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sembrando arricchirlo, lo impoverisce e lo snerva. Talvolta leggendo Pier Damiano ti parrebbe di essere nel seicento, se non ti avvennissi poco dopo in altri luoghi bellissimi e degni di miglior tempo. Ma i difetti dello stile del Damiano, che in gran parte furon peccato del secolo, procedettero eziandio in lui dalla bollente e tempestosa natura del suo animo, la quale spesso non trovando modo a manifestarsi convenevolmente al di fuora, lo obbligò al parlare iperbolico e gonfio» (Capecelatro).

È cosí, sostanzialmente, riprodotto il giudizio che di lui già diede il Petrarca nel De vita solitaria: « Questo Pietro, per quanto ricavo dagli ultimi suoi scritti, tenne il Cardinalato con molta lode, e fu uomo non meno chiaro per autorità che per dottrina ».

Quella medesima necessità che mosse Boezio a parlare di sè medesimo acciocché sotto pretesto di << Consolazione » scusasse la perpetuale infamia del suo esilio, mostrando quello essere ingiusto, mosse Dante, l' esule innocente, a scrivere la Commedia. Si ricordino i versi coi quali comincia il XXV del Paradiso :

Se mai continga che il poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra, si che m'ha fatto per piú anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov'io dormii agnello, nemico ai lupi che gli dànno guerra,

con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta ed in sul fonte

del mio battesmo prenderò il cappello.

E, come qui, piú volte, altrove, la stessa nota: l'affermazione della pena ingiustamente patita, gli strali saettati dall'arco dell' esilio, il vóto, apertamente significato o malamente celato, del richiamo in patria. « Ahi piaciuto fosse al Dispensatore dell' universo che la cagione della mia scusa non fosse stata! ché né altri contro me avria fallato, né io sofferto avrei pena ingiustamente; pena dico d'esilio e di povertà.... Poiché fu piacere dei cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuori del suo dolcissimo seno, nel quale nato e nudrito fui fino al colmo della mia vita, e nel quale, con buona pace di quelli, desidero con tutto il cuore di

riposare l'animo stanco, e terminare il tempo che mi è dato, per le parti quasi tutte, alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato mostrando contro mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno senza vela e senza governo, portato a diversi porti e faci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertà, e sono vile apparito agli occhi di molti che forse per alcuna fama in altra forma m'avevano immaginato, nel cospetto dei quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sí già fatta come quella che fosse a fare ».

Onde il Carducci poté scrivere : « Firenze è sempre il caro e crudele fantasima che lo perseguita. Lasciategli finire il Paradiso, e la sua gloria vincerà la crudeltà che fuor lo serra, lasciategli finire il Paradiso e si vedranno gran mutamenti, e Firenze aprirà non pur la porta di S. Gallo al suo vecchio fuoruscito, ma le porte di S. Giovanni al maggior poeta d'Italia. A Firenze, dunque, a Firenze fia meglio cuoprire della verde fronda i capelli canuti: eran biondi quand' ei ne partì:

Nonne triumphales melius pexare capillos et patrio, redeam si quando, abscondere canos fronde sub inserta solitum flavescere Sarno?

E altrove : « Nella solitudine dell'esilio, in una notte di dolore, Dante imaginò, disegnò, distribuí, adornò, dipinse, fissò in tutti i minimi particolari, il suo monumento gigantesco, il domo e la tomba del medio evo ».

Venuto, dunque, che gli fu l'estro del poema sacro, che doveva dell'esilio narrare tutti i dolori e conservar viva in lui la speranza di potere, in virtú d'esso, tornare, vincitore della crudeltà che fuori lo serrava, in patria, Dante, pur dottissimo, sia « per tornare al modo che alcuno sconsolato aveva tenuto a consolarsi » cioè alla lettura di libri anche poco conosciuti nei quali altri cattivo e discacciato consolato s'avea », sia per farne incetta e tesoro per il poema suo, dovè pur vòlgersi di proposito a quella letteratura che

«

i dolori e le speranze e le vittorie d'altri grandi esuli aveva narrato. Ciò, pertanto, doveva ricercarsi se, per caso, fosse, e in quale forma, nelle opere del santo ravennate; non senza la speranza che « siccome esser suole che l'uomo va cercando argento e fuori della intenzione trova oro, lo quale occulta cagione presenta non senza forse divino imperio potesse ivi essere ascosa o velata quella mirabile visione che gli fece proporre di non parlare più di Beatrice, finché non avesse potuto piú degnamente trattare di lei. « Apparve a me una mirabile visione ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire di questa benedetta, in fino a tanto ch'io potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sí com' ella sa veracemente. Sí che se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fu detto d'alcuno. E poi piaccia a colui ch'è sire della cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice la quale gloriosamente mira nella faccia di Colui, qui est per cuncta saecula benedictus in saecula saeculorum. Amen.

