, colpa di malizia; riduce queste tre colpe ai due sentimenti dell' irascibile e del concupiscibile; riduce per la terza volta questi due sentimenti alla sensualità della carne, alla sensualità degli occhi, alla superbia della vita, riconosce in fine (ed era tempo) questi tre affetti simboleggiati da ciascuna delle tre Furie e, precisamente, da Aletto, Megera e Tisifone. E perché disdica qui, piú forse che altrove, la complessità, dissi di sopra ed è a ogni modo evidente. Poi è fondata in gran parte sui testi di san Tomaso; ma chi accerta che Dante lo avesse presente? chi, peggio, ci assicura del l'esattezza di si fatto ragionamento, racimolato di qua e di là e posto insieme da una sintesi che è accettabile solo se presentata come fortemente ipotetica? chi in somma può credere che Dante, il quale si dilungò spesso altrove per mostrare, provando e riprovando, l'aspetto di belle verità, frutto di sue proprie elaborazioni, di suoi propri studi e lavori, por

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1 Cfr. Giornale dantesco, vol XVIII, quad. III-IV, pag. 120 sgg.

2 Cfr. sopra S. V.

tato di sue singolari sintesi e analisi, nascondesse qui, sotto una non facile forma allegorica, sotto un non trasparente velame, un' ardua, complessa, architettata, lambiccata dottrina? nessuno. Inoltre, tralasciando queste che dirò pregiudiziali, sono notevoli altri errori, facili a riscontrarsi nel procedimento dell' argomentazione, forse troppo arguta, di Lorenzo Filomusi Guelfi. E uno. Non è vero che l' eresía sia colpa in cui si comprendono le tre categorie di peccati ond'è tripartito l'Inferno: giacché ciò è consono, ammetto, alle teoriche di san Tomaso; ma Dante, che da savio professava, su questo punto, opinioni al tutto individuali, nonché considerare gli eresiarchi come veri e propri colpevoli, li escluse, nel suo disegno dell' Inferno, dal complesso degli altri peccatori, ne fece categoria a parte: come quella che, in luogo di abbracciare ogni altra colpa, le esclude piú veramente tutte, invece di essere la quintessenza dei peccati e degli affetti peccaminosi, è da eccettuarsi fra questi e da ritenersi giudicabile con larghezza maggiore di criterio e migliore indulgenza. Non dimentichiamo che il sesto cerchio è simmetrico rispetto al primo; ed è Vergilio nel primo; e son sospiri; e chi v'entra impallidisce. Non confondiamo il punto di vista da cui il d'Aquino poteva considerare l'eresía, con il punto, piú alto, da cui Dante: e dalle piú alte vette più largo è l'orizzonte. Non trascuriamo che il nostro Poeta è la più nobile significazione dell' intelletto laico, ricercatore, indagatore, agitatore dei piú ardui problemi; mentre è san Tomaso prodotto della mentalità chiesastica, disputatrice di veri rivelati, creatrice di corollari da dommi, persecutrice di dissidenti! E due. Concesso sia nel vero il Filomusi-Guelfi, non è ammissibile che la colpa d'ignoranza, la colpa di passione, la colpa di malizia si possano, senz'altro, ridurre alle « disordinate passioni del concupiscibile e dell' irascibile». Il più elementare buon senso ci fa presto accorti essere e concupiscenza e irascibilità, quali, a punto, disordinate passioni, traviamenti del sentimento dell'affetto, colpe, in somma, di passione; non comprendere però, sí in vece confinare con esse, quelle colpe che son pertinenti alla mente, sia nel rispetto negativo o d'ignoranza, sia nel rispetto positivo o di malizia. Ond' è che bene si può suddividere la colpa di passione nelle due sottospecie della concupiscenza e della

