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essere eresia perché questa non impietra già, non arresta, ma spinge a moto su di una via errata; perché l' eretico non tace, ma nega il vero, afferma il falso, sostiene di argomenti e quella negazione e questa affermazione, agisce insomma, fa, opera. Cosí d' eresia parla Dante a proposito di Atanasio papa: lo qual trasse Fotin dalla via dritta » ; dov'è significato appunto il concetto di un moto su falso cammino, sia pure tra sterpi e rovi. Né è fondata un' altra, del genere, sottigliezza: impietrar l'eresia, perché è questa esaltazione di materia, carne o pietra. Al contrario, anzi tutto precisamente l'età di mezzo fu piena di eresie spirituali, che, non negando né Dio né anima, ne discutevano l'essenza. Inoltre Dante medesimo, punendo gli eretici col martorio del fuoco, mostra la natura di lor peccato simile piú tosto all' ardore della vampa che all'induramento della pietra. Il dubbio invece si confà a perfezione all' allegoria dantesca : le Furie (checché esse sieno) hanno atterrito Dante; il terrore è adatto terreno per il germinare del dubbio: venga Medusa! la quale potrà impietrarlo, tenerlo, cioè, in quell' esitanza e incertezza tra f ede ed eresia, che lascerà trionfare la prima, se soccorra la ragione (Vergilio) e Iddio (Messo dal cielo), ma lascerà prevalere la seconda, se manchi l'aiuto e venga meno il sostegno (ecco gli Epicurei).

Ma che fo, intanto? Non me ne accorgo; ma per confutare le errate interpretazioni della

Medusa dantesca, e mostrarne il lato manco, ricorro ad argomenti che, come son fondati da Dante e tolti dalla Commedia medesima, cosí son le basi istesse su cui è fondata la mia ipotesi. Ho ragione di crederla, ancóra una volta, la piú esatta.

E la credo tale difatti.

XI.

Perché forse son cieco. Non privo tuttavia di ragione; per ciò la fo nota: affinché ne scorga altri i difetti, ne vagli, se ve n' ha, come m' auguro, i pregi, e serbi il buono, ripudiando il falso.

Nel cantiere rumoroso di opere, agitato di lavoratori, tra il frastuono degli attrezzi, il fervido travagliar delle macchine, cresce bella e svelta la nave che solcherà i flutti; ma l'ingegnere che le ha dato un' anima, la sua, se ha potuto prevederne dentro certi limiti le falle, ed evitarle, aspetta ancóra dal mare la sentenza ultima: attende che le mille lingue avide, le quali orla la spuma, e tutte hanno una parola loro, e tutte celano aguzzo, sotto l'azzurro, un dente, provino una per una le assi e ne cimentino le commessure e vi faccian gli esperimenti loro e dieno l'estrema sentenza, l'inappellabile, l' ultimo giudizio, il fatale.

Attendo il verdetto dal mare.
25 Dicembre, 1910.

ALDO FERRABINO.

COMUNICAZIONI E APPUNTI

L'opuscolo XXXII di s. Pier Damiano fonte diretta della « Divina Commedia » ?

Il prof. Paolo Amaducci, provveditore agli studii a Rovigo, noto ai cultori di Dante per suoi pregiati lavori, ha testé esposto ai soci della regia Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna in Bologna, nell' adunanza del 26 marzo u. s., i dati di studio per i quali si può, — secondo egli afferma, — provare che la fonte diretta della Divina Commedia è l'opuscolo XXXII di san Pier Damiano, intitolato: De quadragesima sive de quadraginta duabus Hebraeorum mansionibus.

Crediamo utile raccoglier qui, col cortese consentimento dell'Amaducci, dal Corriere di Romagna (4-9 aprile), le conclusioni alle quali viene l'Amaducci stesso, e sulle quali è pur desiderio di lui richiamare l'attenzione degli studiosi. 1

Dai raffronti stabiliti fra il poema dantesco e l'opuscolo del Damiano dall' Amaducci, risulterebbe che il viaggio di Dante dall' uscita dalla selva all' Empireo è imagine del viaggio degli Ebrei dall' uscita dall' Egitto alla terra promessa; che i cento Canti della Commedia devono, per il contenuto loro, essere distinti in quarantadue marcie e fermate (mansioni), quante furono quelle degli Ebrei; che ciascuna marcia e fermata ha quei medesimi sensi allegorici che s. Pier Damiano attribuisce, in detto opuscolo, a quelle degli Ebrei.