E poiché in siffatte investigazioni tanto a miglior diritto si può sperare di cogliere la verità, quanto piú a freno si tenga lo spirito soggettivo che facilmente le pervade, fu considerata come norma costante di giudizio questa: «Se ad intuire il vero può giovar un po' di baldanza, ad assicurarlo è necessaria la modestia del sottomettere a dubbio metodico ciò che è balenato alla mente, e la pazienza del verificare tutto ciò che possa portare o a ribadire un concetto, o a rinunciarvi come ad un abbaglio, o a darlo solo come una mera possibilità »; e quest'altra, che «la cautela non istà solo nel non affrettarsi a concludere che Dante imitò questo o quello, non appena si ravvisi qualche tratto comune, ma sta pure nel non atteggiarsi a soverchio scetticismo innanzi ad ogni scoperta di tal fatto. Sta sopratutto nello sceverare accuratamente il certo dal probabile, il probabile dal possibile; benché a ciò egli non ci dia alcun volontario aiuto. Ché se di citar gli autori classici ei si fa un pregio, del menzionare i libri medievali, di regola, è assolutamente immemore » (D'Ovidio).

Sospinto da tutte queste ragioni e con la guida de' criteri ora accennati, l'Amaducci si pose allo studio delle opere del santo e, dopo anni di costante e operoso lavoro, ebbe la somma fortuna di riconoscere in uno de' suoi opuscoli la fonte da cui direttamente Dante derivò la trama e l'orditura della Commedia.

È questo l'opuscolo trentaduesimo della raccolta, col titolo: De quadragesima sive de quadraginta duabus Hebraeorum mansionibus. Ha forma di trattato ed è diretto al cardinale Ildebrando, di cui è sopra parola.

Il Damiano, prendendo occasione da un religioso che per quaranta giorni di seguito si asteneva da cibi di grasso, non solo quando ciò è stabilito dalla chiesa, ma anche in altri tempi dell' anno, raccoglie, in detto opuscolo, dai sacri scrittori i misteri del numero quaranta e alcune altre sue particolari prerogative, e poi, interpretando misticamente i quarantadue luoghi nei quali gli Ebrei si fermarono, ramingando per quaranta anni nel deserto, prima di giungere alla terra promessa, dimostra assai chiaramente che, con essi, si vuole, in modo occulto, significare il cammino della vita dell' uomo cristiano, il quale arriva al proprio perfezionamento e alla propria felicità, passando, a così dire, per un egual numero di gradi di virtú..

Le parole precise del santo sono queste : << Chi segue, camminando, la misura del numero quaranta si affretta insieme con gli Ebrei, dopo aver lasciato l'Egitto, verso la patria. Con questo numero, infatti, il popolo d'Israele entrò nella terra promessa. Ed o quanto è profonda e meravigliosa l'altezza del mistero ! poiché, seguendo quella stessa linea sacramentale con la quale Iddio si presentò agli uomini, l'uomo tornò al suo Creatore. E per verità quarantadue sono le mansioni de' figliuoli d'Israele nell'uscita dall' Egitto, e quarantadue sono le generazioni per le quali si deriva la venuta di Cristo Salvatore nel mondo. Con quello stesso numero, dunque, col quale il Signore discese nel più basso fondo di questo Egitto, il popolo d'Israele salí alla terra promessa. Discese egli perché questo salisse. Prese egli forma di servo perché questo, fatto libero, uscisse dall'ergastolo della servitù. Il che, avvertitamente, fu confermato da Mosè, quando disse: Salirono i figliuoli d'Israele con la virtú loro. E quale altra è la virtú degli

eletti se non Cristo, che è la virtú di Dio ? Chi, pertanto, sale, sale con lui che discese fra noi non per necessità, ma per degnazione: acciocché non si dubiti della verità di quanto dice l'apostolo: Colui che discese è quell'istesso che anche ascese sopra tutti i cieli per dar compimento a tutte le cose ».

Séguita, dicendo, che Mosè descrisse le mansioni dei figliuoli d' Israele da quando uscirono dalla terra d'Egitto « per il comandamento del Signore ». E se ciò fu scritto per comandamento del Signore, chi oserà dire che non sia utile, e che non apporti bene alcuno di salute? Per questo si propone di restringere in modo sommario le figure di quelle mansioni e di annotare ciò che gli sarà dato derivare da quanto su esse scrissero i Padri, affinchè tutti quelli che poco credono alla loro utilità dal gusto delle briciole che cadono imparino a conoscere come la mensa sovrabbondi delle nettaree vivande di un sontuoso banchetto ».