irascibilità; ma è schiettamente illogico, nel suo più stretto significato, ripugnante cioè alle prime e fondamentali leggi del pensiero, l'asserire quella corrispondenza, che il Filomusi, il compiere quella riduzione, che il Filomusi. E tre. È sbagliato, perché incompleto, il dichiarar equivalenti alla passione del concupiscibile le due concupiscenze e della carne e degli occhi, che son parte dell'estensione di quel concetto, ma parte soltanto; è sbagliato, perché incompleto, asserire equivalente alla passione dell' irascibile la superbia della vita, che è parte, ma parte soltanto, di quel concetto molto piú esteso. Raccogliendo, adunque, il sugo il Filomusi, che pure volle da principio scorgere nell'eresía entrambi gli aspetti che le convengono, il passionale, ciò sono, il malizioso, poi, nel progresso errato del discorso, finí col coglierne il solo aspetto passionale, omettendo il malizioso, e col rilevare di quello stesso alcune linee solamente, non che tutte. Per tal ragione io posi il Filomusi in una categoria di comentatori, i quali, riconoscendo nelle Furie il simbolo dell'eresía, ne veggono, antiteticamente all'altra categoria superiore, il solo aspetto superbioso o passionato. Ma lo vede, io credo, male. Per due motivi, a dir del Filomusi, Aletto si conviene come simbolo della concupiscenza carnale: è a destra: è incessante. Ma il posto suo dipende soltanto dalla relazione, che tra essa e Megera corre; è perciò sufficiente a caratterizzare, non questo o quel preciso peccato, bensí una qual siasi colpa, purché minore della invidia. Ma l'essere incessante è proprio dell' invidia non meno che della lussuria, e non meno, che so?, dell'ira; e non meno, a caso, della superbia! Che resta? Nulla. Per una ragione, sempre a dir del Filomusi, Megera è la concupiscenza degli occhi in essa << massimamente è compresa l'invidia (pevalew). Dunque ell'è, soltanto, il simbolo di una parte, massima, di quella colpa, la quale dovrebbe rappresentare tutta. Che sia poi, realmente, massima, pare al comentatore; non si sa se debba parere a Dante pure, perché nessun indizio lo lascia arguire, nessun accenno né prima, né poi, né qui, né altrove lo dimostra, se non se si vuol sottilizzare. 1 Per una ragione,

1 Si ricordo bene il Purg. XIII, e gl'invidi orbi degli occhi e del sole; ma e ricordo Purg. XXXII,

ancóra a dir del Filomusi, Tisifone raffigura la superbia della vita: perché la vendetta, che quella etimologicamente significa, è (vedi meandro stupefacente del pensiero !) gran parte, al solito, dell' ira o sia dell'irascibile a cui, come sopra, si può ridurre la superbia della vita. Ma, se ripetuto è l'errore, non ripeterò io, ché son stanco, la confutazione: questo modo di trovare equivalenze piú o men proprie, di fare riduzioni più o men dicevoli, di trovar simboli in figure che vi corrispondono solo in parte o, parte o, se piace meglio, in gran parte, è modo lo si dica! troppo ingegnoso, stiracchiato, arduo : non convince né me, né voi, né alcun altro. Dante è, quando si finge dottore scolastico o siede in scranna scolare, di Beatrice, e sillogizza, altrettanto sottile e fine ed eccessivamente arguto; ma né è allora cosí incompleto nelle sue partizioni né cosí corrivo nelle sue corrispondenze; né mai è a quel modo disposto a coprire d'un velo ardua ed asprissima dottrina, duro pane, per chi non ha drizzato, sí come del suo lettore nell' Inferno vuole, per tempo il collo a cibarsi del dolce pan degli Angeli! 1

Del resto, su tutte queste sta una superiore considerazione di ben più notevole importanza. Va bene: concediamo esser da ravvisare nelle Erinni la eresia. Ma certo non ve la ravvisate bene, voi che vi vedete la malizia. Né certo la ravvisate bene, voi che vi vedete la passione. Perché vi potete completare; siete quindi manchevoli entrambi; avete entrambi visto un lato e un aspetto solo del simbolo : segno esser questo ben altro, se non vi fu possibile intenderlo a fondo!

Fa parte in vece per sé stesso, nella schiera, di cui tratto, di coloro che le Furie intendono quali velame di uno stato anteriore alla colpa e contemporaneo alla colpa stessa, il Ruth. " Questi al contrario di quanti abbiamo esaminato prescinde dalla considerazione della città di Dite in quanto è cerchio fra' cerchi infernali, insiste in vece nel notarla come

154 e la puttana sciolta; e rammento accecati dal zelo in Inf. XXXIII, 91 sgg. quel che riprende dattero per figo ed i compagni suoi della Tolomea. Dunque ? 1 Cfr. Parad. II, 1о-11: e sopra, 8. V.

