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Perché fu possibile ad altri pensare all'invidia? Perché Megera lo permette: perché una sfumatura dell'insegnamento che le figlie di Acheronte contengono le conviene. Ed io, piú sopra, scôrsi, come radice della tracotanza diabolica, l'invidia a punto.

Continuo in qual modo si pensò dal Filomusi a passionalità violenta? disordinata ? Si pensò da che i loro atti agitati lo consentono e da che il loro sangue lo esige. Ma io vidi, nelle mosse sconvolte, l'analogia con altre identiche, nel sangue, l'effetto di una colpa che ne versa e ne fa ridondare al colpevole; scôrsi nelle Furie in somma quella che è veramente, perché Dante lo dice, la suprema passione, seme del concupiscibile e dell' irascibile, la superbia in breve.

Onde i diversi comenti collimano, in una loro parte, a convalidare la mia interpretazione, cosí nel suo fondamento come nei suoi particolari. Segno che ciascuno aveva veduto esatto, per un lato solo però: qual maraviglia che io, il quale avevo assimilato le loro opposte dottrine, abbia potuto, erede del loro senno, vedere il tutto, in una sintesi che ha solo la parvenza piú superficiale ed esteriore di esser nuova? L'edificio c'era; ma era diviso qua e là, per i diversi magazzini nei diversi punti della città; bastò avere contezza di tutti per raccogliere i materiali che si commisero fra loro, spontaneamente quasi.

VIII.

Posso affermare altrettanto di una seconda categoria di comentatori: i quali, per contrapposto ai primi di cui è detto o chiacchierato sopra, vollero vedere nelle Furie, non già uno stato passionale inerente a un peccato o causa di esso, bensí una condizione,

intrinseca o estrinseca, posteriore a ogni modo alla colpa. Ma spiego che cosa mai intenda per << condizione intrinseca », per « condizione estrinseca con la prima frase voglio alludere a quel sentimento che consegue all' errore, che è detto rimorso, che induce a penitenza con la seconda in vece la pena inflitta al peccato da una coercizione esterna, da una forza moventesi dal di fuori, dal di fuori reprimente. Secondo, a punto, questi due diversi concetti si allineano, di qua e di là, i

comenti.

Ravvisa il Lombardi di fatti nelle Furie il pentimento. Ravvisano di fatti il Fraticelli, il Bianchi, il Tommaseo nelle Furie il rimorso. A tutta prima sembra abbiano essi ragione. Non é Dante il peccatore? E bene: il pentimento o rimorso che dir si voglia li rattiene per l'appunto nella via del peccato, lo sofferma con forze laceranti, con torture aspre e grida forti (siamo avvezzi alla coscienza che parla ed ha una voce sua), lo arresta con lo spavento del mal commesso, del mal che sta per commettere. Bravi! Ché non è Dante il peccatore in quanto pecca, ma in quanto ha peccato, e si redime. Ché non è l'Inferno il viaggio e il progresso per le vie delle colpe, se non come mezzo di redenzione e salvezza e purificazione. Ché non è Vergilio, illuminato intelletto, l'aiuto a commetter la colpa, sí il mezzo e l'ausilio a redimerla e detergerne la macchia sozza. Onde il rimorso o pentimento sarà, ve lo concedo, lo stato iniziale, la primitiva disposizione psichica di Dante a promuovere il suo viag gio redimitore, sarà esso (non solleviamo, però, un' altra ardua questione su questo) da ravvisare e discernere, forse, in quel primo risveglio nella selva oscura, in quel primo accorgersi del traviamento fuor della diritta strada; non è non è da ravvisare e discernere in vece in queste Furie; che non stimolano a proseguire nella salvezza, sí arrestano o tentano arrestare; che non sono né punto né poco il morso d' un'accorta scienza, ma sono e certo e assai l'impedimento a che la penitenza sia completa e tutta. Restano tuttavia altri punti non dilucidati e chiariti: non la triplice figurazione, e gli atti di ciascuna delle cattive, e il posto di qua di là nel mezzo, e il luogo sulla torre alla cima rovente, e le membra feminili. Onde

CO

Giornale dantesco, anno XIX, quad. I.