Con tali propositi, comincia dal notare che tutto quel ragionamento e ogni cosa ch' ivi si legge come avvenuta storicamente, si adempie per intero in noi in virtú di una misteriosa, spirituale significazione. Perché ciò che allora avvenne visibilmente conviene nel suo senso spirituale a noi; quegli antichi tempi militarono per il tempo nostro. Quei fatti, ben dice l'Apostolo, accadevano loro in figura. Perché siam noi che usciamo fuori dalla fornace della servitú egiziana e ci sforziamo di entrare nella terra promessa passando per moltissimi luoghi e fermate, cioè percorrendo i diversi gradi di virtú. Ma giacché, se si fa eccezione della sola tribú di Levi, i Padri caddero morti, quasi tutti, nel deserto, e a quella terra non arrivarono che i figliuoli, è necessario che l'uomo vecchio muoia in noi e che l'uomo nuovo, creato secondo Dio, si faccia forte per ottenere la terra dei viventi. Chi desidera, dunque, di pervenire alle promesse dei Padri, non si curi di possedere in terra, insieme con la tribú di Levi, il funicolo dell'eredità. Perché chi si prostra a terra per le cose della terra, chi, mentre è da celebrare con amarezza la Pasqua e fare velocemente passaggio, confida piú lungamente godere, dicendo: O anima hai molti beni riposti per molti anni, riposa, mangia, bevi, gozzoviglia » ben a ragione merita di sentirsi dire: « 0

stolto questa notte vorranno da te l'anima tua; or quanto hai messo da parte di chi sarà ? » Questi, dunque, non è ucciso di giorno, ma di notte, come i primogeniti degli Egiziani, perché non disprezzò l'Egitto, ma prestò ossequio ai rettori delle tenebre i quali ora, di notte, domandano come propria l'anima di lui, perché odiò la luce e non conseguí la verità della giustizia ».

Tornando poi al mistero piú alto del numero quarantadue, cosí chiude il breve proemio del trattato : « Dunque, come s'è detto, i figliuoli d' Israele arrivarono a mettersi in possesso dell'eredità per possederla, salendo per quarantadue mansioni. E il principio dell'eredità per possederla fu quando Ruben e Gad e la metà della tribú di Manasse diventarono padroni della terra di Galaad; e come essi salirono per quarantadue mansioni, cosí il nostro Signore discese per altrettanti Padri nell' Egitto di questo mondo. Ora se noi intendiamo quanto abbia in sè di sacramentale questo numero, dell' umana ascesa e della divina discesa, incominciamo già a salire per dove Cristo discese e a edificare per noi come prima mansione quella che per lui fu l'ultima.

Ora la prima generazione di Cristo cominciò da Abramo, e l'ultima finí nella Vergine. E poiché Abramo s' interpreta « eccelso Padre » noi incominciamo il cammino nostro dalla Vergine, affinché, peregrinando poi per i seguenti luoghi delle mansioni, possiamo arrivare in fine a Dio, ch'è l'eccelso Padre nostro. Pertanto, volendo noi uscire dall'Egitto, ci si presenta prima il parto della Vergine; dobbiamo, cioè, credere che il Verbo di Dio, fattosi carne, sia venuto in questo mondo; e, abbandonate tutte le cose caduche e transitorie, in lui riposarci, in lui porre l'abitacolo della nostra quiete e speranza. Dopo ciò, studiando di migliorare e di salire su per i singoli gradini della fede e della virtú, tanto tempo dobbiamo indugiarci in ciascuno di essi, quanto è necessario perché le virtú si convertano in abitudini. E si noti che, quantunque andare e non muoversi, e, per ciò, camminare e star fermi siano atti tra loro del tutto discordanti e contradditorii, pure è confermato dalla scrittura che in quell'avanzata del popolo d'Israele, l'uno e l'altro convennero in tal modo da potersi dire che gl' Israeliti, per il deserto, e camminarono e si fermarono, ad un tempo. A

questo modo anche noi che ci affatichiamo per giungere nella terra dei viventi, dobbiamo fermarci per l'accrescimento di abitudini che devono esser fatte migliori, e di profitti che devono essere accumulati.