Conseguenze di tali indagini sarebbero, sem

1 Si vegga intanto, su questo argomento, uno scritto, eccessivamente severo e scettico a dir vero, di E. G. Parodi: La fonte diretta della « Divina Commedia », nel Marzocco di Firenze (XVI, 16).

pre secondo l'Amaducci, principalmente queste: ai fondamenti ipotetici, sui quali s'è basata finora la interpretazione del Poema, viene sostituito il fondamento scientifico; la piú gran parte dei problemi od enigmi che da sei secoli affaticano invano gli studiosi trova facile e certa spiegazione; vie del tutto nuove si aprono a piú sicura conoscenza e valutazione anche della parte artistica; Ravenna all'antica gloria di avere offerto cortese ospitalità al Poeta e di custodirne religiosamente le ossa, ne aggiunge una nuova, la maggiore forse, di avergli, per opera del suo massimo scrittore, fornito lo schema, cioè la trama e l'orditura, per il poema divino.

Il prof. Amaducci dichiara di essere stato mosso al presente lavoro, cioè alla ricerca di attinenze fra la Divina Commedia e le opere di s. Pier Damiano, specialmente dalla lettura degli Studii sulla « Divina Commedia » di Francesco d' Ovidio, e dalla Storia di s. Pier Damiano e del suo tempo scritta dal cardinale Alfonso Capecelatro. Negli Studii del d'Ovidio fermarono la sua attenzione, in modo più particolare, i passi seguenti: « Poiché il Damiano fu di Ravenna, alla quale e ai congiunti (cosa notevole in un monaco) serbò grande affezione, difficilmente si potrà dubitare che l' Alighieri non l'abbia vie piú prediletto per riconoscenza alla città che fu il suo ultimo ostello, e in cui forse questo canto (il XXI del Paradiso) fu scritto. Come pur sarebbe da cercare se non vi sia qualche legame tra quel che si fa inculcare da lui intorno alla predestinazione e quel che il Damiano ne avesse effettivamente insegnato negli scritti suoi. Felice chi avesse

agio di fare una tal ricerca, e in generale di andare scovando quante reminiscenze di pensieri del monaco di Fonte Avellana si trovino per avventura appiattate e nel Poema e nelle altre opere di Dante! A me, nello sfogliare quei volumi, venivano queste riflessioni malinconiche: curiosa la sorte di questi scrittori ! Il latinista non li legge perché son fuori della vera latinità, lo studioso delle lettere volgari perché scrissero in latino; il laicato perché gli puzzan di sacrestia; il clero perché spesso è tuttora macchiato di quella ignoranza che da essi gli era apposta: il chiosatore di Dante perché nemmeno sospetta quanto lume ne attingerebbe. Ed eccoli qui seppelliti in queste carte, piene di polvere e di muffa, privi del beneficio di un' edizione maneggevole e conforme alle abitudini moderne! Pure, che calor di sentimento, d'immaginazione, d' impeti generosi, che lampi di genio, che vigoria d'argomentazioni, che lepidezza graziosa, che potenza di stile è in alcuni di loro! Questo, per esempio, non dovremmo noi laici averlo carissimo? Sarebbe una gran bella cosa se altri facesse minuto confronto delle sue opere con quelle dell' Alighieri ». E nella Storia del Capecelatro la seguente osservazione: < Chi volesse raccogliere tutte le visioni, raccontate da s. Pier Damiano sopra la fede de' suoi amici e devoti, potrebbe vedere quasi tutti i peccati puniti nell'Inferno in un modo speciale. Il divino poema dell' Alighieri, che è una continua visione, trova un certo raffronto in molti libri del medio evo, e specialmente in quelli del nostro Santo ».