3

come errata la interpretazione è incompleta. Rimane infine un incompatibile contrasto di cosí fatto comento con le parole del Messo,

rimproveratore forse di penitenza?; con gli atti e le mosse diaboliche, con le resistenze dei più di mille dal ciel piovuti, origine forse di rigenerazione e purificazione sí come il rimorso è?; con le cure di Vergilio a indicare le feroci Erine, meschine della Regina dell' eterno pianto, cure forse e attributi adatti a un sano rimorso ? Onde come incompleta cosí disdicevole è la interpretazione di tali comentatori.

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Ha, per caso, piú ragione l'Andreoli, il quale sostiene le Furie convenire a pieno insieme con la punizione dei peccatori. Non urta, anzi tutto, in quel primo ostacolo contro il quale s' infranse, súbito che fu, apparecchiata e guernita, fuori dal porto, la nave degli altri: da poi che la punizione che una superiore potenza infligge ai colpevoli è gran parte fra i mezzi che han da condurre a salvezza il Poeta; anzi egli cosa fa piú che osservarne di continuo, per nove cerchi infernali, per nove spianate del Monte ove ragion ne fruga, i modi le regole l'incessante pungolo il rigore giustissimo? Bene, bene quindi Vergilio l'addita e precisa a Dante; anco in ciò non erra la ragione che sa. Ma la ragione sa che solo giovevole può essere il rimirar le pene, quando in esse si scorga l'applicazione di una legge divina, il volere divino, la giustizia di Dio, quando vi si vegga, sotto il turpe aspetto demoniaco che vanno assumendo, sotto il bollir della pece, il color del sangue, l'assiderar del ghiaccio, l'alito del supremo Fattore, offeso e intento a rivendicare il violato rispetto del suo impero, a ripristinare la scossa e incrinata sua autorità. Per questo Caronte grida incontro a Dante; ma se Vergilio mormori pure « Dio », si quetan le lanose gote, obbedisce il remo al cenno ch'è venuto dall'alto. Per questo Pluto invoca: Pape Satan aleppe; ma se Vergilio susurri soltanto « Cielo », il maledetto lupo consuma in sé con la sua rabbia. Tutti sono, è chiaro, tormento diabolico dei peccatori, ma gli governa Iddio, ma gli regge Quello, ma il suo volere è norma. Qui per contro, che è avvenuto? Ma l'opposto! Qui le Furie urlano contro Dante e lo minacciano, perché i dèmoni non prestarono orecchio a Vergilio, e Vergilio diceva, ad essi ancóra, « Dio». Le

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Furie adunque in realtà sono qui, erette sulle mura, contro Dante, ma e contro Dio, il cui volere misconoscono, la cui Giustizia trascurano, la cui Misericordia cancellano, o vogliono. Avanti, dopo ciò, chi ha il coraggio, di affermare in esse la punizione dei peccati, punizione voluta da Dio! avanti! Gli darei una stretta di mano: perché il coraggio mi piace. Ma lo metterei a una seconda prova. Di grazia gli direi sono elleno le Furie simbolo della punizione dei peccatori? O mi spieghi allora perché il Messo minaccia ai dèmoni, che le suscitarono sulle loro mura, come i nostri artiglieri pongono i cannoni nelle loro fortezze, vergogna e doglia, perché ricorda loro il mento e il gozzo pelato di quel che Lei sa! Io, per me, non l'intendo. Difatti all' asserzione dell' Andreoli contradicono, oltre che, come s'è visto, gli antecedenti, cosí anche i conseguenti del fatto. Ma lo sottoporrei ad una terza prova: tale è la protervia di lui, e la mia! La punizione dei peccatori - sta bene; ma io ci vo' vedere soddisfatte due condizioni, sine quibus non so scorgere il valore di cotal simbolo ci ha da esser anzi tutto, da una parte il terrore della violenta pena, ma e dall'altra la sofferenza del colpevole: ci ha poi da essere uno spiccato carattere di costanza e consuetudine, di abituale ripetizione. Cosí difatti è (mi viene in mente per il primo) Cerbero: ingoia' ed isquae bado ben bene al presente, ch'è di abitudine introna l'anime ch'esser vorrebber sorde. Là Dante, peccatore in via di redenzione, può, sí, farsi accorto dell'errore che lo travia e lo acceca e perseverare nel bene. Ma qui qui son mutati i termini: perché le Furie gridano non contro chi ha peccato, ma contro chi, vivo, osa attraversare la morta città di Dite, sia pure col permesso divino, sia pure con l'aiuto del sennato Vergilio; manca quindi ciò che essenziale, manca, cioè, quel peccatore, di cui le Erinni sieno il tormento terribile e la gravosa pena: e perché d' altra parte spiccatissimo è il carattere d'eccezionalità ond' è impressa tutta la scena, da principio a fine; tanto, che un Messo scende, giú dal Cielo, a posta per questo, rimprovera i dèmoni di quelle resistenze, che le Furie rappresentano in sommo grado, come di una colpa, consuetudinaria per loro nel suo carat

