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Si chiude il trattato del Damiano con un epilogo in cui è detto che gli argomenti sono stati da lui esposti in modo del tutto sommario e, per cosí dire, a volo; che i piú profondi misteri li deve studiare il confratello suo Ildebrando, perché meno aggravato di fatiche. Egli ha offerto l'occasione di cercare e d'intendere, ma non ha dato il modo di intendere compiutamente. Si sono di quelle mansioni aperte, in certo qual modo, soltanto le porte; spetta ora alla scienza e alla sapienza di Ildebrando d'entrar dentro e cercare di conoscere i maggiori misteri, talenti occulti di un tesoro celeste perchè sostanziati di mistici sacramenti di allegorie spirituali. E bene egli può farlo, come colui che ha preso à prestito dagli Egiziani il tesoro col quale costruire tabernacoli a Dio, che, cioè, ha letto que' poeti e filosofi, mercé cui si prende vigore a scrutare i misteri della parola celeste.

Nella mansione dodicesima si accenna pure alla trattazione compendiosa della materia, e allo svolgimento amplissimo che le si potrebbe dare: «Se noi volessimo abbracciare quanto in siffatta materia ci si parla dinanzi, ne verrebbe fuori un libro enormemente greve. Trapassiamo, quindi, succintamente sulle mansioni degli Israeliti e non indaghiamo ne' secreti loro cubicoli, ma semplicemente mostriamo ne' nomi di essi come l'esterno delle pareti ».

L'invito che Ildebrando non tenne nel modo in cui forse il Damiano avrebbe voluto, cioè scrivendo anch'egli e piú lungamente intorno al < ponderoso tema» perché altra via si preparava a percorrere, ed altra doveva essere la sua missione, fu raccolto da Dante. Nessun altro fatto poteva apparirgli piú sublime, e quindi, piú altamente poetico, dell' uscita dell'anima dal peccato e della sua santificazione per opera di Gesú; né intempestivo né inopportuno l'invito perché, com'essi, sentiva d'essere il buon Ebreo che dall'Egitto di questo mondo tende alla patria celeste e, a differenza d'essi, bramava tornare da un altro esilio, pur esso penoso, ad un'altra patria, pur caramente diletta, al dolcissimo seno della sua Firenze. E che in lui non fosse difetto di « speranza » ben lo afferma Beatrice :

« Però gli è conceduto che d'Egitto
Venga in Gerusalemme per vedere,
Anzi che il militar gli sia prescritto »>.

(Par., XXV, 55-57).

La esposizione particolareggiata e la dimostrazione di quanto è sopra affermato è contenuta nel lavoro che il prof. Amaducci sta per licenziare alle stampe, e che consterà di due volumi: il primo per il «< testo » del Damiano, e il secondo per il « commento ». Quanto al « testo » sono state seguite queste norme: prima, è tradotto in italiano, con la massima cura e in tutta la sua integrità, l'opuscolo del Damiano, e vi sono apposte alcune note necessarie ad integrare citazioni che ivi ricorrono; quindi sono riferiti i passi corrispondenti della Commedia; in fine è aggiunto ad ogni mansione un breve commento o per fermare, alquanto distesamente, i riscontri, o per esporre significati nuovi, o per far risaltare elementi di stile d'arte sfuggiti, di necessità, ai più acuti osservatori. Segue poi il testo latino secondo l'edizione di Venezia del 1743, che è giudicata la migliore, non senza notare il bisogno di collazionarla nuovamente coi codici delle opere del Santo che si trovano a Roma (Vaticana. N. 3,797), a Montecassino (N. 353, 354) e a Parigi (Biblioteca regia. N. 4154, 2470), (È per avventura, tra essi quello su cui Dante studiò? E vi resta traccia alcuna del suo studio ?...).

Né, molto diversamente, s'è proceduto per il << commento >. Riferita la esposizione che d'ogni singola mansione fu fatta da S. Girolamo, sia perché nessun altro padre della chiesa, prima e dopo il Damiano, trattò più ampiamente e piú sapientemente di lui, cotesto argomento, sia perché dai rapporti col Damiano più chiaramente risulta da chi Dante trasse la inspirazione, sia da ultimo, perché sembra potersi affermare che, quantunque in pochissimi casi e di lieve importanza, pur da esso il Poeta abbia attinto qualche motivo. Seguono quindi note ampie su ogni particolare d'ogni singola mansione, derivate la piú gran parte (e ciò avvertitamente) dalla Bibbia, dagli altri scritti del Damiano, dalle opere minori dell'Alighieri : miniere prime ed inesauste per l'esegesi della Commedia. Tutta la maggior suppellettile pur varia e pur notevole per la contenenza e per i chiarimenti che ne sarebbero risultati, quando è stato possibile, fu ommessa, perché ognuno può facilmente trovarla ne' diversi commentatori, e perché si sarebbe formata opera troppo voluminosa.

