ripulsa, simbolo ed espressione di una legge Lo Duca mio discese nella barca, e poi mi fece entrare appresso lui, e sol quand' io fui dentro, parve carca. Certo perché il senso e la carne pesano, ma la ragione e lo spirito splendono; l'uomo e il suo corpo gravano, ma Dio e la sua potenza su- blimano; onde solo Dante- uomo in quanto fa carcar la barca, non Vergilio Nella scena, adunque, come nei personaggi, non so che umano, non so che demoniaco, pare s'appuntino e convergano insieme a non so Manca, perché prorompa il dramma, il pro- tagonista soltanto. Eccolo! (31-63) Ai tre, che correvano, pregno ciascuno d'un valore suo e d'una sua importanza, la morta gora, signifi- cativa essa pure, si fa innanzi a un tratto tal sconosciuto. Pien di fango. Chi? Parla, e si scopre << Chi se' tu che vieni anzi ora? ». Certo, è un superbo. Perché, a guisa di supe- 1 Che Filippo non sia un pretto superbo è stato asserito anche or non è molto (cfr. Bullett. della Soc. dant. it., nuova serie, vol. XVII, fasc. I, marzo 1910, pag. 62); ma a me pare non lodevole sofisticheria. Anzi tutto Vergilio medesimo ha cura di dirci « Questi fu al mondo persona ORGOGLIOSA », senza far cenno all' iracondia di lui, che pure avrebbe dovuto esserne, a es. secondo G. Neppi, la più importante caratteri- stica. Poi dall' individuo, ancóra Vergilio, passa alla collettività o categoria, proseguendo « Quanti si ten- gono or là su gran regi [o sia: quanti son ora là su SUPERBI] che qui staranno come porci in brago [cioè: grazia, come altri penseranno, l'uomo vivo viaggiante per l'oltretomba, se bene s'accorga della vitalità di lui, ma prefe- risce aver solo contezza del suo essere. Certo, un offensore. Poiché ingiuria l'uomo, che, senz'altro conoscere, d'un súbito afferma lordo di peccato e vuole di prim' acchito preveder sozzo del pantano, in cui egli s'intruglia; e ingiuria Dio, trascurando, sí come fa, la Po- tenza di Lui e la sua Grazia, senza le quali non doveva supporre nessuno visitatore « anzi ora » dei morti regni. Ma che cosa offende egli, nell' uomo? e nel Dio, che cosa? Nel- l'uomo, non Vergilio, sí Dante; non la ra- gione, sí il senso. Nel Dio, non la legge e la giustizia, la misericordia e la grazia trascura piú tosto. Cosi fatto essendosi rivelato al pronto acume di Dante nell'interrogazione im- provvisa, ecco il Poeta gli dà risposta dice- vole a botta superba. Lascia, all' offensor di Dio misericordioso, balenare una superiore po- rintuzza la superbia gonfia di sé, e dice: ma tu chi se', che sei si fatto BRUTTO? Da quel momento l'orgoglioso è vinto. Al- lora, si rivelano in lui due aspetti nuovi. Ac- cenna, prima, al suo pianto (« Vedi che son un 1 Ecco degli esempi: Caronte (Inf., III, 88-93), Francesca (ib. V, 88), Ciacco (ib. VI, 40), Pier delle Vigne (che presta fede senz' altro, conscio di una gra- zia a lui negata, ma benigna per altri, al ritorno di Dante « nel mondo su » : (ibi XIII, 54 e 76), Brunetto (ibi XV, 46), Rusticucci (ib. XVI, 33: « cosi sicuro » quali- fica Dante, e s'intende assai....), gl' ipocriti (ib., XXIII, 89), Vanni Fucci (persino! ib. XXIV, 141), Pier da Me- dicina (ib. XXVIII, 70), Bertrand de Born (ib. XXVIII, 133). Non vi fan cenno né Farinata né Ugolino: ma quegli, dicendo « Tosco », è tutto assorbito dal pen- siero della sua Fiorenza; questi è intento, troppo, a rodere. Altri esempi, nel Purg.: (Catone I, 43-48), il giudice Nin gentile (VIII, 66), Sapia Sanese (XIII, 146), Guido del Duca (XIV, 14). Il concetto poi della Grazia che assiste Dante è da Vergilio in più casi espresso ai peccatori: cosi in Inf. XXI, 79-82; in Purg. III, 98-99. È espresso da Dante medesimo in Purg. XVI, 40. Nel Parad. se ne fa da ognuno espressa menzione. Ma non vo' moltiplicar gli esempi. 