tra

1 Testo dell' ediz. E. Moore, 3a ediz., Oxford, 1904.

tere generico di oltracotanza, eccezionale e singolare invece nelle qualità specifiche con cui si preparò per Dante. Or come sarebbe effigiato qui un ammaestramento morale che rammentasse la punizione dei peccatori, ove l'oggetto della pena non è un peccatore, che il peccato lorda, ma un colpevole, che si sta dalla colpa ripulendo; ove anche è cosí evidente e biasimata l'eccezionalità della resisistenza? In nessun modo, è chiaro.

o sia

Ultimo, tra gli appartenenti a questa medesima classe di comentatori, annovero lo Scartazzini; di cui è nota l'interpretazione che fa le Furie uguali a « mala coscienza », essendo i diavoli uguali ai miscredenti. Mala coscienza è espressione di contenuto dubbio ; a me pare tuttavia di doverla intendere come < coscienza dei propri peccati ed errori » o sia « coscienza di sé stesso, del proprio operato ed agire, in quanto questo ha un contenuto MALO, è macchiato da errori ». Anche qui, adunque, le Furie son viste equivalenti a uno stato affettivo posteriore alla colpa. E intendo benissimo come lo Scartazzini sia giunto, ch' ei non dice, al suo comento: chi ha coscienza di aver commesso colpe dannabili e sa il male che gliene ridonderebbe in altra vita e la durezza della penitenza che, per evitar quello, dovrebbe farne qui sulla terra, è facilmente indotto a negare la vita di là, a bestemmiare Iddio, a dubbiare sugli argomenti di fede, a scuotere e agitare il domma. Ed è vero. Verissimo. Di piú tal coscienza è fatta di spasimi e di tormenti; come d' urla e di sangue le Erinni. Ed è giusto. Giustissimo. Arresta inoltre nella conversione il peccatore che sta per redimersi; ma può essere, nei suoi esiziali effetti, neutralizzata quando ci se ne faccia accorti; come dice Vergilio a Dante « Guarda » . Innegabile. Ma, per favore, scendiamo da queste linee piú generali ai tratti piú minuti. Non veggo per Dante il bisogno di specificare cosí particolareggiatamente le Erinni, dirne una per una il nome, descrivere di questa e quella e l'altra le mosse e le voci; ove a ciascun nome non si dia un valore, a ciascun atto un significato, a ciascuna voce un contenuto dottrinale. Non veggo perché il Messo, biasimando la superbia dei diavoli, ometta di vituperare anche cosí colpevole malizia delle Erinni, fonte di un riprovevolissimo dubbio. Non veggo in fine che è di più capitale