Quattro, pertanto, sono i sensi in che è intesa ed esposta dal Damiano la storia del ritorno del popolo d' Israele, raccontataci dalla Sacra Scrittura, precisamente come Dante intese ed espose nel capitolo primo del secondo trattato del Convito, e nel paragrafo settimo dell' epistola a Cangrande. « Si vuole sapere che le scritture si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi.... siccome veder si può in quel canto del Profeta che dice che nell' uscita del popolo d' Israele d'Egitto, la Giudea è fatta santa e libera »; e « il qual modo d' adoperare (delle scritture) perché meglio chiariscasi, si può considerare in quelle parole: « Quando Israele si partí Quando Israele si partí dall' Egitto, e la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, la nazione giudaica fu consacrata a Dio, e dominio di lui divenne Israele ». Conciossiaché se guardiamo solo alla lettera vi veggiamo significare l'escita de' figli d' Israele dall'Egitto al tempo di Moisè; se all'allegoria vi veggiamo significato la redenzione nostra operata per Gesù Cristo; se al senso morale, vi scorgiamo la conversione dell' anima dal pianto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia; se al senso anagogico, vi riconosciamo il passaggio dell' anima Santa dalla schiavitú della presente corruzione alla libertà della gloria eterna ». Cosí anche il senso della Commedia non è, per attestazione di lui, semplice; chè « anzi ella può dirsi polisensa, vale a dire di piú sensi; perciocché altro è il senso che si ha dalla lettera, altro è quello che si ha dalla lettera, altro è quello che si ha dalle cose per la lettera significate ».

*

Il racconto delle marcie e fermate d'Israele dall'uscita dall' Egitto fino al Giordano è contenuto nel paragrafo 33° dei Numeri, ne' versetti che vanno dal primo al quarantotto inclusive, ed è questo:

Queste son le mosse de' figliuoli d'Israele, che uscirono fuor del paese d'Egitto, distinti per le loro schiere, sotto la condotta di Mosè e di Aaronne (or Mosè scrisse le lor mosse, secondo le lor partite). Essi adunque si parti

ov'erano

rono di Rameses, nel primo mese, nel quintodecimo giorno del primo mese; i figliuoli d'Israele si partirono il giorno appresso la Pasqua, a mano alzata, alla vista di tutti gli Egizi, mentre gli Egizi seppellivano quelli che il Signore aveva percossi fra loro, ch' erano tutti i primogeniti. Or il Signore avea fatti giudizi sopra i lor dii. I figliuoli d'Israele, adunque, partitisi di Rameses si accamparono in Succot. E, partitisi di Succot, si accamparono in Etam, ch'è nell'estremità del deserto. E, partitisi di Etam, si rivolsero verso la foce di Hirot, ch'è di rincontro a Baalsefon e si accamparono dinanzi a Migdol. Poi, partitisi d' innanzi a Hirot, passarono per mezzo il mare, traendo verso il deserto; e, andati tre giorni di cammino per lo deserto di Etam, si accamparono in Mara. E, partitisi di Mara giunsero in Elim, ov' erano dodici fonti d'acqua, e settanta palme, e si accamparono quivi. E, partitisi di Elim, si accamparono presso il mar rosso. E, partitisi dal mar rosso, si accamparono nel deserto di Sin. E, partitisi dal deserto di Sin, si accamparono in Dofca. E, partitisi di Dofca, si accamparono in Alus. E, partitisi di Alus, si accamparono in Refidim, ove non era acqua da bere per il popolo. E, partitisi di Refidim, si accamparono nel deserto del Sinai. E, partitisi dal deserto di Sinai, si accamparono in Chibrot-taava. E, partitisi di Chibrot-taava si accamparono in Haserot. E, partitisi di Haserot, si accamparono in Ritma. E, partitisi di Ritma si accamparono in Rimmon-peres. E, partitisi di Rimmon-peres, si accamparono in Libna. E, partitisi di Libna, si accamparono in Rissa. E, partitisi di Rissa, si accamparono in Chehelata. E, parpartitisi di Chehelata, si accamparono nel Monte Sefer. E, partitisi dal monte di Sefer, si accamparono in Harada. E, partitisi di Harada si accamparono in Machelot. E, partitisi di Machelot, si accamparono in Tahat. E, partitisi di Tahat, si accamparono in Tera. E partitisi di Tera, si accamparono in Mitca. E, partitisi di Mitca, si accamparono in Hasmona. E, partitisi di Hosmona si accamparono in Moserot. E, partitisi di Moserot, si accamparono in BeneIaacan. E, partitisi di Bene-Iaacan, si accamparono in Hor-ghidgad. E, partitisi di Horghidgad si accamparono in Iotbata. E, partitisi di Iotbata si accamparono in Abrona. E, partitisi di Abrona, si accamparono in Esion-gaber. E partitisi di Esion-gaber, si accamparono nel