A provare le quali attinenze fra le opere del santo ravennate e la Commedia di Dante, era già stata addotta la più singolare di coteste visioni, che il Damiano riporta come narrata dal suo grande confratello Ildebrando Arcidiacono di s. romana Chiesa (poi Papa Gregorio VII), nella cattedrale di Arezzo, al cospetto del Papa Nicolò II. La visione è questa: « Nelle contrade di Germania un Conte, ricco e assai potente e, quel che in tal categoria d' uomini è un miracolo trovare, di buon nome e di vita onesta (secondo quel che ne giudicava la gente) morí circa dieci anni sono. Morto che fu, un religioso uomo discese in ispirito all' Inferno e vide questo Conte posto nel gradino più alto di una scala. E diceva che quella scala si vedeva eretta fra le stridenti e ultrici fiamme di un crepitante incen

dio, e che v'era stata messa per accogliere tutti i discendenti di quella famiglia di Conti. Il luogo poi, dal quale usciva fuori quella scala, era un oscuro chaos, un immane baratro dalla bocca infinitamente spalancata, e profondissimo. Il séguito de' successori del Conte veniva, perciò, disposto in modo che quando ne scendeva giú uno nuovo, questo doveva occupare il primo dei gradini della scala, e quello che già vi si trovava, e tutti gli altri con lui, dovevano scendere nel gradino immediatamente sotto. E cosí anche per gli altri della stessa famiglia: quando venivano via via, dopo morte, alla detta scala, quelli che già vi erano, lasciando, súbito, il loro posto, per necessità di inevitabile giudizio, se ne andavano piú basso. Allora quell' uomo, à cui fu dato di veder questo, domandò la causa di tanto orrenda dannazione, e, specialmente, perché quel Conte, vissuto al tempo suo, fosse punito, essendo stato tanto giusto, tanto da bene, tanto galantuomo; e sentí dire: che questo avveniva a cagione dell' avere un suo antenato tolto al beato Stefano un podere della chiesa di Metz; che quegli era il suo decimo successore, e che gli altri erano stati puniti allo stesso modo. Come una medesima colpa di avarizia li aveva uniti tutti nello stesso peccato, cosí uno stesso supplicio li riuniva a sostenere le pene di un incendio atroce ».

Il Villemain, che riprodusse questa visione nel suo Quadro della Letteratura medioevale, la ritenne come il germe primitivo della Commedia, come il pensiero di un uomo di genio, ingranditosi a traverso i secoli e arricchitosi di accessorî, ripreso da un altr'uomo di genio. Quel< noviziato progressivo dell' Inferno > giú per la terribile scala, gli era sembrato riprodursi ampliato nei nove cerchi danteschi, con la loro continua progressione.

Il D'Ovidio considera per troppo esorbitante l'ipotesi del Villemain, ma riconosce che tutti debbono scorgere averne Dante potuto derivar la pena de' simoniaci, dei quali ogni ultimo venuto respinge piú basso i dannati già confitti nella buca, e prende il primo posto. Dubitare che il riscontro, pur cosí circoscritto, sia forse casuale, si potrebbe; ma sarebbe una delle stolide imprudenze della soverchia prudenza. Troppo caratteristici sono questi tratti comuni fra le due imaginazioni... Ma quel che più importa è che il sermone

aretino l'Alighieri lo trovava riassunto nelle opere di uno scrittore a lui caro... Insomma non vi è alcuna temerità a dubitare che Dante non solo conoscesse, ma dovesse aver molto presente un racconto che, oltre il resto, era riferito, con tanti ricami, da uno scrittore a lui famigliare ».

sovrano una lingua da poco più che due secoli parlata, da forse un secolo tentata in leggiere, e pedestri e pedisseque scritture » (I. Del Lungo).

« Il capolavoro del genio non è una creazione ex nihilo, ma rampolla dal pensiero comune del tempo suo; da ciò anzi traendo non piccola parte della sua efficacia; e l'originalità vera consiste in ben altro che nell' invenzione di tutte e singole le linee generali schematiche del poema, o di tutti appuntino gli espedienti e gli episodi che ne compongono la macchina e l'ordito. Studiate senza paura le fonti della « Divina Commedia » n' è emersa vie piú chiara

Reminiscenze e riscontri, dunque, piú che probabili, e altri e certi furono rilevati dal Bella Torre, dal Capetti, dal Moore... ma all' Amaducci era sempre parso di poter, logicamente, indurne altri che attestassero piú intima comunione di sentimenti e di pensieri tra Dante e il Damiano, meditando su quel Canto XXI del Paradiso, di cui il Damiano è protagoni- | l'originalità nella parte più essenzialmente poesta, e volendo darsi ragione della festa che, più di tutti gli altri spiriti contemplativi, egli fa al Poeta:

E quel lume che presso più ci si ritenne si fe' si chiaro, ch'io dicea pensando : Io veggio ben l'amor che tu m'accenne (vv. 43-45).