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importanza

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perché le Furie riguardino in giuso, dov'è Dante, dov'è il peccatore che si redime, ma che solo fin'ora ha veduto colpe di incontinenze, d'altre non ha acquistato quella coscienza mala da cui dovrebbe essere arrestato nel suo cammino; mentre di colpe piú gravi e di più gravi pene deve ancóra farsi accorto nei cerchi che seguono. Insomma, è bensi vero che la coscienza del mal fatto rattiene sulla via di pentimento, ma è logico debba piú rattenere in relazione d'un maggior male: piú lorda coscienza, piú forza d'arresto; più impulso al dubbio eretico. Perché allora dopo gl' incontinenti le Furie, dopo ciò è che Dante ha a pena cominciato a distinguer nette fra le sue colpe quelle di cupidigia e il fine che compete loro? Conchiudendo in breve: i particolari delle persone, il modo della reazione, il luogo e la postura negano si possa riconoscere nelle Furie il simbolo della mala coscienza.

IX.

C'è, chi voglia vedere, anche nelle tre interpretazioni che ho finito or ora di confutare, un elemento positivo, utile a conferma della mia tèsi, come ce n'erano, e s'è detto, molti negativi, incapaci di sgretolarla affatto.

È evidente, súbito, il carattere riflessivo che contaddistingue la prima tèsi: il rimorso è, per l'appunto, il peccato che avvelena sé stesso, il peccatore che punge sé medesimo. E bene: io ho scorto questo carattere nelle Furie, come l'avevo scorto nei dèmoni e in Filippo Argenti, l'ho mostrato a lungo; eccolo ribadito e da chi? dai miei avversari in persona! Perché quelli avevano, dunque, bene distinto una particola di verità; l'errore era nel resto.

La seconda tèsi poi illumina bene un altro aspetto della mia opinione. Per due motivi si è potuto in fatti risalire a sostenere esser le Furie simbolo della punizione dei peccatori : per il terrore che inspirano a Dante: per la violenza manifestata contro di lui. E i due motivi sono, né piú né meno, due innegabili condizioni di fatto non compatibili pure con la mia tèsi, sí anzi necessarie a questa. Ho mostrato per vero come tanto la superbia umana quanto la tracotanza diabolica sieno rivolte, oltre che contro Dio misericordioso e

giusto, oltre che, per la seconda, contro la ragione valida, anche, e specialmente per entrambe, contro l' uomo sensibile, contro Dante cioè, che Filippo offende, che i dèmoni ingiuriano, che tutt' e due minacciano, a pari delle furiose Erinni. Ho mostrato del resto anche come Dante dinanzi al superiore demoniaco tremi, e s'accosti a Vergilio davanti alla súbita comparsa delle Furie; perché l'effetto, ch' io riconobbi in lui, della superbia è, prima ancóra che il dubbio, il terrore. Ma c'è di piú: anche la parte sbagliata di questa seconda tesi, che tanto m'aiuta concordando con me, conferma il mio asserto. L'aver confuso Dante, il quale ha peccato ma si redime, con un peccatore indurito, nacque, certo, (è psicologia cotesta; e perché ne rifiuteremmo l'aiuto?) dall'evidente insistenza con cui nella figura del Poeta è, per quella scena, rilevato il carattere del senso, del fragile limitato debole senso, che parve (e poteva facilmente parere) anche il senso errante e colpevole, facendo dimenticare il real fine del viaggio attraverso i regni bui. Ora, che sia Dante il senso umano è della mia teorica parte essenziale, che, tolta, lascerebbe grave lacuna.