2 Tale sembrò anche a Vittorio Graziadei, che si stupí per ciò della risposta di Dante. (Cfr. Lo sdegno mai superbisce, ché v' ha l'aria di dire : « non ti curar di me, ma passa oltre ! », di ostentare le sue lacrime per celarsene e meglio scomparire e farsene schermo; onde è accortamente che Dante, pronto, lo rimbecca: Con piangere e con lutto, spirito maledetto, ti rimani: .... poiché il pianto è il più adatto contrapasso al ghigno dell' irrisione, il lutto è il contrapposto più degno del tronfio godere di chi per esser suo vicin soppresso spera eccellenza 1 e gli accagiona, a ciò, sia pur con la brama soltanto, sofferenze e doglianze. Ma presto lo spettacolo di lacrime scompare: quegli, furioso, afferra con ambo le mani la barca al bordo, tenta con ogni forza di capovolgerla e trar seco nel limo, sozzo, l'uomo che aveva dato di piglio a sua superbia, le aveva scoperte con pronto polso e atto fermo ambe le guance, e su v' aveva disteso due forti manate, due schiaffi potenti, punitori ben giusti d'un duplice oltraggio. Vuol vendicarsi. È il desiderio di vendetta che si vien lumeggiando, dopo il pianto, quale attributo secondo della superbia di colui. uomo Opportuno intervento: perché Dante in quanto senso s' era, sí, saputo levare nella vampa dello sdegno incontro all' anima superba, ma sarebbe rimasto soccombente, senza l'aiuto della ragione, calma regolatrice. Filippo aveva offeso Dante. Dante con Vergilio lo ricaccia tra i cani. E fa giustizia. Non completa, si bene. A completarla, occorre altramente ancóra venga punito l'oltracotante, sí come quegli, il quale, per traviato errore di coscienza maligna, sconobbe e finse ignorare l'assistenza della misericordiosa grazia divina. Or a quella guisa per cui quei che fu al mondo persona d'or Purg. XVII, 115-116. goglio s'è, in ombra là giú, furioso, perpetuando con la pena il peccato; medesimamente l'offensore della grazia di Dio è dalla grazia istessa privo dei suoi benefizi. Come? Per un primo, più semplice, modo: giacché può la grazia concedere, cosí può ritenere, e come dà, nega del pari: a Filippo degli Argenti a punto non piovono doni misericordiosi, quale dannato egli è. Ma ancóra per un secondo modo è punito: la grazia di Dio, che gli si nega brusca, si concede per contro larga al nemico di lui, Allighieri fiorentino, e si concede, peggio, a danno tutto e a grande scorno dell'avverso Adimari! Dante: Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda.... E Vergilio, espressione del superiore volere ! Di tal disio converrà che tu goda. E ne gode il Poeta di fatto. Sí, che Dio ancor ne loda e ne ringrazia. Compiuta ora la più piena vendetta, il dramma sta per chiudersi e finire; ma Dante, perfetto sempre, non trascura, né deve, un altro aspetto, il terzo, del superbioso Filippo. Ah, malvagia iddia superbia che dilani i petti e a brani gli sconci! che strappi i cuori e gli tormenti! A' diletti tuoi piú male arrechi; il tuo amore è fatale e pregno di sofferenze acutissime. Vero : e 'l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volgea co' denti: atto, questo, del furore supremo, cui la superbia traligna di facile, e di piú, atto espressivo efficacemente del male che ridonda al cattivo. Se non che, continua Dante : quivi il lasciammo, ché piú non ne narro. Perché, in verità, è finito, ora, il dramma della superbia. Dirò più preciso: ha avuto termine il dramma della superbia umana; la quale fu mostrata: avere per suoi effetti l'offesa all'uomo, nella parte sua men nobile, o sia nel senso; l'ingiuria al Dio, in uno degli aspetti suoi, o sia nella misericordia graziosa: presentare per suoi caratteri il pianto, degno contrasto d' un ignobile ghigno, simbolo d'altra parte d'un arrecato dolore altrui; la bramosía di vendetta, impetuosa tanto da tradursi facilmente in atto delittuoso; l'ira in sé medesima, lo sfogo virulento e insensato contro sé stessa, la sofferenza in sé conversa: punirsi in fine dagli altri, sia con il sussidio della ragione che, temperando il ribellarsi pronto e ruvido del senso, lo mantiene nei dovuti termini e limiti « di quel dritto zelo Che misuratamente in core avvampa », ' di quel sano sdegno, cioè, che non é peccato ad averlo, ma è merito a saperlo usare », sia con l'ausilio della divina Grazia, che, negando i suoi provvidi doni al superbo, gli concede a quelli che piú tra gli avversari egli odia. II. 2 Ma superbia è duplice peccato, come quello che fu è sarà di uomini, fu anche, pur troppo, di creature angeliche. Quale stupore, dopo