Anche il genio ha leggi alle quali non può sottrarre l'opera sua: neppur esso crea di pianta, ma esplica, trasforma, perfeziona.

« L'originalità delle opere dell' ingegno umano è assai più spesso nella forma che nella materia; perocché anche negli uomini grandissimi, la facoltà d'imaginare nuove cose è contenuta entro limiti molto ristretti, mentre è infinitamente più grande quella di dare atteggiamenti nuovi alla materia preesistente. Dante non si sottrasse a questa legge, e nella sua « Commedia » accolse gli elementi più disparati da tutte quelle fonti che potevano essere aperte al suo secolo e al suo ingegno» (Casini).

« L'originalità di Dante sta nell' aver fatto suo proprio il pensiero dell' età sua con tanta efficacia di quanta non dà forse esempio alcun' altra opera d'arte : l'originalità e la grandezza di Dante sta nell' aver trasformato un materiale greggio e resistente in un lavoro mirabile per sicurezza e armonie di linee, potenza di atteggiamenti, idealità di contorni, pur conservando a quel materiale l'attrattiva della sua genuina rozzezza; nell' averlo saputo far servire non tanto al soggettivo disegno di una creazione fantastica, quanto a un intendimento universale e perpetuo di civile moralità sta, infine, nell'aver padroneggiata come

tica. Pur dove Dante non inventò seppe scegliere; dove non creava di pianta ricreò, immortalò ciò che senza di lui sarebbe perito, sublimò ciò che in altri era rimasto pedestre, stampò l'orma sua anche dove rifaceva il cammino altrui» (D' Ovidio). Cosí« di quella condizione singolare per cui il grande poema riesce opera d'impareggiabile originalità, pur dovendo infinitamente al mondo che lo circonda, potrà esserci miglior immagine un grande albero che da una parte si sprofonda nel suolo, ad aspirarne succhi per mille e mille radici, e dall' altra si eleva meravigliosamente poderoso, ricco di rami, lussureggiante di foglie, tutto rivestito di fiori (Rajna).

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In verità, pochi altri uomini, per autorità e dottrina, poteva la Chiesa contarne di cosí grandi come Damiano; anzi nel suo secolo, che fu l'undicesimo, egli non ha pari se non forse Ildebrando, e per piú dati lo supera. « Il Damiano fu quasi precursore di Gregorio VII, maggiore di mente; piú operoso, piú austero ai potenti; deputato a santificare la Chiesa con la efficacia delle parole. Sostenne egli la pugna terribilissima che le facevano internamente le corruzioni ed i vizi: lo spirito severo e meditativo suo si manifestò nella lotta combattuta per darle la libertà delle passioni e dei vizi. Fu lotta di religiosa libertà, senza paragone, nobile ed alta » (Capecelatro).

« Tra i grandi che fanno corona ad Ildebrando è primissimo quell' austero romito Pier Damiano, che, nascosto nella solitudine, nei primi anni visse vita pinttosto angelica che

Giornale dantesco, anno XIX, quad. I.

umana, e poscia uscendone fuora parve un miracolo d' uomo, posto da Dio per innamorare tutti i Cristiani de' beni celesti e duraturi. Pier Damiano, ricchissimo di vita, piú che non soleano essere gli uomini pur cosí vivi del medio evo; di anima fervida e bollente; naturato ad una virtú solitaria e rigidissima, fu non saprei se piú monaco od apostolo, o meglio con mirabile intreccio l'uno e l'altro ad un tempo. Egli romito, vescovo e cardinale, non ebbe altro che un grido in tutta la sua vita. E fu il grido della virtú cristiana contro la simonia e l'incontinenza onde cherici e laici si macchiavano; non visse per altro che per tuonare terribilmente contro questi peccati.