deserto di Sin, ch'è Cades. E, partitisi di Cades, si accamparono nel monte di Hor, nell'estremità del paese di Edom. Poi partitisi dal monte di Hor, si accamparono in Salmona. E, partitisi di Salmona, si accamparono in Funon. E, partitisi di Funon, si accamparono in Obot. E, partitisi di Obot, si accamparono a' Poggi di Abarim, a' confini di Moab. E, partitisi dai Poggi, si accamparono in Dibon-Gad. E, partitisi di Dibon-Gad, si accamparono in Almon, verso Diblataim. E, partitisi d'Almon, verso Diblataim, si accamparono ne' monti di Abarim, dirimpetto a Nebo. E partitisi da' monti di Aba rim, si accamparono nelle campagne di Moab, presso al Giordano di Gerico ».

Come ciascuna delle quarantadue» mansioni ha un proprio nome o particolare indicazione, cosí ciascuna ha uno o più sensi letterali. Il raccogliere e il fermare ciascuno di questi è di suprema importanza, per potere poi addivenire alle significazioni loro spirituali, che ci sono di norma e di guida ad avanzarci dall'esilio di questo mondo alla terra dei viventi, ch'è il cielo. Dante non si scosterà da questa regola, come ben dimostra doversi fare nel capitolo primo, trattato secondo del Convito : « Sempre lo litterale (senso) deve andare innanzi, siccome quello nella cui sentenza gli altri sono inchiusi, e senza la quale sarebbe impossibile e irrazionale intendere gli altri; e massimamente all' allegorico è impossibile, perocché in ciascuna cosa che ha '1 dentro e 'l fuori, è impossibile venire al dentro, se prima non si viene al di fuori; onde, conciossiacché nelle Scritture la sentenza litterale sia sempre al di fuori, impossibile è venire all'altre massimamente all' allegorica, senza prima venire alla litterale. Ancóra è impossibile, perciocché in ciascuna cosa naturale e artificiale è impossibile procedere alla forma, senza prima essere disposto il soggetto, sopra che la forma dee stare; siccome impossibile è la forma dell' oro venire, se la materia, cioè lo suo suggetto, non è prima disposta ed apparecchiata; e la forma dell' arca venire se la materia, cioè lo legno non è prima disposto ed apparecchiato. Onde conciosiacosacché la litterale sentenza sempre sia suggetto e materia dell' altre, massimamente dell' allegorica, impossibile è prima venire alla conoscenza dell'altre che alla sua. Ancóra è impossibile, perocché in ciascuna cosa naturale e artificiale è

impossibile procedere, se prima non è fatto il fondamento, siccome nella casa, e siccome nello studiare; onde conciossiaché 'l dimostrare sia edificazione di scienza e la litterale dimostrazione sia fondamento dell' altre, massimamente dell' allegorica, impossibile è all' altre venire prima che a quella. Ancora posto che possibile fosse, sarebbe irrazionale, cioè fuori d' ordine: però con molta fatica e con molto errore si procederebbe. Onde siccome dice il Filosofo nel primo della Fisica, la natura vuole che ordinatamente si proceda nella nostra conoscenza, cioè da quello che conoscemo meglio, in quello che conoscemo non cosí bene; dico che la natura vuole, in quanto questa via di conoscere è in noi naturalmente innata, e però se gli altri sensi da' letterati sono meno intesi (che sono, siccome manifestamente appare), irrazionabile sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato ».

Pertanto, san Pier Damiano, prima di venire alla mistica esposizione di ciascuna delle « quarantadue » mansioni, incomincia dal fissare, singolarmente e diligentemente, il significato o i significati loro letterali. I quali sono i seguenti: 1. Ramese (i nomi sono, ora, riferiti come si trovano nella maggior parte delle edizioni delle opere del santo): « commozione d'animo torbida » o « commozione d'animo suscitata dalla tignuola >> O << commozione d'animo suscitata da tuoni » 2. Sochot: « tabernacoli (tende, padiglioni) 3. Ethan o Buthan: « fortezza » Ovalle » 4. Phiairoth: << bocca dei nobili » O << parola dei dottori » ; o Osiraath« bocca del sobborgo » o« principio di una nuova conservazione » ; Beelsephon: << salita della specola o della torre >> oppure Signore dell'Aquilone » Magdalo: « magnificenza » 5. Mara; « amarezza » 6. Elim ov' erano dodici fontane di acqua e settanta palme, « Arieti » 7. Presso il mar rosso 8. Nel deserto di Sin: « roveto >>>

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