ciò, se, appresso al dramma della superbia umana, si svolge quello della diabolica? Stupore sarebbe ove ciò non fosse. In vece è. La scena nuova della nuova azione, mutata alquanto nel suo aspetto esteriore, riesce nel suo significato e nella sua importanza quella che notai pur dianzi prospettarsi a lumeggiare il dramma finito or ora. Ancor qui l'elemento umano predomina : vi è una valle, e vi son « meschite », e v'è una città, e cittadini in essa, e vi son fosse, e vi son mura, e in queste un' entrata. Ma il foco che l'affoca è l'eterno e diabolico, il luogo è il basso inferno, la terra è la sconsolata, la città ha nome Dite, i cittadini sono gravi di doglianze sicché in breve dura ancor qui l'elemento, che dissi, demoniaco. Né ancor qui è assente quello, che notai, divino: parso, al solito, più sentito che espresso, piú immanente che supereminente, piú afflato che materia, piú astratto che concreto; presente e sensibilissimo a ogni modo. Lecito è quindi, dalla somiglianza innegabile degli sfondi, arguire somiglianza di drammi. Se non che qui calza opportuna un'osservazione notevole. Se ci facciamo a notare qual relazione mai corra tra ambiente e scena nel dramma, come lo definii, della superbia umana; notiamo in primo luogo che nello sfondo preparatogli dal Poeta l'umano e il diabolico parevano appuntarsi, come lati d'angolo in vertice, nel divino; in secondo luogo osserviamo che nella scena svoltavi dal Poeta fu evidente il contrasto tra 1 Purg. VIII, 83-84. 2 Cosi il Boccaccio, nel Comento. l'umano e il divino, in relazione a Filippo degli Adimari, o la consonanza tra l'umano e il divino, in relazone a Dante stesso; fu insomma rilevata e fatta spiccare la relazione vicendevole tra Dio e uomo; in terzo luogo ci accorgiamo che l'elemento diabolico tacque al contrario e fu con Flegias silenzioso, rimanendo nell'ombra e quindi dell'oblio; ne concludiamo in fine che nell' ambiente fu lumeggiato un aspetto soltanto, fu rischiarato, per riprendere la metafora già usata, un lato dell'angolo, dimenticato l'altro; fu mantenuta la promessa, in riguardo alle relazioni correnti tra il divino e l'umano; non lo fu, in riguardo ai legami tra il diabolico e il divino. Quello fu, in vero, il dramma della superbia umana. Ora è la superbia, dissi, diabolica: e del ripetuto ambiente sarà fatto risaltare l'altro aspetto, sarà vivificato l'altro lato dell'angolo, sarà mantenuta la seconda promessa: vedremo cioè il contrasto tra il diabolico e l'elemento divino. Onde l'artista non si ripeté, in realtà; si completò invece : colorendo volta a volta con efficacia e vivacità maggiore ora l'una ora l'altra parte del quadro. Vediamo adesso che sieno i personaggi. Non ripeterò di Vergilio e Dante: di quegli che, buon Maestro, dice e spiega l'occulta cagione del rosso esteriore; di questi che cerne nella valle o avanti intento l'occhio sbarra. Più tosto, ecco i diavoli. Erano più di mille in sulle porte DA' CIEL PIOVUTI. Dicevano, stizzosamente, Chi è costui, che senza morte va per lo regno della morta gente? È la prima offesa. Consueta, giacché altri demoni l'usarono, per ogni cerchio, a cominciar da Caronte e fino a Pluto. Nuova, se si pensa che la stizza ond'era improntata la voce di quelli non doveva essere simigliante né alla bestiale violenza di Cerbero il gran vermo, né alla rabbia consumatrice di Pluto maledetto lupo, dacché Vergilio non ai diavoli rispose come a quest'ultimi, sí fe' cenno di voler lor parlar segretamente : era senza dubbio già nel tono della domanda espressa la tracotanza loro e la superbia, la loro piú ferma intenzione di resistenza. Offesa, tuttavia, limitata a Dante: da Vergilio non divisa, ché gli concedono « Vien tu solo »; purché quei sen vada. L' Allighieri ne trema; lo conforta il Poeta latino. Ma ecco Vergilio non stette là con essi guari, che ciascun dentro a prova si ricorse. È la seconda offesa. Fatta, questa, alla ragione. La quale, pacata, aveva cercato con piú vicinanza di sedare l'irritato moto dell'animo di quelli; calma, aveva forse (ché non poté Dante lontano udire) pôrto loro ragioni, e valide, e sode; ma in vano. Fu sprezzata; se ne