2 Cfr. RUTH E., Studi sopra D. A. per servire alla intelligenza della « Div. Com. ». Venezia, 1865, vol. II, pag. 145 segg.

principio della seconda parte di quel vallone che il mal dell' universo tutto insacca. Onde avverte súbito un facile parallelismo: a quella stregua per cui, dianzi, avanti ch' entrasse nella porta dalla scritta di colore oscuro, avanti, cioè, che penetrasse nella prima parte dell'abisso infernale, Dante fu rattenuto da tre belve paurose, la lonza leggera e presta molto, il leone ardito e prepotente, la lupa e prepotente, la lupa carca di tutte brame; a questa stregua medesima ora, prima di varcare la soglia al di là della quale è il più profondo e più basso e piú dolorante Inferno, egli è fermato e minacciato nel suo cammino da tre mostri analoghi a quelli, da Aletto, da Megera, da Tisifone. Ergo: a quel modo che la tendenza contraria all'ordine è da ravvisare, e nient'altro, nella lonza, nel leone, nella lupa: cosí la ribellione è da scorgersi, significata con le sue tre cause, superbia, avarizia, invidia, senz' ombra di dubbio, con la evidenza più assiomatica e lampante, nelle tre mostruose Erinni. Difatti (a qual tèsi mai manca un argomento, Dio degl' intelletti sani !...) difatti: là Vergilio fu duca a salvezza, fu liberatore dal pericolo, condusse Dante in porto, fuor dalla paura, dalla morte, dalla selva: qui ve' corrispondenza ve' corrispondenza magnifica! Vergilio cinge di sue mani gli occhi del compagno, e lo salva cosí. Anzi (il motivo è catafratto) poiché, non piú nel primo Inferno, bensí nel secondo è ormai pervenuto il Poeta, ebbene, non Vergilio soltanto lo soccorre, ma anche, piú direttamente che non nel II dell' Inferno, il Cielo medesimo, a mezzo del suo Messo. Bel ragionare. Peccato che, per risolvere una questione buia, annaspi in una più buia e per dirci delle Furie, come sien da ritenere dai buoni cristiani, s'appelli alle fiere, che i buoni cristiani ancor non sanno, qual nome con certezza s'abbiano, di qual razza con sicurezza sieno, ove la canina non sia la lor propria esclusiva. Peccato che la invidia convenga bensí a Megera, ma non la superbia, in senso generico e vasto, ad Aletto o a Tisifone in ispecie, né l'avarizia, e tanto meno. Peccato infine, sia assurdo pensare che il peccatore, il quale ha assistito a una prima parte delle pene, a quella per l'appunto pertinente alla incontinenza, si ritrovi, dopo, nell'istessa condizione, solo lievemente piú fosca, in cui già, non varcata né meno la soglia infernale, sí che appaion vani, fin' ora, il viaggio lungo,

aspro e duro, le ammonizioni di Vergilio, le osservazioni fatte e le vedute e gli spettacoli nuovi....

VII.

Ed ho finito: finito di discutere una prima falange d' interpetri. Che me n'è risultato? Luce maggiore e maggiore conferma alla mia tèsi. Passo ora, e forse è tempo, dalla riprova, dalla confutazione dell' asserto altrui e delle altrui ipotesi alla prova, dal lavoro negativo di distruzione a quello positivo di ricostruzione.

Ho esaminato tre diverse correnti.

La prima voleva ravvisar nelle Furie un peccato del V cerchio. Non convenendo l' invidia, non convenendo l'ira, nessun parlando né meno di accidia, rimase la superbia. Ecco una corrente che mi portò al nòcciolo della mia interpretazione.

La seconda voleva ravvisar nelle Furie il peccato del cerchio VI: l'eresia. Ma non vi trovai conveniente un primo aspetto: la malizia. Ne fu mostrato un secondo: la passione; del quale non la concupiscenza resisté alla critica né della carne né degli occhi; non la superbia. Tuttavia là dove la concupiscenza mostrai assurda, data la lettera, come dottrina; in vece la superbia mostrai, non errata, si bene termine più vasto che Tisifone vendetta non sia. Risultò quindi che la superbia non è significato incompatibile con le Furie, ma è di troppo più vasto che l' una sola di esse. In conclusione: anche questa seconda corrente porta, per via, se si vuole, un po' obliqua, a colpa delle torbide e fangose sue acque, fino a riconoscere per la seconda volta nelle Furie il concetto della superbia: che è, ripeto, il nòcciolo della mia interpretazione.

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La terza in fine condusse a negare ancóra che la superbia convenga in particolare a una Furia, ma fe' riconoscere non ripugnare al concetto più vasto delle tre Furie insieme. Quindi anche questa corrente porta, come suo contributo, un granello al mio edificio.

Risultò per tal modo come, di fronte a una critica, che, per esser mia, non ritengo però unilaterale e cieca al tutto, solo quella parte delle tre correnti interpretative resistette che concorda con me, il resto fu sbriciolato

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