Al commento » fa seguire un' appendice

contenente piú luoghi delle tre cantiche, alcuni dei quali di notevolissima importanza, specie per le lunghe coutroversie a cui hanno prestato occasione, che dalle altre opere del Damiano traggono certa o piú plausibile spiegazione, o chiara illustrazione. Tra questi, degni di maggiore osservazione, sono nell' Inferno: «Io avevo una corda intorno cinta » XVI, 106-114); «Allor vid' io maravigliar Virgilio (XXII, 109-127). « Egli avean cappe co' cappucci bassi (XXIII, 61-67); nel Purgatorio: «l'episodio di Buonconte » (per la parte dottrinale e demoniaca) (V, 88-129); il canto della confessione (IX, 52-132); le idee politiche e religiose del Damiano messe a riscontro con quelle di Dante a proposito dei versi 106-114, 127-129 del XVI; nel Paradiso, ciò che si riferisce al mistero della predestinazione (XXI, 91-102); lo scaleo d'oro (XXI, 25-42; la vita di S. Pier Damiano (XXI, 223135; l'invettiva contro Bonifazio VIII (per il contenuto religioso), (XXVII, 22-27; 40-63) il presagio della vicina fine del mondo (XXVII, 121-148; le favole» dei predicatori (XXIX, 103-126): la preghiera alla Vergine (XXIII, 1-39; la visione della Divinità (XXXIII, 115145).

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Avvenuta la pubblicazione, l'Amaducci confida che appariranno manifeste le conseguenze a cui fu accennato da principio. Cioè, che, riconosciuto il trattato del Damiano per lo schema dottrinale a cui Dante informò, con perfetta fusione della lettera e dell'allegoria, la Commedia, alle ipotesi più o meno ingegnose, piú o meno dotte, ma sempre mal sicure, è da sostituire, sempre che ci è dato, questo verace documento e fondamento, come sola guida all'interpretazione. Alla domanda: che volle dire il Poeta ? a che alluse? come sorse in lui questa o quell'i mmagine, questo o quel pensiero, questo o quel sentimento? si dovrà sostituire quest' altra : come Dante concepi ed espresse, col magistero dell'arte divina, l'imagine, il pensiero, il sentimento che, realmente o virtualmente, apertamente o velatamente, è nelle parole del Damiano? Come poeticamente figurò le nuove mansioni e significò i nuovi trapassi dall' una all' altra, cioè le fermate e le marcie dell'anima sua, dell'anima umana, progrediente verso lo spirituale suo perfezionamento? Come dal breve opuscolo trasse fuori i tre regni d'oltretomba,

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li costruí a quel modo, e, in quel modo, distribuí, punendo e premiando, i dannati, i penitenti, i beati ? Con che tutti, o quasi tutti i problemi danteschi, potranno essere risolti o avviati a soluzione, sia per quanto riguarda la genesi, la composizione, il disegno, l'intendimento, la scienza della Commedia, sia per quanto riguarda le particolari allegorie e una infinità di passi o oscuri, o difficili, o controversi; e una nuova onda di poesia si evolverà e sormonterà dagli elementi di stile e d'arte rimasti finora nascosti e per i quali il poema assumerà, non raramente, davanti al nostro giudizio critico od estetico, un'apparenza affatto diversa da quella in che fino ad ora s'è mostrato.

Nudata la figura del Poeta da ogni postuma superfetazione, crede anche, l'Amaducci che apparirà, con perfetta dimostrazione, com'essa sia quale fu riconosciuta da' suoi contemporanei e dalla generazione che immediatamente lo seguì, quale da' critici nostri più recenti è, con serenità di giudizio, giudicato che fosse. «L'Allighieri fu veramente un' anima non solo, essenzialmente, religiosa, ma contemplativa (né senza que' suoi rapimenti ch' erano la forma più alta del sentimento religioso, avremmo avuto la Commedia) un' anima che si espande» (Cian). < Quale apparve la Commedia ai più antichi lettori ? << Sottilissima » e « scritta per utilità di tutti: tale da trarre i mortali su verso i più eccelsi gradi del sapere umano, grazie al singolar privilegio concesso all'autore da Dio che riempiette lui del suo spirito (Flamini). E teologo non meno che poeta fu l'Alighieri salutato anche dalla generazione che fu sua così nell'epitafio che da Bologna aveva mandato l'amico suo Giovanni del Virgilio: « Theologus Dantes.... gloria Musarum »; cosí egli stesso si credette più degno del vagheggiato alloro, cantati i misteri della Fede, perchè era tornato poeta «con altra voce e con altro vello» cioè poeta-teologo,