scorò. Ma è, a un tempo, la terza offesa. Perché Vergilio deve, fra l'altro, aver detto: Dio, solo mi manda, è il voler suo. E quelli negarono adito libero al volere di Dio: a quel volere che non è se non se giusto. S' opposero quindi alla divina giustizia, oltre che alla umana ragione. Triplice ingiuria adunque. Ma onde mossa? perché originata? Anzi tutto, dalla violenza : quel presentarsi in più di mille là sulla porta a contrastare il passo, quel comune gridio stizzoso, quel chiudersi un poco soltanto del disdegno grande, quel volere unanime la perdizione e lo smarrimento di Dante, son segni non dubbi d' una collera presto accesa, prestissimo divenuta violenta, eccitata, furiosa. Tant'è che breve tengon essi il colloquio insieme con Vergilio, non badano d'ascoltarne la loquela e la parola ornata, di comprenderne le ragioni, per persuadersene: al contrario, nel cieco furore, già convinti a priori d'esser nel giusto non pur lo ascoltano, ma lo piantano súbito in sulla soglia deserta. Rabidi! Sí, e invidiosi. Perché l' invidia, d'essi peccatori e ribelli privi della luce divina, contro l'uomo che si redíme e si pascerà di Dio, è il segreto stimolo della loro collera, è la occulta favilla. che ne accese l'incendio, è il movente primo del grande odio loro. Inoltre è lor deplorevole superbia nata e caratterizzata da desiderio forte di vendetta: Ah, costui è vivo? e vuol varcare il regno della gente morta? e Flegias non l'ebbe che sol passando il loto? e non l'avrem noi che sol passando Dite? E bene! si perda egli, sen stia la guida! si confonda tra queste tenebre che volle varcare, per questi cerchi che scese, per queste valli che mirò, tra questo mondo che non è il suo e, audace temerario, volle abitare e trascorrere! si perda! Sarà vana. Ma non senza effetto, ché non è mai senza tracce il male. Dante ha tremato, or è poco non mi lasciar, ha detto al duca savio, cosi disfatto! Dante ha, or è poco, desiderato rifare il cammino e riuscir di lí, piú tosto che affrontare quel migliaio di grugni duri, di fronti cornute, di negre pelli ruvide. Dante ha dubitato di sé, che non gli bastasser le forze; di sua guida, che stesse per abbandonarlo; di Dio, delle Donne celesti, che gli negassero la loro grazia e permettessero l' iniquo sormontare dei demoni. Con Dante, Vergilio ha pure esitato; dopo la resistenza dei diavoli, i suoi passi son rari, gli occhi stan chini alla terra, le ciglia son rase d'ogni baldanza. Mormora: chi m'ha negate le dolenti case? È inutile: a lui pure, che Beatrice pregò, l'umanità venera, Dante onora duca signore maestro, designa mare di senno, il dubbio s'è insinuato nel petto: E se fosse impedito La superbia diabolica piú oltre l'accesso?... ha atterrito, spingendole al sospetto, le menti dei due pellegrini, e sí della guida come del minor seguace. fortuna ! arride Ad entrambi però poco appresso vittoria. Perché di qua dalla porta infernale discende pronto Tal che per lui.... fia la terra aperta; messo in ausilio valido dal cielo provvido e attento, a vincer l'oltracotanza, non nuova, dei diavoli e a fugarne l'ardire, non ultimo. Perché Vergilio, ragione umana qual'è, già lo presente e arguisce, se ne conforta e muta il dubbio in ira (v. 121), i sospiri in parole, le parole imprime di coraggio e d' esortazione, afferma ch' ei vincerà la prova. Perché infine Dante, senso umano qual' è, si sente attratto dalla bella certezza e sicurezza di lui, se ne rianima un poco, ne ritrae alquanto conforto. La battaglia è vinta. Ed è, ho detto, la battaglia della superbia diabolica. La quale quindi, per tal guisa, riassumendo, si svolge: nasce da rapida e impronta invidia, come da insana concupiscenza di vendetta: si concreta in offesa all' uomo ragionevole e al giusto Iddio: genera il dubbio dell' uomo in sé stesso e nella divina potenza, lo scoraggiamento del suo ardire, la prostrazione delle sue forze: è vinta pel rigore della Giustizia superna, presagita e preavvertita plice ufficio. Narrare, anzi tutto, i passi che i come necessaria e immancabile dall' intelletto sagace della creatura: procaccia male a sé stessa. III. Rifacciamoci un po' lontani, a