Passiamo alla terza tèsi, dello Scartazzini. Se la coscienza mala o come io, forse a ragione, interpreto (ci tocca interpretare anche i dantisti, dice argutamente il Filomusi, con un suo fare di rancore e rampogna) la coscienza del peccato rattiene il Poeta nella sua redenzione e lo spinge all'eresia, vediamo un po' qui perché mai? Via, non c'è bisogno affatto che lo vediam noi, perché quel Dante, che pensa a tutto e tutto prevede (non previde forse soltanto i nostri comenti, se no se no....) ha apparecchiato il cibo, che ci sfami, in altra parte del suo Poema. Dice Catone :

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Cogliete, or su, nella spiaggia, là vicino al mare, il salice pieghevole, il flessibile giunco; se ne faccia corona il peccatore e entri con essa nei miei domini. Giunco? Sí, umiltà. Dunque per guardare la mala coscienza, per sondarla, come Vergilio vuole, nelle sue forme e nei suoi aspetti, che cos'è che occorre? è quel che a purgarsi sul monte, quel che a redimersi ovunque: l'umiltà di cuore; quel che al Fraticello piacque. Or perché? Perché, caratteristica propria e imprescindibile della mala coscienza è la superbia. Ci siamo.

E siamo a posto. Tanto il fondamento es

senziale della mia tèsi quanto i particolari piú diversi risultano, non lisi o negati dalle tèsi opposte, sí piú tosto novellamente riconfermati. Me ne rallegro.

X.

Se non che le tre diaboliche figure delle Furie portano legata seco, triste compagnia !, la testa di Medusa, che fa di smalto gli uomini. Spiegare quelle è opera incompleta, se non si spiega questa.

Ma, per fortuna nostra, è dessa minore ostacolo, men aspra difficoltà: come quella che si vede gran parte appianata dai lavori travagliosi e dalle fatiche ardue durate per tentare l'enimmatico aspetto delle figlie di Acheronte e della Notte, piú triste del padre e... più buie della madre; onde chi vide in qualche guisa un tal quale simbolo in queste, non dura affanno a riconoscerne un altro, in relazione, per quella. Ma, dico in relazione. Come fatto esso? Può, in vero, essere quello tra l'agente, che opera, e il mezzo, di cui si vale; o pure quello tra la causa, che determina, e l'effetto, che ne nasce. Le opinioni si sono, naturalmente, divise; ma vediamo quale di essa abbia maggiore probabilità di certezza, e vediamolo, al solito, con la guida di Dante.

« Venga Medusa; sí il farem di smalto »>,
dicevan tutte riguardando in giuso...

A tutta prima vien fatto, letti appena questi due versi, di rispondere súbito: Medusa è un mezzo; un mezzo che le Furie invocano per loro aiuto, scôrta già infruttuosa l'opera propria, allo scopo di arrestar quel vivo, che la vista tanto orrenda delle tre sorelle non poté che mal soffermare. Ma bisogna, sempre, guardar più in là della prima corteccia, anche se non molto sottile. Supponiamo per un momento che Dante divenga realmente di smalto. E cerchiamo di risalire punto per punto, dall' effetto constatato, a traverso le cause più vicine, alla causa prima e remota. Dante è pietra. Lo impietrí Medusa. Medusa è forza, a sé e indipendente, con sue attitudini e suoi caratteri, non originata, che importi, da altri, senza dunque causa movente. Ma chi ne determinò l'intervento, chi la chiamò, chi fu causa ch'ella giungesse sulle mura e rendesse di smalto il Poeta nostro ?

Le Furie. Sicché è assurdo ritenere Medusa effetto delle Erinni, perché ella ha diverse qualità, diverse caratteristiche, diversi modi di procedimento, diverse origini anche; ma è necessario riconoscere come, nel caso speciale, l'intervento suo e la presenza sieno da quelle originate, onde una relazione causale corre; non tra le Furie e Medusa, ma tra le Furie e il presentarsi di Medusa. No, non si dica, non è sottigliezza; è giusta distinzione, tanto opportuna che il non averla sempre fatta fu causa di errori. Non fu cioè veduto sempre e da tutti che, cosí com'è effigiata da Dante, Medusa deve raffigurare, in relazione alle meschine di Proserpina, uno stato d'animo, non solo mezzo a quelle, né meno di quelle effetto in quanto è, sí di quelle conseguenza in quanto viene che è ad un tempo relazione di causa e relazione di mezzo.