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Per questo, Giosue Carducci, uso a non mai violentare l'evidenza e a non venire mai meno ai doveri della sincera ermeneutica, cosí confermò: « La vita futura, di cui questa presente è appena una falsa adombrazione e può meglio essere una pia preparazione, era stata il sommo pensiero, tutto il pensiero del po

polo del medio evo, anzi di tutto il popolo rcistiano da dodici secoli. Dante fu la voce di dodici secoli cristiani.... E canta le più alte cose della vita, i più alti pensieri degli uomini, i più alti segreti delle anime e non dell'anima sua, e non di queste o quelle anime, ma di tutte le anime; e li canta cosí profondae li canta cosí profondamente, cosí sinceramente, cosí superiormente, che, quando dal suo mistico prodigioso canto l'aura sacerdotale è vanità, la significazione dottrinale è venuta meno, rimane meravigliosa e insuperabile al mondo la poesia civile ed umana; e il nome del poeta divino di nostra gente vola e s'infutura nei secoli, come la gloria del Campidoglio e il nome di Roma. Havvi momenti storici in che le nazioni, dopo tante e lunghe modificazioni che per una parte hanno operato su la religione e per l'altra hanno dalla religione ricevuto, giungono quasi a a identificarsi con essa religione nei sentimenti e nelle idee, nei costumi e nelle istituzioni allora la religione prende quasi il carattere della nazione, e la nazione quel della religione alla sua volta: in codesti momenti solo è possibile l'epopea religiosa a un tempo e politica. Ciò, dopo Pier Damiano, Francesco Assisi, Tommaso Aquino, Bonaventura, dopo Gregorio Settimo ed Innocenzo terzo, vivente Bonifazio ottavo in quegli ultimi dieci anni del secolo decimoterzo che furono la primavera della democrazia e dell'arte toscana e dell'anima di Dante, era avvenuto al cattolicismo rispetto all'Italia. Ora Dante, com'è natura dei poeti veramente grandi di rappresentare e chiudere un grande passato, Dante fu l'Omero di cotesto momento di civiltà. Ma son momenti che presto passano; e i diversi elementi, dopo incontratisi nelle loro correnti, riprendono ognuno la sua via. Perciò avvenne che della Divina Commedia, rimanendo vivo tutto quel ch'è concezione e rappresentazione individuale, fosse già antica fin nel trecento la forma primigenia, la visione teologica; per ciò Dante non ebbe successori in integro. Egli discese di paradiso, portando seco le chiavi dell' altro mondo, e le gittò nell'abisso del passato: niuno le ha più ritrovate ». E altrove: « La Commedia è, come il poeta la qualificò opera dottrinale.... Ha per oggetto l'uomo in quanto per il libero arbitrio è sommesso alla giustizia che premia e punisce, ha per oggetto di rimuovere i viventi di questa terra dallo stato

di miseria e avviarli alla perfezione e felicità temporale con l'esercizio delle virtú filosofiche, e alla perfezione e beatitudine eterna con l'esercizio delle virtú teologiche. Tale dottrina, per la fede dell'autore e dei tempi poteva mettersi in opera poetica soltanto secondo le credenze religiose del popolo cristiano. Onde la visione, nell'altro mondo delle anime dannate, penitenti, beate; visione, sotto la cui allegoria la morale vede, intende e dimostra i tre stati delle anime in questa vita, il vizio, la conversione, la virtú ».

Coi risultati delle meditate e lunghe ricerche, è da ultimo, esaudito anche il voto di quanti autorevolmente ammonivano essere oramai tempo che la materia dantesca si trattasse in veste d'interpreti, non di mediatori fra lo spirito del poeta e le turbe degli iniziandi; dalla cattedra, non dalla tribuna o dal pergamo; pronti ad accettare le conseguenze che lo studio diligente e spassionato dei fatti c' imponesse, fossero esse o non fossero quelle che meglio arridono all'uno o all'altro di noi; la critica, che può chiamarsi storica del poema dal Foscolo al Tommaseo, trattata come le condizioni d'Italia volevano, con intendimenti civili, o diciam pure politici, dover essere ripresa con eguale altezza e nobiltà d' intendimenti, ma altresí, non con maggiore imparzialità, che sonerebbe immeritamente offensivo, sibbene con quella maggiore serenità che in animi ben disposti deve accompagnarsi alla migliore e piú compiuta conoscenza dei fatti (I. Del lungo); non essere possibile venire a capo di nulla, né per ciò che riguarda la disamina estetica, né per ciò che si riferisce all'intelligenza del pensiero informatore di una opera cosí complessa, com'è la Commedia, se non si segue quel metodo scientifico che la critica, per fortuna nostra, ha instaurato anche in Italia (Flamini).

Il prof. Amaducci, fatti cosí conoscere agli illustri suoi colleghi della Deputazione di storia patria in Bologna, nella tornata del 26 marzo u. s. tutti questi dati di studio che, com'egli fermamente pensa, dimostrano, e meglio dimostreranno, in modo non oppugnabile, la derivazione diretta del divino Poema, quanto alla sua parte dottrinale, dal XXXII opuscolo del Damiano, e segnate le vie che s'aprono al nuovo com

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Giornale dantesco, anno XIX, quad. I.

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