<< Ovunque si recasse, coll' esempio, con la parola e con le lacrime imprecava ai malvagi contaminatori delle cose sante, flagellandoli colla focosa eloquenza del suo discorso e piú con la smisurata possanza della sua virtú. Mandato pel mondo da diversi Pontefici, Stefano, Nicolò, Alessandro, corse di città in città togliendo le infule episcopali dal capo di coloro che le avevano insozzate di simonia e di lascivia. Chiamato ne' concilii, domandò leggi per diradicare questi pessimi vizi della Chiesa; rientrato nella solitudine del romitorio, scrisse fulminee parole contro i contaminati da sí fatte brutture, e stancò il cielo con le sue preghiere pel miglioramento de' chericali costumi. Brevemente, fu angelo di Dio mandato principalmente per iscuotere coloro che, dimentichi dell' altezza dei loro ministeri, erano infiacchiti dalla cupidità dell' oro e dei piaceri » (D'Ovidio).

Per questo, papa Alessandro, mandandolo suo nunzio in Francia, poteva, a buon diritto, presentarlo agli Arcivescovi con queste parole....tale uomo, di cui non è chi abbia maggior autorità nella Chiesa dopo di noi. Egli è Pier Damiano, vescovo ostiense, il quale è come il nostro occhio e la immobile base dell' apostolica sede ».

Né minore è la sua gloria di scrittore.... « Il monaco avellanese fu veramente un miracolo di sapere. Fu teologo eccellente e sacro scrittore da sorpassare tutti quelli del suo tempo e da agguagliare molti di quei che rifulsero nei giorni più belli della Cristianità. Sol che alcuno percorra i suoi libri con solerzia, di leggieri si avverte che non è forse

una sola verità teologica, la quale non sia stata da lui copiosamente discussa ed intrecciata alle verità morali che o ne derivano o per qualsiasi maniera vi hanno attinenza. E Pier Damiano maestro di spirito fu poco differente da Pier Damiano teologo. Assai sovente incontra vedere nei suoi libri che una lettera di lui scritta ad un vescovo, per dimostrare questa o quella verità teologica, si compia con documenti spirituali utilissimi alla perfezione cristiana, e tali che potrebbero di per sé soli formare un trattatello di morale e di ascetica »..

« La luce che il Damiano studiava di spargere come teologo nella Chiesa procedeva in qualche parte dai Padri che lo avevano preceduto, ma in verità nella sua pienezza si attingeva tutta dalla sacra Scrittura. Pier Damiano, come tologo, è supremamente biblico; sicché per la cognizione di quel divino libro e l'arte di farlo servire alle verità definite della Chiesa, non è inferiore ad alcuno dei Padri piú eccellenti del quarto e del quinto secolo. Ei può ben stare per codesto rispetto a lato degli Agostini, dei Gregori, dei Grisostomi; ma piú specialmente si assomiglia a san Geronimo. Entrambi si mostrarono profondi conoscitori della Bibbia, e, poco o punto curando la parte razionale, la Bibbia posero a fondamento della loro teologia, entrambi si studiarono di cercare gli argomenti teologici non solo nelle parole, ma eziandio nei vari fatti narrati nella Scrittura, che talvolta rendono a chi crede un linguaggio piú eloquente delle stesse santissime parole» (D'Ovidio).

Ma quanto all' arte del dire e allo stile, il Damiano non può reggere al paragone di Geronimo, che ricorda gli aurei giorni dell'antica latinità. Veramente la colpa di ciò non è tanto nello scrittore quanto nei tempi ; perché Pier Damiano anziché peggiorare la testura del favellare della sua età, in gran parte la corresse e la purificò, onde spesso incontrano ne' suoi opuscoli e nelle sue epistole dei tratti eloquenti di quella maschia e nobile eloquenza, che non può stare senza una grande perfezione di stilc. Ma pure sovente la nobiltà e la robustezza del discorso è guasta nel Damiano da un un troppo frequente iperboleggiare, da abuso di immagini, da alcune strane metafore, da una cotale gonfiezza che fa bello il parlare di una mendace bellezza, e,

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