Questa considerazione preliminare giova da sola a porre in un canto numerose interpretazioni. Anzi tutte quelle del Lombardi e del Fraticelli (il quale dice nel suo comento cosí : < Forse che per le Furie viene significato il rimorso, che, piú che l'ira di Dio, tormenta i peccatori come in questa cosí nell' altra vita. E per il volto di MEDUSA, che avea virtú d'impietrar la gente, si vuol rappresentare il PLACER DE' SENSI, il quale, indurando il cuore dell'uomo, ne oscura l'intelletto ») perché non si mostra relazione alcuna possibile tra le Furie e Medusa, né se ne lascia intuire una per nessun modo contrariamente alla piú limpida evidenza della lettera nel testo. Anzi, dirò di piú, non pure si trascura una necessaria relazione tra le due allegorie, bensí anche si crea tra esse una palese disconvenienza, giacché il rimorso come potrebbe valersi della libidine o piacer dei sensi ? L'errore è cosí ovvio che sarebbe colpa di prolissità l'indugiarvisi più a lungo per un'inutile confutazione! Poi restano in séguito eliminati quelli, tra i comenti, i quali veggono e mostrano nella Gorgone esclusivamente o il mezzo o l'effetto tra i secondi, quanti vi scorgono la dimenticanza, conseguenza di eretica malizia, o la perdita della grazia (obduratio), effetto di eresia: tra i primi, quanti vi affermano invece i beni mondani, strumento dell' odio o dell'ira o del furore, oppure le lusinghe, arma della voluttà: comenti tutti macchiati di quello che potrei dire peccato d'origine e infirmabili

quindi, quand' anche si volesse accettar per vera la interpretazione delle Furie, che risultò invece a me del tutto falsa e su cui si fondano essi.

Rimangono, che soddisfacciano alla pregiudiziale su posta, tre spiegazioni: è Medusa il terrore: è Medusa il dubbio: è Medusa l'eresia : perché dubbio terrore eresia non sarebbero causati dalle Furie, ma favoriti, avendo altra origine, diversa, e altri caratteri, differenti. Qual' è la buona e vera, tra di esse? Nessuno, tranne che Dante, ce ne può far sicuri. Ricorriamo (per la centesima volta? sia!) a Lui, adunque. In primo luogo constatiamo come terrore, dubbio, eresia, rappresentino, non già tre concetti distinti separati e a sé stanti, bensí una serie ideologica, perché non è difficile il discorso dal primo d'essi termini al secondo, da questo al terzo. Non è difficile, specialmente se teniam presenti gli stati psichici che Dante ebbe cura di contrassegnare dinanzi alla nostra attenzione durante lo svolgimento drammatico dei fatti occorsigli nel buio Inferno. Egli ha prima tremato e s'è stretto a Vergilio: terrore. Ha poi dubitato, con Vergilio, che gli fosse reciso il cammino, e l' esitazione gli nacque dallo spavento: dubbio nato da terrore. È stato da ultimo a repentaglio di obliare la grazia divina da cui pure era scorto, di trascurarla, che è quasi negarla; è stato insomma in rischio di venir meno alla fede: eresia, nata dal dubbio. Si tratta adunque adesso, non più di precisare l'esattezza o l'errore di tre concetti, ma di preferire un momento di una certa serie ideale e psichica, un anello di una catena di affetti e pensieri. Dei quali uno a caso potrebbe essere per avventura rappresentato da Medusa, perché tutti li provò in antecedenza Dante; ma qui, dove si fa una rappresentazione allegorica, è necessario che ogni persona (e, fra le altre, Dante pure) vi assuma un carattere simbolico e velato. Ora, qual simbolo gli s'adatta meglio? quello, s'è visto, dell' uomo sensibile; ma qual passione piú particolarmente lo caratterizza? è evidente che quella dello spavento o, se vogliam dirla co' termini altrui, del terrore. Medusa non è, dunque, terrore, perché Dante lo raffigura invece : e non vi può essere, in una scena allegorica, esistenza contemporanea di due persone nascondenti insieme il medesimo concetto. D'altra parte non può

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