contemplare nell' insieme il Canto VIII a quel modo che sogliono i pittori, finito il quadro, che colorirono nei particolari. Il concetto che lo anima e lo informa è la superbia: quella umana nella prima metà (vv. 1-66); quella diabolica nella seconda (vv. 67-130): della prima è mostrato il pianto e il lutto (vv. 36); della seconda l' invidia violenta (vv. 83, 81, passim): dell'una e dell'altra è narrato rimedio l'intervento e della umana ragione, sia a moderare lo sdegno che a presagire la salvezza, e della potenza divina, tanto espressa qual grazia quanto intesa come giustizia: entrambe danneggiano sé medesime e in sé medesime ritorcono il male: d' entrambe è propria la bramosia di vendetta: ma l'umana è men grave che la diabolica, meno esiziale nei suoi effetti; giacché, se di quella si può tacere in breve (v. 64), di questa invece è tristissima conseguenza il dubbio tormentoso accecante pietrificatore (vv. 96, 118-120). Sintetizzato cosí, nel suo più recondito significato e nel piú intimo valore suo, il Canto VIII, passiamo a leggere, senz'altro, il X. Ora sen va per un secreto calle tra il muro della terra e li martiri.... Dove siamo? Fra gli eretici. Va bene: ma come ci si venne? per quali vie? Inoltre: perché gli eretici qui, dopo i superbi, prima dei violenti, tra il muro della terra e li martiri? In somma quali vicende materiali di viaggio e cammino han condotto i due poeti, e noi lettori fantasiosi insieme con essi, fin qui? qual processo, per contro, ideologico e teologale seguí il cervello dell'Autore nella disposizione dei nuovi dannati, e quale figurazione la giustifica agli occhi nostri d'ignari e di curiosi? C'è un vuoto, che le domande riempiono; c'è un distacco, che i punti interrogativi colmano, ma non saziano noi. A saziarci rende propizio ufficio il Canto IX di cui intendiamo ora il valore, la necessità e, quindi, la efficacia. Giacché ne vediamo il du Poeti compierono nel proseguimento del cammin alto e silvestro, seguirli negli ostacoli nuovi superati, dire degli atti successivi, dei diversi colloqui, delle vicende strane. Svolgere, inoltre, quel discorso intellettivo, quel nesso di concetti, in virtú del quale si trascorra senza interruzioni dalla superbia alla eresía. Entrambi gli uffici (si riconosce presto) hanno una loro necessità. A quella guisa che il primo è inevitabile, per un'ovvia ragione artistica, la quale nega, si possa lasciar lacuna nel compiersi del viaggio o pellegrinaggio oltremondano; come per una semplice causa psicologica, che afferma doversi soddisfare la eccitata curiosità del lettore ed evitargli passi troppo lunghi e troppo bruschi : nella guisa istessa, il secondo è imprescindibile e ineluttabile, perché, là dove la distribuzione dei dannati è stata fin'ora informata a evidente concetto aristotelico (più tardi espresso nell' XI Canto), là dove lo sarà anche in séguito per gli altri colpevoli o violenti o frodolenti o traditori, non lo è altrettanto qui, mentre bisogna sia; di maniera che è facile intendere come, se fu possibile il brusco passare dai golosi (faccio un esempio casuale) agli avari, lasciar Cerbero per dir di Pluto, senz'altro, senza sfumature che attenuassero agli occhi il rapido susseguirsi delle tinte diverse, senza note di legame, che favorissero all'orecchio il trascorso da un tòno a un diverso, non è per contro possibile ora procedimento sí fatto, perché manca qui ciò che non là, VOglio dire un preordinato comune e riconosciuto piano concettuale e ideale che, facile e palese al lettore, accettato dal Poeta e da chi si ciba di lui, ponga quest'ultimo nella favorevole condizione di aspettarsi in precedenza la categoria di peccatori che realmente gli verrà descritta. Chi nel Medioevo fece lettura della Commedia, avendo fresche nella memoria le parole di Aristotele attorno alle tre disposizioni che il Ciel non vuole, ricordando le comuni in allora suddivisioni dei peccati, non poté maravigliare, se scôrse dopo Francesca Ciacco o dopo Ciacco i tonduti o dopo questi Filippo Argenti delli Adimari; sí piú tosto, stupire, piú che poté, dové, in leggere degli 1 Cfr. Etica, VII, 1. 1 |